Frontiere


Frontiere – Editoriale
Livan Fratini
 
Quando mi è stato chiesto di scrivere una breve introduzione al volume Frontiere della rivista Cultura e Società ho provato a riassumere che cosa suscita in me questo concetto, consapevole del fatto che i diversi contributi che seguono approfondiscono il tema e ne sviscerano i contenuti in forma più compiuta e puntuale.
La mia personale accezione di Frontiera è positiva: non si tratta di barriere di protezione, ma di obiettivi da raggiungere o se preferite di limiti da superare. Quindi il concetto di Frontiera non è legato a un atteggiamento di difesa, ma al contrario, implica una proposizione di azione. JFK la definì “nuova” spostando idealmente ancora più a ovest – o semplicemente più in là – la frontiera, il confine, che i pionieri a metà del diciannovesimo secolo avevano progressivamente portato sull’oceano pacifico conquistando il far west. I pionieri della Nuova Frontiera intendevano portare i valori della democrazia verso una nuova frontiera tecnologica, di condivisione del benessere, di pace, di sviluppo e di libertà. Dal mio punto di vista è proprio questa la chiave di lettura che dobbiamo utilizzare: spingerci oltre, superare le difficoltà, vincere le diffidenze, conquistare nuovi traguardi sicuramente tecnologici, auspicabilmente sociali e, perché no, umani.
Viviamo oggi una transizione molto importante e delicata: troverete riferimenti precisi e significativi nei contributi di carattere generale degli autori. L’interpretazione del momento da parte del singolo risulta allora fondamentale per fornire un contributo utile al sistema. La paura è cattiva consigliera, la diffidenza induce all’errore e allo scontro.
Tutto intorno a noi sta cambiando o meglio è già cambiato: un bambino degli anni settanta catapultato al giorno d’oggi si sentirebbe spaesato, incredulo nel potere rivedere 100 volte un cartone animato a qualsiasi ora, nel potere telefonare ai genitori mentre si recano al lavoro o semplicemente nello sfiorare lo schermo di un tablet. Molte frontiere tecnologiche sono state superate, in ogni campo, consentendoci di fare cose nuove o di farne di vecchie, ma molto più velocemente. È un momento di tensioni sociali e tra popoli, che sfociano in tragedie e drammi. È un tempo di abbandoni e di lunghi viaggi nella speranza di trovare condizioni migliori o semplicemente sopravvivere. E tutto questo porta spesso al bisogno di proteggersi, di chiudersi, in breve di rifiutare. Di contro, lo spirito propositivo rivolto al superamento del limite è quindi, a mio avviso e probabilmente in un’accezione semplicistica, l’impegno quotidiano nello svolgere le proprie mansioni con puntiglio e determinazione. Sicuri che, se questo è l’approccio, il risultato sarà positivo a livello personale e soprattutto a livello sistemico.
Proviamo quindi a superare ancora il limite ogni giorno: meglio se lo facciamo insieme, otterremo di più, anche come rotariani.
In conclusione vorrei ringraziare gli autori degli articoli raccolti in Frontiere, il loro contributo ha permesso di realizzare il volume arricchendolo di contenuti e spunti di riflessione. Il mio personale più sentito ringraziamento, insieme a quello del Rotary Club Palermo Est, va a tutti quelli che si sono impegnati per la realizzazione di questo numero di Uomo e Società: il Direttore responsabile Davide Camarrone, il Responsabile editoriale Cristina Morrocchi, insieme al coresponsabile editoriale Laura Alderigi, Silvano Bigazzi, Antonio La Spina e Francesco Parisi. Un ringraziamento particolare va a Lidia Maugeri che con tutta la sua energia e il suo impegno ha permesso una pronta e puntuale raccolta di contributi.

torna su


Prefazione
Est modus in rebus

Cristina Morrocchi
 
Oggi, sospesi come siamo tra il desiderio di restaurarne le funzioni consolidandole, e la consapevolezza che questo è impossibile, irrazionale…ingiusto, viviamo un momento nel quale l’idea stessa di frontiera ci mette a disagio. Peraltro le frontiere, siano esse materiali o immateriali, sono abbattute dalla globalizzazione dei mezzi di comunicazione, dalla facilità dei trasporti, dai commerci sempre più aperti, dagli inarrestabili e insopprimibili esodi di massa.
Le frontiere poi, in particolare, tra i paesi, tra le nazioni, mutano ogni giorno: sono ricostituite e soppresse, alternativamente, per decisioni politiche, si ergono con muri spinati, si spostano nelle micidiali guerriglie tra territori, sono aggirate con mille disperati espedienti. E tutto questo accade anche se non lo vogliamo. E tutti ne siamo coinvolti.
C’è chi rifiuta di vederle e, ignorandole, pensa che non verrà toccato dai mutamenti che questa fluidità comporta; c’è chi, in preda alla nostalgia per ipotetiche epoche d’oro, vorrebbe tornare al passato e opera in questo senso; chi si dispera non riuscendo a immaginare cosa possa riservarci il domani, chi passivamente si rassegna, chi, al contrario, esageratamente, esulta.
Sentiamo allora, noi, l’esigenza di individuare un criterio per vivere e per gestire questa fluidità delle frontiere. Fluidità delle frontiere fisiche e materiali, fluidità delle frontiere umane religiose e culturali, dell’ambiente, della medicina, dell’alimentazione, della robotica e dell’informatica. Allora, radici nel passato e ali verso il futuro, dovremmo tornare a Orazio. Potremmo riprendere il suo «est modus in rebus» avendo cura di non tralasciare il resto del suo ragionamento: «sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum». C’è una misura nelle cose, vi sono determinati confini al di là dei quali non può essere il giusto.
Da questo tipo di pensiero, forse, potremmo, e dovremmo, trarre un modello di comportamento “razionale e positivo” e applicarlo nel nostro agire quotidiano, un passo alla volta, una scelta alla volta, senza perdere il senso del “giusto”, impegnandoci nell’oggi qui e ora. Senza nostalgie, senza paure, ma anche senza entusiasmi effimeri.
Consideriamo le nuove tecnologie che hanno il potere di cambiare il mondo senza ricorrere a grandi utopie, trasformando la nostra vita nei fatti; noi potremmo prendere come un esempio di comportamento quello che già quasi tutti facciamo ogni giorno con la sfida rappresentata da quei telefonini, gli smartphone di oggi, che hanno abbattuto le barriere tra telefono e computer e chissà che altro si preparano a fare. È un’esperienza che ci tocca direttamente, che richiede il nostro adeguarci a un mezzo in continua evoluzione. Una frontiera che intreccia la scienza e la tecnologia con i rapporti umani, ed è in continuo movimento. E’ l’uso di un oggetto che a poco a poco modifica i nostri comportamenti di vita, le nostre possibilità, i nostri limiti. E, così, il telefonino, sempre più potente e multifunzione, diviene una nostra necessaria e indispensabile appendice. Ci permette di restare in contatto con gli altri, a cominciare dai nostri figli migranti non poi così diversi dai tanti che arrivano sulle nostre spiagge. Per tanti versi il telefonino migliora la nostra vita: nessuno di noi si mette in viaggio senza, tutti sentiamo musica, mandiamo foto, mail, sms, misuriamo battito cardiaco e pressione, preleviamo denaro così come controlliamo il peso o contiamo i passi. Diveniamo capaci di gestire ubiquità e simultaneità, gestiamo una comunicazione istantanea utilissima ma che non può ancora sostituire delle vere relazioni. Quindi questo stesso meraviglioso oggetto può diventare alienante se diviene l’unico mezzo di comunicazione con gli altri, se impegna tutta la nostra attenzione in videogiochi, chat, social network che diventano sostituti della realtà, che divengono l’unica realtà percepita.
Est modus in rebus.
E infatti, contro ogni catastrofica previsione, i più hanno, verso il telefonino, che è forse l’oggetto simbolo di questi anni, un approccio pacato e molto legato alle proprie esigenze.
Sanno, da un mezzo potentissimo, trarre quello che a loro serve, senza paura, da un lato, senza follie dall’altro.
C’è, diffusa, la coscienza di vivere un periodo di evoluzione, di assistere a un processo continuo e spesso vertiginoso di mutamenti. C’è la coscienza dell’inarrestabilità del processo, ma anche della necessità di gestirlo, di tenerlo nei limiti del “giusto”. Concetto di “giusto” peraltro non definito per sempre, non assoluto, ma anch’esso legato alle contingenze storiche e sociali anch’esse in imprevedibili, veloci mutamenti in tanti campi diversi. È così che dovremmo riuscire ad atteggiarci. Prendere coscienza delle tante variabili frontiere; conoscere il passato, riconoscere il proprio vissuto, la nostra storia e trarne le indicazioni per quell’agire futuro che dev’essere coniugato con le nuove prospettive. Non dovremmo essere né nostalgici né pessimisti e non dovremmo perdere il senso delle proporzioni: la vita degli uomini si è enormemente allungata, ci sono maggiori possibilità di avere una vita degna di esser vissuta di quante ce ne fossero prima, si cominciano a confrontare ipotesi di sviluppo economico e sociale diverse che si spera portino a maggiore equità. Occorre allora provare a ipotizzare una linea (una funzione direbbero i matematici) sapendo che comunque potrà evolversi in vari modi; occorre immaginare, senza timore, anzi con speranza, i futuri scenari e provare a gestirli, senza rigidezze, nel modo migliore.
Dice Papa Bergoglio che non si può essere profeti di calamità: «vedremo quello che accadrà e allora valuteremo. Sempre le cose concrete. Il cristianesimo o è concreto o non è cristianesimo.» E allora stiamo sereni e perché è concretamente possibile che il futuro ci riservi altre, per ora ancora inimmaginabili, benefiche sorprese e nuove frontiere.

torna su


Frontiere e barriere
Silvano Bigazzi
 
Le frontiere di un “umanesimo” che i Popoli d’Europa faticosamente hanno cercato di raggiungere dopo la seconda guerra mondiale, e nei decenni successivi, attraverso la libera circolazione delle idee e delle persone, e, dunque, la progressiva eliminazione di barriere ideologiche e fisiche, sembrano oggi ritrarsi nel guscio di nazionalismi ancora non del tutto delineati nelle singole “fisionomie” politiche ma con un trend di accrescimento che non può che far seriamente preoccupare le istituzioni democratiche dell’Occidente.
Nel finire dell’anno 2016 il panorama politico e sociale che è sotto gli occhi di tutti evidenzia il sorgere e consolidarsi di tendenze estremizzanti, verso malsani populismi venati d’ideologie razziste spesso neppur sorrette da una sia pur distorta “cultura“ politica.
Lo spettacolo che l’Europa sta dando, in tema di accoglienza dei c.d. migranti, ne è lo specchio.
Singole nazioni, per egoismi o precise scelte politiche, stanno chiudendo le loro frontiere, con barriere anche fisiche. Il filo spinato, o i muri, crescono con il progressivo ridursi degli ideali di democrazia, spesso rimossi dalle menti – e dalla pancia – di cittadini sempre più inclini a seguire slogan populistici trasmessi dalla rete internet, senza approfondimenti o controlli sulla realtà dei fatti.
Le soluzioni che di recente l’Europa sembra voler adottare comporterebbero in sostanza un blocco navale vicino alle coste della Libia, che impedirebbe ai profughi dall’Africa, che sfidando la morte su carrette del mare cercando una via di fuga dai massacri e dalla miseria, un avvenire migliore, o comunque diverso. Analoghi “rimedi” saranno forse adottati per chiudere altre vie di fuga, dall’Egitto o dall’Est. Governanti e opposizioni, che per opportunità o convinzione ideologica – nell’ordine – assumono prese di posizione che conducono all’isolazionismo, sembrano aver dimenticato le lezioni che dalle esperienze del secolo precedente avrebbero dovuto pur trarre. Ma la storia, in concreto, non riesce a insegnare.
Eppure, anche limitando le esperienze al secolo precedente, si potrebbe vedere come ogni volta che si sia verificato un deficit di democrazia, e siano cresciute nelle singole nazioni e nel mondo tendenze totalitarie, o isolazioniste, veicolate da dottrine politiche che schematizzando potremmo definire di “destra “ o di “sinistra”, ma pur sempre finalizzate a conservare o espandere un potere del Capo o di una cerchia oligarchica – potere politico, finanziario, economico, e anche militare- il risultato finale degli inevitabili conflitti tra i vari “egoismi” è stata la guerra tra i popoli. Ideologie di per sé rispettabili, e anzi elaborate per il progresso e il benessere del genere umano, sono state in concreto utilizzate come chiave di accesso, per pochi o per un solo, al palazzo del potere. Ma, come si è visto nel secolo precedente, la presenza d’interessi particolaristici, ma conflittuali, ha condotto a due guerre mondiali. E in questo secolo, che ben poco ha imparato dal precedente, contrasti tra ideologie, anche ammantate di fanatismo politico o religioso, vedono una globalizzazione strisciante di guerre nei vari scenari del mondo che tutti conosciamo. E’ in atto, come dice il Papa, una parcellizzata terza guerra mondiale? Ma governi e popoli dell’occidente sembrano non voler percepire i segnali, ormai non troppo lontani, di pericolo per le sempre più logorate e chiuse democrazie. La tendenza a innalzare barriere, reali o ideologiche, nei confronti dell’altro, sia esso cittadino d’Europa o migrante in fuga dai fronti di guerra nel proprio paese – e sempre cagionati dall’interesse di uno o pochi per la conservazione del potere- porterà, se non contrastata, al disfacimento degli ideali unitari di chi ha visto nell’Europa unita anche un baluardo per la conservazione della pace nel mondo. E i segnali che sembrano ora provenire dalle avanzate democrazie inglese e statunitense non sono di conforto. Con la Brexit, l’Inghilterra, tornerà a essere isola, nostalgica di un Impero ormai perduto, ma forse alla lunga economicamente in declino. Gli Stati Uniti, con l’attuale Presidenza, hanno già preso provvedimenti, e altri si apprestano a prendere, che realizzano una chiusura fisica e ideologica nei confronti dell’”altro” – muro con le frontiere del Messico, divieti d’ingresso a profughi e migranti economici del medio oriente, sia provenienti da zone di guerra che da altri paesi dell’area, anche per motivazioni di carattere religioso –: con un ritorno insomma al protezionismo economico e un isolazionismo politico e anche ideologico immemori di quanto occorso nel secolo passato ( sovvengono alla memoria i solleciti che il “ Marinaio” Churchill inviava al “Presidente” Roosevelt perché l’America intervenisse in soccorso dell’Occidente). C’è da sperare che i giovani americani – così come quelli europei – di oggi si ricordino delle battaglie per le libertà individuali e di gruppo, per l’eliminazione di barriere ideologiche e sociali, per una migliore assistenza ai ceti più disagiati, e si muovano anche a difesa delle tutele che la precedente amministrazione aveva approntato, già abolite dal nuovo governo statunitense.
La vecchia Europa, pur con tutte le difficoltà emergenti, ha ancora molto da insegnare in campo assistenziale e previdenziale. Giustizia, Libertà, benessere sociale, una volta perduti sono difficili a ripristinarsi, e richiedono il passaggio di generazioni, per essere di nuovo conseguiti. Nel nostro “particulare” non possiamo che cercare, nella società civile, di combattere culturalmente e politicamente le storture ideologiche che una rozza e interessata consorteria coltiva. Le barriere nascono anzitutto dal modo di pensare di una società sempre meno aperta all’altro.
Resistere, resistere, resistere.

torna su


Dal sogno di Altiero Spinelli alla realtà attuale. Il Manifesto di Ventotene
Pietro Pulvirenti
 
Alla fine della seconda guerra mondiale, sull’onda emozionale causata dal dramma che i popoli europei avevano sofferto, con la morte di milioni di persone e la distruzione di intere città, un gruppo di politici pensatori, da Altiero Spinelli a Robert Schuman , a Ernesto Rossi a Monet, ideò un progetto di Europa unita, senza barriere, di impronta federalista, avendo come base il “Manifesto di Ventotene”.
Questa “Carta”, scritta a Ventotene durante il confino,fu la base ideologica di un sogno politico europeista che però, fin dall’inizio della sua diffusione, sollevò non poche perplessità e resistenze. Il concetto base, ispiratore di tale dottrina, era che l’uomo, nato libero, non poteva essere irreggimentato in schemi politici fissi; che le barriere geografiche non potevano impedire la convivenza di medesime identità etniche, culturali, sociali; che, in sintesi, solo i principi solidali del socialismo potevano e dovevano costituire la soluzione dei problemi politici, economici e sociali che aveva provocato, nell’arco di un solo ventennio, due disastrose guerre mondiali.
In altri termini, gli estensori del Manifesto sostenevano che fosse necessario creare una forza politica esterna ai tradizionali partiti, inevitabilmente legati alle politiche nazionali quindi incapaci di rispondere efficacemente alle sfide derivanti dalla crescente esigenza d’internazionalizzazione.
Ma conseguenza diretta di tale dottrina era – com’era logico che fosse – la inevitabile ancorché parziale cessione di sovranità da parte degli Stati.
Il concetto di frontiera.
È a questo punto necessario affrontare il concetto di frontiera, nella sua molteplicità di significati.
La parola deriva etimologicamente dal latino frons, cioè facciata, ciò che si vede dall’esterno e racchiude un interno. In senso classico, frontiera è la linea che delimita un’area, geografica o anche immateriale; cioè un concetto limitativo. Viceversa, a esempio, nell’accezione usata negli Stati Uniti d’America, la nuova frontiera era quella rappresentata dai territori sconosciuti dell’ovest che i coloni, partendo dalla costa occidentale, andavano a scoprire muovendo verso la costa orientale. Ecco che qui il concetto di frontiera assume un significato diametralmente opposto a quello sopradetto, assumendolo in senso espansivo.
Lo stesso significato possiamo dare se riferito alle nuove frontiere della scienza che spinge i limiti della conoscenza sempre più avanti.
Vediamo, quindi, che il concetto di frontiera, da un significato che indicava staticità, rigore, fermezza, difesa, va trasformandosi in un concetto che esprime dinamicità, movimento, modificazione. Atteso, quindi, che in questo moderno senso dell’espressione, il concetto di frontiera non presenta limiti di sorta, dobbiamo però attenerci al tema e al titolo di questo articolo: è ancora valido il sogno di Spinelli o le frontiere hanno ancora una loro giustificazione esistenziale? La risposta è drammaticamente difficile, specie alla luce dei recenti avvenimenti migratori. Ma già al tempo della nascita dell’idea federalista era difficile pensare che gli Stati nazionali potessero rinunciare a parte della loro identità per confluire in un melting pot indistinto. Gli Stati- nazione non delimitano soltanto aree territoriali, più o meno segnate da fiumi (es. il Reno, fra Francia e Germania) o catene montuose (es. le Alpi, fra Italia e Francia). Delimitano anche culture diverse, lingue diverse, economie diverse. Cosa poteva e può unire e quindi reciprocamente amalgamare, a esempio, un greco e un olandese, un italiano e un finlandese, un francese e un ungherese? Quale punto di contatto poteva e ci può essere tra la cultura derivante dalla tragedia greca e quella che discende delle saghe finniche? Quale convergenza poteva attuarsi fra le tradizioni politiche derivanti dalle democrazie-oligarchie greche e quelle delle centene germaniche, che nascevano solo in caso di necessità belliche, lasciando poi alle singole tribù la libertà di organizzarsi come volevano? Ancora oggi vediamo come sia avvertita la necessità di avere delle frontiere che garantiscano identità linguistiche, sociali e politiche. Non per nulla le popolazioni curde sono alla ricerca della difesa della loro identità in un territorio garantito da frontiere, così come le popolazioni armene hanno lottato per avere riconosciuto un proprio spazio delimitato da confini, mentre le repubbliche ex sovietiche, dopo la fine dell’URSS, si sono già costituite in stati indipendenti con confini definiti.
Concetto di nemico e di alterità.
Interessa, a questo punto, cercare di approfondire e sviluppare un concetto consequenziale a quello di frontiera e cioè il concetto di nemico e quello di alterità. Negli ultimi due decenni si è avuta una trasformazione storica dell’idea di confine che, oltre a esercitare la funzione di separare gli stati-nazione territoriali, rappresenta anche una condizione interna per definire il concetto di cittadino o di una comunità di cittadini.
I confini sono esterni e interni, soggettivi e oggettivi; sono imposti da politiche di stato, da limitazioni giuridiche, da controlli sulla mobilità umana, ma sono anche profondamente radicati nelle identificazioni collettive e nel comune senso di appartenenza.
Proviamo a vedere tutto questo in funzione delle frontiere europee che ormai necessitano di continue dislocazioni e di nuovi tracciati. I recenti casi dell’annessione della Crimea alla Russia e del Donbass ( ex Ucraina) alla stessa Russia, sulla base dichiarata della comune base etnica e della stessa lingua e cultura, dimostrano che le comunità politiche e quelle linguistiche devono condividere le stesse frontiere. Altro esempio di quest’assunto è l’Alto Adige o Sud-Tirolo, territorio di lingua e cultura uguale a quella del Tirolo austriaco, assegnato all’Italia dopo la fine della 1^ guerra mondiale, ma in cui la ricerca e la soddisfazione della heimat è stata risolta solo dagli accordi De Gasperi- Gruber del 1948.
Un secondo aspetto della fenomenologia delle frontiere è l’equivoca definizione di straniero. Tutte le società producono stranieri ma la questione mai definitivamente risolta è se sia l’esistenza di una frontiera a creare lo straniero – quindi potenzialmente nemico – o se è la preesistenza di differenti popoli a creare l’istituzione di una frontiera.
Schengen L’applicazione del trattato di Schengen sulla libera circolazione di buona parte dei cittadini abitanti negli Stati nazionali dell’Europa (non tutti), non ha certamente contribuito a portare chiarezza sulla materia. La costituzione della cittadinanza europea porta con sé un processo d’incorporamento di coloro che sono già cittadini di uno Stato membro e la esclusione di chiunque provenga da aree extracomunitarie. Conseguentemente, alcuni “stranieri” sono diventati meno stranieri, in termini di diritti e di status sociale, mentre altri stranieri – gli extracomunitari- sono adesso più stranieri, avvicinandosi alla dimensione di “nemico virtuale”. Ciò costituisce uno di segni più evidenti di crisi della forma storica dello Stato nazionale.
Costituzione europea Il fallimento del tentativo di elaborare una costituzione europea nel 2005, è infatti riconducibile a un revival di sentimenti nazionalistici che si riflettono inevitabilmente sullo straniero, sia in quanto “altro cittadino europeo” sia in quanto “popolazione migrante non europea”; protagonista di questo fallimento è stata, fra gli altri, la Francia, paese dal fortissimo senso nazionalistico.
Questa è la difficoltà che ha l’Europa ad affrontare la sua doppia alterità, un’esterna e un’interna e quindi a poter sganciare il problema della gestione delle sue frontiere esterne dall’insieme delle vicende storiche che si sono verificate intorno alle sue frontiere interne. Possiamo, a questo punto, parlare liberamente di “razzismo europeo” o di “xenofobia repressa” che conduce all’aperta riluttanza , in molti casi, a concedere ai migranti parità di diritti e di status.
Ma un’altra considerazione va fatta, senza riserve e infingimenti. L’Europa ha grandi responsabilità storiche nel processo migratorio in atto, almeno per la parte che la riguarda, dato che lo stesso problema riguarda anche altre parti del mondo (v. il caso USA- Messico). Le politiche coloniali attuate dalla maggior parte dei paesi europei a partire dall’800 fino a prima della 2^ guerra mondiale, stanno provocando la reazione sociale e politica che alimenta in parte questo fenomeno. I popoli che fino a ieri sono stati colonizzati, stanno facendo pagare agli ex colonizzatori lo scotto di secoli di sfruttamento economico e sociale. È ovvio che non è questa la sola motivazione del fenomeno migratorio in atto. Altre cause sono le guerre locali, le antiche divisioni religiose, l’impoverimento di ampie zone del continente africano, i grandi mutamenti climatici che rendono aride e siccitose ampie aree del pianeta, la conoscenza, attraverso i media, della vita migliore che si vive in determinate aree del mondo e quindi il desiderio di goderne.
L’Europa è disposta ad accogliere le quantità di migranti che si presentano ai suoi confini? La risposta sembrerebbe negativa. La porta d’Europa edificata a Lampedusa corre il rischio di chiudersi.
E allora? Per quanto riguarda le frontiere esterne la soluzione, triste e amara quanto si voglia, non può che essere quella se non di una chiusura, certamente quella di un irrigidimento dei controlli sulle frontiere esterne, con la adozione di filtri che possano limitare questo afflusso. Altra soluzione che finalmente, ma lentamente, sta prendendo piede in Europa, è quella di intervenire nei luoghi di provenienza per cercare di disincentivare le partenze.
MEC Per quanto riguarda le frontiere interne, una soluzione potrebbe essere quella di tornare ad alcuno degli accordi politico- economici che sono stati adottati nei primi anni della costruzione europea. Atteso – sembra -, che l’unità politica del Continente sia molto difficile e molto lontana, si potrebbero attualizzare quegli accordi economico/commerciali che hanno ben funzionato per molti anni, a esempio. un mercato comune europeo modificato e adattato ai tempi nuovi. In pratica, puntare su una comunanza d’interessi economici, piuttosto che politici.
L’Europa, le cui economie sono tutto sommato comparabili, dato che è costituita da paesi privi di grandi risorse energetiche (tranne quelle derivanti dalle energie rinnovabili) e quindi da paesi essenzialmente manifatturieri, avrebbe tutto l’interesse ad avere una zona di comune libero scambio che possa competere con le altre gradi aree degli scambi commerciali mondiali (Cina, USA, Paesi emergenti). L’esistenza dell’euro come moneta unica ha reso questa eventualità molto più realizzabile rispetto a quando esistevano le monete nazionali. Ma l’euro, cioè l’unione monetaria, senza una comune politica fiscale è un’anatra zoppa.
Certo, Schengen e la libera circolazione dei cittadini europei, senza più passaporti e con una comune moneta in tasca, rappresenta una gran comodità. Il fenomeno migratorio, purtroppo, la sta rendendo inattuabile. Dobbiamo, tristemente, prenderne atto.

torna su


Un nuovo ordine mondiale?
Antonio La Spina
 
La fine delle frontiere?
L’idea di globalizzazione, per quanto essa possa essere spesso usata in modo vago, confuso o polemico, è evidentemente legata in modo inscindibile al superamento o quantomeno alla diminuzione dell’importanza delle frontiere. Ciò con riguardo a varie dimensioni. Anzitutto quella fisico-spaziale: i trasporti sono sempre più veloci, più sicuri e meno costosi, consentendo di far viaggiare da un capo all’altro della Terra sempre più persone e molti beni che prima erano condannati a restare “locali” per la loro deperibilità. Inoltre, una massa ingente di comunicazioni passa attraverso Internet, e le stampanti tridimensionali consentono la riproduzione a distanza di manufatti. Vi è poi la sfera giuridica: la tendenza, dalla seconda metà del secolo scorso e fino a ora, è stata verso l’abbattimento o comunque la riduzione delle restrizioni agli scambi commerciali e alla circolazione di persone e capitali tra i paesi, e ciò non soltanto all’interno dell’Unione Europea. Anche sul piano politico, i confini nazionali sono diventati via via meno importanti. Nel secondo dopoguerra sono state create istituzioni il cui raggio d’azione è mondiale, come le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale, la World Bank. Poi “sistemi politici” sovranazionali come l’UE, cui gli Stati membri hanno trasferito porzioni significative della loro sovranità. Inoltre, fino a non molto tempo fa la gran parte dei paesi si presentava con una cultura e una lingua, oltre che con una netta identità nazionale (le eccezioni erano rappresentate da melting pots come quello statunitense, o da casi come quelli canadese, belga o svizzero). Oggi, vista la diffusione e l’intensificazione delle migrazioni, ci troviamo sempre più spesso di fronte a società ove sono compresenti più culture, con la correlativa necessità di un’integrazione reciproca.
Il ritorno della politica di potenza nazionale
Fino a ieri – per così dire – quella che ho appena tratteggiato sommariamente sembrava la tendenza consolidata e dominante. Oggi, invece, pare che le cose stiano andando per un verso diametralmente opposto. Per ragioni tanto economiche (la perdita di occupati nelle economie più avanzate a vantaggio dei paesi in cui il costo del lavoro è minore), quanto culturali e psicologiche (l’allarme destato dalle presenze e dai prodotti stranieri), certi segnali sono sempre più lampanti. Si pensi ai successi elettorali di formazioni politiche talora impropriamente etichettate come “populiste”, che è invece meglio chiamare neo-nazionaliste o localiste, quando non xenofobe; alla vicenda di Brexit (in un paese che era peraltro fuori dalla moneta unica); ai consensi appena ottenuti da Donald Trump. Tutto ciò in uno scenario in cui, diversamente da quanto avveniva durante la guerra fredda (ove due blocchi si bilanciavano, pur con il rischio dell’ecatombe nucleare, e cristallizzavano quell’assetto internazionale), oggi agiscono una molteplicità di players, tra cui Cina e Russia, proseguendo con India, Turchia, Iran, Arabia Saudita (sui paesi islamici andrebbe svolto un ragionamento ben più articolato), ciascuno con una propria strategia e proprie aree di influenza geopolitica. Per un verso, sembra che gli USA vadano rivedendo il loro ruolo di leader e garante di un certo ordine globale, una tendenza che potrebbe essere accentuata sotto la nuova presidenza. Per altro verso, svariate potenze giocano in vari modi partite volte a difendersi o a espandersi. Ecco dunque che ritorna alla ribalta l’importanza delle frontiere, così come degli Stati nazione, che ne sono custodi e da esse vedono ritagliata la loro configurazione. Tant’è che, così come la caduta di un muro nel 1989 aveva portato velocemente con sé lo sgretolamento di un blocco e dell’equilibrio del terrore, adesso è battendo sui confini, sulla costruzione di nuovi muri, su respingimenti, espulsioni, barriere all’entrata (per i prodotti stranieri) e all’uscita (per le aziende che vorrebbero spostare all’estero propri stabilimenti) che si sono caratterizzati e hanno talora vinto i neo-nazionalisti. Parrebbe quindi che quel graduale superamento delle frontiere che sembrava delinearsi nel futuro del pianeta stia subendo non già una battuta d’arresto, quanto piuttosto una drastica inversione.
L’umanità a un bivio
Sottolineo che di fronte a certi “nuovi” (ma per certi versi antichi) fenomeni politici l’atteggiamento più appropriato dovrebbe essere non la condanna a priori, bensì la comprensione, il mettersi nei panni di chi la pensa in un certo modo. Facendo di mestiere lo scienziato sociale, so che questo è, o dovrebbe essere, l’approccio conoscitivo corretto. Il suggerimento vale peraltro anche fuori della ricerca scientifica: per la politica, il giornalismo, la pubblica opinione. Giovani, persone di cultura medio-alta e abitanti di grandi città hanno votato contro Brexit, quindi contro frontiere “rigide”. Ma perché su chi ha votato a favore non hanno fatto presa gli argomenti e i valori che dovrebbero ispirare la costruzione europea? Tout comprendre, d’altro canto, quando si tratta di scelte politiche non significa senz’altro tout pardonner. Si può dissentire energicamente da certe posizioni. Però bisogna analizzarle a fondo e spiegare che cosa le anima e le mobilita. In democrazia, poi, vale il principio di maggioranza (stanti le regole elettorali vigenti nei vari paesi). Se si desidera che una certa linea abbia la meglio, bisogna chiedersi quali ragioni potrebbero persuadere chi non la condivide, e quali altre ragioni invece portano certe categorie di cittadini ad avversarla. Cosa di cui non sempre i politici sono capaci.
Detto questo, va anche detto che qualunque sarà l’assetto interno nei vari Stati-nazione, specie nelle potenze maggiori, ri-chiudere le frontiere non potrà fermare alcune delle tendenze in atto, né rimettere indietro le lancette dell’orologio della Storia. È proprio vero, ed esempio, che tutti i posti di lavoro vanno persi per via della competizione dei paesi emergenti e della delocalizzazione di certe linee produttive? In realtà è così solo in parte. Di recente il fattore più importante è stata la recessione iniziata nel 2008, a sua volta connessa alla crisi di un’economia finanziarizzata e deregolata, con una bolla speculativa che ha messo in ginocchio molte economie (mentre se ne avvantaggiavano alcuni immobiliaristi). Più nel medio – lungo termine bisogna guardare all’automazione dei processi produttivi, che sostituisce la risorsa umana; al calo dei consumi, che è legato a nuovi stili di vita; alla sharing economy, in cui sfuma la distinzione tra produttore e consumatore. Se la gente acquisterà sempre meno auto perché preferirà condividerle, la produzione e i lavoratori del settore caleranno, in modo indipendente dagli immigrati e dal libero scambio. L’occupazione va allora recuperata nei servizi alla persona, nel noprofit, nel settore pubblico, nelle attività culturali e ricreative. Ciò richiede forti introiti fiscali e previdenziali. La bassa crescita, l’invecchiamento della popolazione, il crollo delle nascite sono i problemi, mentre i migranti, a certe condizioni, possono essere parte della soluzione.
Il mondo in cui viviamo è caratterizzato da una sempre più accentuata interdipendenza planetaria. Non ho fatto cenno, per ragioni di spazio, ai mutamenti climatici e ai problemi ambientali in genere, alle persecuzioni religiose, ai rivolgimenti politici, alle crisi umanitarie, all’erosione delle risorse naturali. Ciò che succede in un certo luogo sempre più facilmente e rapidamente ha effetti in altri luoghi, anche assai distanti. Possiamo negare tali realtà, rifiutandoci di fronteggiarle. Ma prima o poi diverranno esplosive. Oppure possiamo riconoscerle, per governarle.
Se il “nuovo ordine” sarà miope, taluni Stati tenteranno di cacciare queste sfide fuori dai loro confini, così come si caccia la polvere sotto i tappeti. Ma esse non spariranno.
Piuttosto, diverranno più serie e minacciose. L’alternativa è un ordinamento planetario che sia capace (come in parte dicono gli Obiettivi ONU di sviluppo sostenibile per il 2030) di trattare la povertà estrema, la diseguaglianza eccessiva (tra i paesi così come al loro interno), le emergenze ambientali, le crisi umanitarie, la tutela dei diritti politici e religiosi, favorendo la permanenza nei territori d’origine delle centinaia di milioni di persone che diversamente tenderanno a muoversi. Lo Stato-nazione non sparirà, certo. Però saranno indispensabili istituzioni globali in ambiti selezionati, alle quali gli Stati dovrebbero attribuire quote di poteri propri: a esempio, un’autorità mondiale per il clima e l’ambiente, un’agenzia mondiale per la lotta alla povertà estrema. Non è detto che il genere umano e le sue classi dirigenti intenderanno questa necessità.
A maggior ragione, è bene parlarne.

torna su


Dall’altra parte
Davide Camarrone
 
Ho sentito e letto tante storie, sul modo in cui ha inizio il viaggio dei migranti.
Un quartiere, un villaggio, una piccola comunità, in Asia, Africa, nel Maghreb, si tassa, raccoglie del denaro, che si sa già che non basterà per molti.
La scelta cade sul più giovane o su un gruppo limitato di giovani. S’investe sul futuro. Una comunità si comporta come un organismo biologico. È una prassi che non vale in generale – per i siriani, a esempio, è differente – e che può esser tradita dal sogno coltivato a lungo di una vita migliore: si può partire anche con i capelli bianchi.
Si parte, a ogni modo, per non tornare. E questa differenza, tra quelle migrazioni – lontane da noi solo all’origine -, e le nostre più recenti, è la prima da annotare.
È un ritorno indietro nel tempo. Si parte per guadagnare una frontiera: per stabilire la valicabilità di un confine, confidando che altri possano superarlo.
Si parte davvero, a ogni modo, con la mente, con il pensiero, prima ancora di compiere il primo passo.
Lo si prepara a lungo: recidendo dei legami e immaginando la propria vita altrove, acquisendo informazioni vitali, disponendosi a nuove rinunce e a nuove acquisizioni.
Dove comincia, dunque, il viaggio dei migranti? Dal distacco, direi, dalle loro speranze.
O prima ancora: dalla perdita dell’innocenza, da uno sguardo onesto sulla realtà che li circonda.
E come potrebbe essere altrimenti? Come si fa a coltivare l’amor sui, l’amor di sé, laddove la lotta è per i bisogni primari, con il vicino che può esser tuo fratello? La lettura più utile che abbia mai fatto sull’argomento è di un libro capitale del Novecento: “Se questo è un uomo”, scritto da Primo Levi poco dopo la liberazione da Auschwitz. Quel libro ebbe la sua prima edizione nel 1947, per una piccola casa editrice torinese, la “De Silva”. Vendette poche centinaia di copie. Ci vollero undici anni perché fosse ristampato. Da Einaudi.
Era difficile, insomma, nonostante la prossimità ai fatti narrati, ascoltarne il racconto. Era il racconto della spaventosa e indicibile “Banalità del male”, per citare un altro libro, di Hannah Arendt.
Una poesia di Primo Levi dice di quel che si respira nelle pagine del libro omonimo, “Se questo è un uomo”.
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

Nel racconto puntuale – direi scientifico, dello scienziato e letterato Primo Levi, che non risparmia nulla nell’osservazione e nel ricordo -, ciò che fa più male non attiene alla violenza di coloro che siamo abituati a considerare carnefici: che le SS facciano del male, è connaturato al loro ruolo, ci indigna ma non scuote le nostre certezze, le nostre coscienze. Ciò che le squassa senza rimedio è la violenza messa in atto dalle stesse vittime. L’uomo che lotta per mezzo pane. Che cioè lo sottrae al vicino. Che distoglie lo sguardo quando viene scelto e accompagnato al supplizio.
Primo Levi si suicidò nel 1987.
Ora, provate a immaginare cosa accade a chi passa per quel genere di esperienza.
Cosa nascondono guerra e fame? Definiamo guerra e fame.
Lo scontro interno al mondo musulmano che sconvolge Afghanistan, Iraq e Siria: tra sunniti e sunniti, tra sunniti e sciiti, tra una certa visione della modernizzazione e un’altra, nella quale democrazia non ha significato. E neanche modernità, lo ha più.
Il servizio militare obbligatorio che in Eritrea è obbligatorio per tutti, uomini e donne, a tempo indeterminato e dai diciassette anni in poi.
Le autobomba in Somalia.
La povertà estrema del Centro Africa.
E poi, avvicinandoci a quel po’ che sappiamo del mondo più vicino a noi e più lontano dalle nostre coscienze: l’Egitto, la Palestina, la Libia, la Tunisia.
La religione.
I diritti.
La violenza.
La povertà radicale.
Provate poi a immaginare cosa accade lungo il viaggio (dopo la prima condivisione di un sogno di futuro). Sulle jeep o sui furgoni, nelle soste, nei campi di prigionia, sui gommoni e sui barconi.
È un ritorno a un hobbesiano stato di natura: homo homini lupus.
Possiamo scegliere, quali mediatori tra le pagine oramai antiche di Primo Levi e i tempi nostri, i romanzi di alcuni scrittori contemporanei, il più noto dei quali è Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohammed Moulessehoul, colonnello dell’esercito algerino e scrittore per anni in incognito, col nome della moglie; autore fra l’altro de “L’Attentatrice” (ora ripubblicato, con il suo titolo originale da Sellerio, “L’Attentato”). Ma citerei anche Atiq Rahimi, afghano, con “Pietra di pazienza”. E ancora, Aikan Gunday, turco, con “Ancora”. Dicono, in modo differente ma ciascuno colpendo al cuore, delle violenze perpetrate sulle donne, del terrorismo islamista, della distorsione religiosa, dell’annichilimento dei diritti individuali, dei tormenti delle migrazioni. Tanti altri ce ne sarebbero, di autori e romanzi. Ma questi sono illuminanti.
Ancora non li conosciamo – non abbastanza, questi e altri autori e romanzi – per il nostro voler continuare a vivere nelle nostre tiepide case.
A Palermo, per questo, è nato il “Festival delle Letterature migranti”, che ho voluto chiamare così pur sapendo che Letterature migranti è un pleonasmo, e che Letterature e migrazioni sono in fondo dei sinonimi.
Insieme, però, queste due parole, sprigionano senso.
Le Letterature infatti migrano: da chi scrive a chi legge, da un luogo a un altro, da un tempo a un altro, da una storia a un’altra, da una psicologia a un’altra.
E le migrazioni non sono solo quelle fisiche.
Il nostro è un tempo di migrazioni, soprattutto immateriali: comunicazioni, tecnologie di comunicazione, che ci dispongono all’incontro con l’altro.
Per non dire delle migrazioni letterarie, da un genere all’altro, da un supporto all’altro: dal fisico all’immateriale.
Se solo due parole dovessimo scegliere per spiegarci il nostro tempo, diremmo: migrazioni e condivisioni (proprio nel senso di sharing).
Viviamo un tempo di bagagli leggeri e di viaggi frequenti, infiniti. È questo lo spirito del nostro tempo, il nostro Zeitgeist.
Nessuno pensa più ad avere una casa: a comprarne una, intendo, o a viverla per un tempo indefinito, a circoscrivere nel suo ristretto orizzonte la propria capacità di creazione e auto soddisfazione.
È bastata una sola generazione perché questo processo di alleggerimento demolisse un elemento cardine della nostra cultura: la casa.
Bagaglio leggero, dunque. Informazioni. Un computer. Meglio ancora: un tablet. Uno smartphone. Per esser connessi, per condividere casa, lavoro, cultura e socialità. Per migrare agevolmente, stabilmente.
La forte compressione temporale, il passaggio da un ciclo a un altro nel tempo di una generazione digitale, ha contribuito a generare nuovi linguaggi, nuove letterature.
Ed è difficile, in questa contaminazione incessante, tornare a porsi la vecchia classica domanda: la Letteratura può essere impegnata o dall’impegno ne deriverebbe uno snaturamento insanabile? Per una ragione, prima di altre, la domanda è oggi inattuale.
Nel vuoto di senso prodotto dal nostro tempo accelerato, la Letteratura torna a occupare un posto rilevantissimo. Ci avvicina a mondi sconosciuti, che altri non ci raccontano. Sopperisce a un diffuso bisogno di conoscenza e di condivisione.
Torna anche il giornalismo narrativo. Non una semplice contaminazione ma una torsione dialettica della Letteratura verso la realtà.
Da giornalista, in fondo, devo dire e con chiarezza di quel che poco che ho capito.
Da autore letterario, da inventore di storie, devo provare a scrivere di quel molto che ancora non ho capito, e l’uso della lingua è parte del processo di scoperta.
Il mio primo romanzo di migrazioni, nato da un racconto del 2008, l’ho chiamato “Questo è un uomo” (citando Levi, naturalmente). Dice di un viaggio al contrario, di un migrante di seconda generazione, Osea Boucouba, giovane ed entusiasta giornalista del Corriere della Sera, che vuol firmare la sua inchiesta più importante e ripercorre a ritroso la strada dei genitori fino a un campo di prigionia libico. Racconta di quel che ha visto a una griotte senegalese che dovrà riferire, al suo ritorno, di quella vita che le è stata affidata in tre cicli, di notte, sotto le stelle di un lager.
Facciamo un passo indietro.
Migrazioni e condivisioni, dicevamo.
Dettagliando ulteriormente, direi di altre tre parole chiave.
Viaggio.
Spaesamento.
Paura.
Il viaggio è perdita dell’innocenza, distacco dalla comunità e dagli affetti, viaggio doloroso e via crucis da una stazione all’altra, da un mercante di esseri umano a un altro, da un confine all’altro, da un deserto all’altro. Poi, i campi. Le fattorie libiche, costruite dai coloni italiani fino agli anni Cinquanta. I silos che da decenni non accolgono più granaglie e che ora sono stipati di migliaia di migranti. Carichi stoccati per settimane, o mesi, in attesa di un imbarco. Donne e uomini costretti in luoghi invivibili e ai quali vengono somministrate piccole dosi quotidiane di violenza, per l’ammaestramento (in navigazione servirà a restare immobili, ammassati in un gommone o in un barcone dinanzi alle onde altissime, e mentre la gente muore: e potrebbe toccare a tuo figlio, a tua moglie, a tuo padre), l’annichilimento (serve a reprimere le rivolte, in un campo con pochi guardiani e molti prigionieri), per il sollazzo dei carcerieri: lo stupro è affare ordinario, praticato diffusamente. Infine, il viaggio in mare.
Molti non l’hanno mai visto. Un ragazzo a Lampaduza mi disse: “The River”, il fiume. Sconosciuto, ostile. Bisogna immaginarla, quest’infinita distesa d’acqua, le onde alte come montagne.
A volte, e a me è capitato di occuparmene per lavoro, un carico di esseri umani è spedito in acqua in condizioni proibitive. Può accadere, e accade, per più ragioni: anche per determinare una strage, un caso di comunicazione che sia in grado di far calare le chiuse europee.
Lo spaesamento è nostro e loro. Spaesamento è il non saper più distinguere tra noi e loro; tra quel ci hanno insegnato e quel che serve ora per giudicare i fatti. Tra le radici e i rami.
E qua occorrerebbe ragionare di antropologia, culture popolari, religioni, di quel cemento interstiziale che si è letteralmente sbriciolato, del nostro vivere in un altrove immobile: quello delle nostre città, spogliate di riti e di luoghi condivisi.
E infine, c’è la Paura. I volti dei nuovi arrivati sono sconosciuti. Sconosciuti i suoni delle loro bocche. Sorridono di ciò che ci ucciderebbe. I dati delle associazioni di volontariato dicono di un disagio psichico in chi arriva pari al 70%.
Chi di noi resisterebbe al ricordo di ciò che è stato? Eppure, i nostri genitori resistettero all’orrore, proprio come questi migranti.
Ho ascoltato molte volte i racconti di guerra (in Sicilia, di bombardamenti, tessere annonarie e fame) dai miei genitori, dai miei zii, dai miei nonni, come un bambino ascoltava le fiabe di Grimm. Che nessuno racconta più.
I nostri figli non hanno questo retroterra. A me pare che abbiano considerato questo presente in rapida trasformazione come una caratteristica acquisita, da non doversi nemmeno discutere. Ci si pensa altrove nella condivisione di marchi e messaggi, negli sterminati orizzonti di vita, di studio e di lavoro. Eppure, manca loro qualcosa. E credo che quel qualcosa siamo noi, la generazione che li ha preceduti e traditi. In noi e nei nostri figli, ci sono paure differenti: in noi, del vivere un tempo più rapido di quel che ci era stato insegnato; in loro, del non comprenderci, del non ricevere da noi alcun lascito, alcuna memoria, alcuna informazione davvero utile al loro futuro.
La paura è anche dei nuovi arrivati. Per quel che è stato. Per quel che accade in Europa. Per il tradimento della promessa di benessere. Per la metamorfosi che fa delle seconde generazioni di migranti non più “integrati” ma “anonimi”. Non “apocalittici”, come scrisse Eco: “anonimi”. Paura, infatti, o più propriamente sgomento, è il nome che diamo all’anonimia, all’assenza di un nome, all’esser scagliati in un mondo sconosciuto (secondo una visione esistenzialistica).
La promessa illuministica dell’integrazione consisteva in una doppia obbligazione: rinunciate alle vostre radici (che vi isolerebbero in comunità chiuse, ostili) e noi vi faremo parte della nostra comunità.
Chi, magari dopo una generazione o due, magari dopo una delusione – un rifiuto: a scuola, sul lavoro, in società -, si volta indietro, dal Paese in cui è nato a quello dal quale provenivano i genitori, o i nonni, non riesce più a vedere nulla. Ci si trova tra due confini, in una sorta di terra di nessuno (condizione che per Freud era un ritorno a un’antica patria).
Ha accettato di sottoscrivere un impegno alla rinuncia e non ne vede il contraccambio. Ha compreso come sia ancora lontana l’integrazione promessa, data per scontata nei primi anni di vita. Ora, non associa più suoni e racconti, echi sempre più flebili, ad alcuna identità, scissa tra passato e futuro.
Nelle periferie europee, il solo argine all’insorgenza reattiva di identità violente, è nelle comunità.
La perdita della memoria genera la più profonda delle incertezze: disarma del tutto, nella lunga entusiasmante faticosa contrattazione di una cultura comune tra vecchi e nuovi cittadini.
Questo diabolico meccanismo di rifiuto, auto isolamento, negazione e chiusura razzistica, ha determinato in noi una singolare incapienza: cominciamo a esser privi della moneta dell’accoglienza.
Meglio sarebbe allora cominciare a parlare di interazione e non più di integrazione.
Sapendo che tra A e B non potrà vincer nessuno, e a prezzo di alcuna integrazione. E che un giorno, lontano non sappiamo quanto, C e D ed E ed F e così dicendo, ci diranno di nuove crasi e nuovi orizzonti.
Lampedusa, o come l’ho chiamata, nel mio reportage, Lampaduza, come la chiamano gli arabi che la raggiungono da Sud, è un universo non più concluso. Isola abitata da antiche popolazione sicane, colonizzata dai romani, lasciata a pochi eremiti, venduta ai Borboni, disboscata per rottura dell’originario equilibrio biologico, ricolonizzata e destinata al confino, trent’anni fa diviene famosa, per via dei missili di Gheddafi, e prova a capitalizzare quella notorietà in turismo.
Ne verrà fuori una nuova devastazione ambientale. Poi, vent’anni fa, l’avvio della più grande migrazione della storia umana, ma solo in termini assoluti, giacché non si può non considerare l’intera storia umana come storia di migrazioni.
Lampaduza, al centro di un Mediterraneo in fiamme, tra guerre e migrazioni, dieci anni fa è trasformata, per volontà dell’Unione, nella porta d’Europa: camera di compensazione e poi di contenzione. Fino alla più recente invenzione linguistica. Hot spot. Punto caldo, dove il calore sarebbe dato da una frizione tettonica tra piattaforme continentali differenti. E già nel nome è la negazione dell’incontro.
Lampaduza è in qualche modo l’esasperazione della Sicilia, che sciascianamente lo è dell’Italia. Ha vissuto i conflitti del cambiamento, ha patito l’isolamento, ha sognato uno sviluppo estremamente costoso, suicida persino.
L’offesa più grande che le sia stata arrecata è la retorica. Isola degli eroi, cosicché potesse – la parola – ripagare della difficoltà di prestarsi alla recitazione di un’Europa accogliente.
Non che non ci siano eroi, a Lampaduza. Donne e uomini che regalano del loro al centro d’accoglienza di contrada Imbriacola. Il pompiere che si rimangia i pregiudizi e corre a casa a rubare nell’armadio della figlia per rivestire una giovane migrante. Il pescatore che si sfinisce, il 3 ottobre del 2013, per raccogliere i sopravvissuti di un naufragio. Gli uomini della Guardia Costiera, che sfidano onde alte come palazzi per salvare dei disperati. Il sindaco, Giusi Nicolini, per tutto quel che fa.
La storia recente d’Europa passa per le isole. Per il no di Malta all’accoglienza. Per il sì di Lampaduza. Per il sì di Lesbos.
Per il no della Gran Bretagna.
Osservare Lampaduza dall’interno è stato un enorme privilegio. Ma il tempo della retorica non è finito, dei racconti consolatori, delle simulazioni.
Si preparano tempi difficili.
Frazioni sempre più consistenti della nostra Europa ricominciano a utilizzare parole e slogan di un tempo che pensavamo non si sarebbe più ripetuto. “Mai più”, si dice a ogni giorno della memoria, ricordando la Shoah nell’anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, il 27 gennaio del 1945.
Sono rinati molti partiti neo nazisti, in Europa, da Est a Ovest, e si dedicano con costanza alla propaganda contro i migranti: vero core business dell’industria dell’odio. Forniscono risposte facili, e false, a problemi complessi e autentici, identità d’accatto a popoli smarriti. Alcuni di questi partiti potrebbero addirittura vincer delle elezioni. O le hanno già vinte, sotto mentite spoglie.
La chiusura delle rotte orientali, fra Turchia, Grecia e Balcani – che Bruxelles ha pagato a Erdogan 3 miliardi di euro -, ha spostato nuovamente il flusso migratorio sulla rotta più pericolosa: dalla Libia all’Europa attraverso lo Stretto di Sicilia.
Non sappiamo quanti siano i morti.
I 4250 calcolati qualche settimana fa per il solo 2016 costituiscono la frazione nota dei morti in mare, i quali costituiscono una frazione dei morti in mare e in terra, e il totale dei morti lungo le vie delle migrazioni, costituiscono una frazione dei morti per guerre e fame nei territori di provenienza dei migranti.
Sappiamo poco o nulla di quanto accade nei nostri stessi Paesi, in rapidissimo cambiamento, e oltre piccole distese d’acqua, a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste.
Abusiamo di retoriche, per allontanare le nostre responsabilità, per riuscire a non rispondere alle domande che i nostri figli ci rivolgono, o che dovrebbero rivolgersi. Distogliamo lo sguardo da ciò che accade. In un processo di gigantesca rimozione collettiva. Nel negarci la possibilità di far memoria condivisa di questi anni.
Tutto ciò ha un prezzo enorme.
Cosa siamo, noi? I tedeschi che finsero di non vedere ciò che accadeva nel loro Paese, tra il 1933 e il 1945, e i polacchi che a Claude Lanzmann, straordinario documentarista francese, autore di Shoah, risposero che non sapevano che significasse il fumo che si levava dalle ciminiere di Auschwitz, questo siamo noi.
Silenziosi, paurosi.
Ciò che faceva più male, osservando quel documentario, non era il poco che era detto, ma il molto che era taciuto. Il silenzio era inascoltabile. E difatti non sono mai riuscito a vederlo fino in fondo, quel racconto intessuto anche di silenzi impronunciabili.
Guardiamo a Lampaduza per convincerci che qualcuno di noi fa il suo dovere, in nome e per conto di tutti noi. Dovremmo osservarne il cambiamento, per ragionare di quel che a noi stessi sta accadendo.
Ho provato a riscrivere la poesia di Primo Levi, tempo fa, per dire della colpa alla quale dovremmo provare a sottrarci: la colpa che oppose i giovani tedeschi del dopoguerra ai loro genitori.
Provateci voi, che vivete nei vostri palazzi, a resistere alla violazione della casa, al sangue versato, al furto dell’anima.
Provateci voi, a fuggire coi soldi che i vicini hanno raccolto per voi e in lacrime vi hanno consegnato: “Salvatevi”.
Provateci voi, ad affidare voi e i vostri figli al boia che vi condurrà per il deserto e all’altro che vi imbarcherà.
Provateci voi, a non lavarvi e a mangiare ogni cosa, in quel viaggio doloroso, a pregare in silenzio, a piangere senza lacrime.
Provateci voi, a osservare chi muore, in quella barca: il boia uccide chi urla di paura o più povero di voi giace nella stiva.
Ditemi poi del viso malvagio di chi impreca, all’arrivo, per l’odore dei vostri corpi e per la vostra fede, che hanno superato l’inferno.
Giudicate se meritiamo una punizione, per esser sopravvissuti, se l’odio che professate non prepara un altro inferno.
Voi che voltaste la testa dinanzi ad Auschwitz e che dite di non sapere del mare e del deserto, guardateci con occhi di madri e padri.
Dobbiamo avere speranza.
Palermo sta tornando a colorarsi e a odorare e a risuonare di popoli scomparsi al tempo dell’Inquisizione, cinque secoli fa, e poco importa che siano proprio i nostri antichi popoli – arabi, ebrei, bizantini, greci, albanesi, turchi, francesi e tedeschi – a esser tornati. È comunque un ritorno, dopo cinque secoli di grigiore, di uniformità e di violenza, alla convivenza tra diversi.
La mafia, la Cosa nostra, nasce allora, dalla rinuncia e dalla persecuzione del diverso. I riti, persino, della Santa Inquisizione, furono mutuati da organizzazioni private capaci di sostituirsi all’imperio dello Stato: il rito dell’esecuzione in effigie dell’eretico, un rogo di un ritratto, divenne il giuramento dell’adepto mafioso sulla santina in fiamme. “Possa io bruciare come questa santina”. La garanzia della salvezza per ogni abominio da doversi commettere, nell’interesse di un gruppo. Il sacro lavacro del sangue. E così, l’impunità per ogni reato regalata dal Sant’Uffizio agli eserciti privati dei famigli, la delazione, l’appropriazione dei beni dell’eretico o del marrano in cambio di una denuncia anonima. La mafia e la cultura mafiosa nascono dal grigiore inquisitorio, dalla rinuncia al molteplice in cambio dell’uno e dell’uniforme. Sicché, il ritorno del molteplice è logica premessa della liberazione dalla mafia. Non stupisce che a denunciare il racket nell’antico popolare mercato di Ballarò, a Palermo, siano i commercianti del Bangladesh, poiché non sanno di dover tacere. E in questo caso, come in altri, siamo noi a dover imparare da loro, o a reimparare da loro l’antica lezione della convivenza pacifica. Dobbiamo nutrire la speranza, poiché non possiamo nasconderci di vivere in tempi difficili.
Per la condizione ambientale, prima causa delle migrazioni.
Per le crisi economiche che ne derivano.
Per le disgregazioni culturali e religiose: altro che scontro di civiltà! Per il grande equivoco illuministico dell’integrazione in una sola idea ordinativa.
Per il ritorno di vecchi sanguinosi sogni imperiali.
Per la perdita d’autorità dei sistemi democratici, e dello stesso concetto di Democrazia.
Per l’assenza di grandi leadership culturali e morali, se si fa eccezione per il nostro Francesco: nostro al di là delle fedi.
Occorre far uso di memoria e invenzione linguistica, per tornare a dialogare tra di noi e così insieme decifrare e comprendere la natura e le conseguenze dell’inarrestabile processo migratorio: che ci riguarda così da vicino.
La sfida è in questo. Nella scelta se guardare alle migrazioni come a una straordinaria opportunità o come a un pericolo.
Nel non barricarci più dall’altra parte, come se ciò che accade non ci riguardasse.

torna su


La finestra della fede
Carmelo Torcivia
 
Parlare della fede è estremamente appassionante ma, nel contempo, altamente complesso. Innanzitutto, per le diverse accezioni tramite cui si usa il termine fede e, quindi, per i diversi conseguenti significati cui si approda. C’è, infatti, un’accezione antropologica, un’altra religiosa e infine un’ultima teologico-cristiana. Proverò a dare una scorsa critica a ognuna di queste accezioni per mostrare la ricchezza dei significati. Necessariamente rapida, un assaggio di antipasti che mette voglia gustare di più e meglio.
L’accezione antropologica fa riferimento al grande tema della fiducia e implica una forte capacità d’individuazione dell’umano. Grazie a quest’accezione, infatti, si coglie l’umano non solo segnato dalla razionalità, dall’emotività, dalla volitività – le classiche dimensioni antropologiche ereditate dal passato – ma anche dalla capacità di porre fiducia o meglio di “aver fede in” una persona, un progetto, una vision.
L’aver fede qualifica l’uomo, immaginandolo così con un proprio baricentro spostato in avanti rispetto allo spazio del suo trapezio personale: l’oggetto della propria fede è così diventato centrale da dover chiedere il rischio dell’affidamento alla persona che crede. E l’uomo e la donna – cioè l’umano – si umanizzano perché escono fuori dal chiuso della propria soggettività, di quel maledetto “io” moderno di derivazione cartesiana che s’individua e s’identifica non solo pensandosi ma anche volendosi, per accorgersi del ruolo assolutamente centrale che l’altro ha per la costruzione della propria identità personale. L’altro è affidabile, forse più di me, non è l’inferno che qualcuno (vedi Sartre) aveva profetizzato nel novecento europeo.
L’accezione religiosa situa l’aver fede in una dimensione spiccatamente soggettiva e sentimentale. L’uomo religioso moderno, infatti, non giustifica la propria fede con un impianto razionale/ragionevole o appellandosi a una realtà di natura, che quasi spontaneamente rinvia a Dio. L’uomo religioso moderno invece crede perché sente di credere. La giustificazione della sua fede è allora fondata sul suo sentire, sul suo sentimento interiore. Non solo. Un’altra caratteristica, stavolta pre-moderna ma molto presente nel nostro territorio siciliano, è data dalla devozione. La fede religiosa è nativamente una fede che si esprime verso un “oggetto” religioso (Dio, ma meglio Maria e i santi) che ha dei contorni precisi e che può procurare un determinato risultato – al limite anche solamente una certa serenità psicologica – in chi vi si affida. La versione pre-moderna di questa fede religioso-devozionale mette in secondo piano l’aspetto sentimentale a favore dell’aspetto familiare-culturale: “io sono devoto a santa Rita e porto il suo fercolo, perché così hanno fatto i miei padri e i miei nonni”.
La versione moderna aggiunge o sostituisce a ciò la dimensione sentimentale, che diventa così preponderante. Tutte e due le versioni sono accomunate dall’essere una forte espressione della soggettività umana che cerca di cogliere il divino e di relazionarlo a sé.
L’accezione teologica cristiana mostra – malgrado il diffuso stupore che questa frase può generare nel lettore non avvertito – una struttura diversa rispetto a quella religiosa, perché pone la fede come risposta a una Parola che Dio ha pronunziato e che è attestata nella Bibbia. In primo piano non vi è allora il sentimento religioso, ma piuttosto una lunga e costante pratica di ascolto della Parola nella Sacra Scrittura. Alla luce di questa pratica la fede si colloca come obbedienza a Dio e alla sua volontà, ermeneuticamente individuata tra le pieghe della storia di ogni giorno. Mentre nel religioso è possibile che si voglia piegare il divino alle esigenze umane, mostrando così il fianco a un pericoloso rapporto con la magia, nella fede teologale questo è fin dall’inizio evitato. Per questa struttura la fede teologale evita il rischio di essere accusata come un sistema di proiezione dei bisogni umani e di essere troppo tagliata sulle misure del sentimento umano personale.
C’è una Parola che va cercata nella Scrittura: “tolle et lege” (S. Agostino). Ecco la fede. Fede – ovviamente – che comprende nel suo senso molta incredulità e molte diffidenze. Ma attenzione: verso Dio e non verso la Chiesa, i vescovi, i preti, le suore, etc. Chi crede sa che il suo problema è se si può o meno fidar di Dio, se può porre tutta la sua vita in Lui oppure riservarne qualche segmento per sé. Ed è questo lo scopo della lotta spirituale, che si spalma per tutta la vita del credente fino alla sua morte. Soprattutto alla sua morte. Perché lì, in quel momento grave e delicato dovrà il credente, ma ogni uomo e ogni donna, dirsi se il futuro proposto dopo la sua morte sia affidabile. Il massimo dell’atto di fede, mai raggiunto né raggiungibile prima. Lo scacco matto della partita a scacchi con la morte o, se si vuole, la danza con “sorella morte” nella logica della resurrezione.
Un altro dato, oggi particolarmente interessante e molto frequentato dai teologi, è la non-possedibilità dell’oggetto della fede. Se prima si dava largo spazio a un’idea di dottrina che comprendeva la capacità di catturare l’oggetto stesso della dottrina, e quindi la cattura del dogma in vista dell’identità chiusa di un’appartenenza, oggi non è più così. Oggi se si parla di Dio come oggetto proprio della dottrina teologica si tiene ben presente che Dio è prima di tutto un Soggetto personale, infinitamente più grande di quanto la mente umana può raccogliere adeguatamente all’interno dei suoi concetti.
Dio così sfugge a ogni pretesa di definizione, di essere cioè circoscritto all’interno di chiare categorie che pongano precisi confini alla sua essenza ed esistenza. Questo non comporta però l’impossibilità di parlare di Dio o di assimilarlo quasi a una sorta – mi si scusi l’espressione – di sincretistico minestrone primordiale. Nella fede cristiana infatti risulta decisiva l’esistenza di Gesù di Nazareth, che nella propria unica singolarità permette l’accesso a un possibile e doveroso linguaggio su Dio. Senza Gesù di Nazareth – non sembri strana l’idea – ogni cristiano potrebbe credere o non credere in Dio, ma solo per proprie convinzioni filosofiche. Entrando profondamente in contatto con la narrazione evangelica di Gesù, ci si accorge che all’interno di quell’umanità piena e significativa è possibile rintracciare le coordinate di un retto parlare di Dio ed escluderne altre, per converso, che pure sono appartenute storicamente alla tradizione occidentale e “cristiana” della visione di Dio. Solo Gesù di Nazareth, infatti, attesta al cristiano l’esistenza di Dio come Padre amorevole e misericordioso, togliendo così ogni possibile ambiguità di un dio che oggi si mostra compiacente nei confronti dell’uomo, ma domani potrebbe essergli ostile. Dio non è passibile di una lettura nominalistica, in cui in forza del suo nome si può commettere sia il bene sia il male. Dio è solo bene e quindi se un bambino muore, non è Dio a farlo morire perché l’ha trovato più buono degli altri e se lo è portato in cielo. La visione di un Dio solo amore e solo bene toglie a ogni uomo e a ogni donna la “pietà” di una certa consolazione, ma restituisce verità e responsabilità.
È su queste due forti caratteristiche – l’impossedibilità nozionale ed esistenziale del Dio personale e la caratura dell’amore misericordioso e benevolente del Dio di Gesù Cristo – che si fonda la possibilità di un dialogo importante tra tutte le varie religioni, perché in forza di queste due caratteristiche si dà serietà a una continua e appassionata ricerca di Dio nella logica dell’amore e a una visione della convivenza umana che rifiuta ogni logica di violenza e di sopraffazione in nome di Dio.
Ecco perché, in questo secondo ambito, è facile oggi sentire parlare i rappresentanti delle varie religioni che parlano di pace, di diritti umani, di ecologia e che rifiutano l’idea di un dio che possa guidare gli eserciti (“non in mio nome”).
Aprire una seppur veloce finestra sulla fede porta dunque ad allargare e ad approfondire il mistero di cui l’umano è nobile recipiente. Rinunziare a parlare della fede o restarne spettatore, seppur in nome di una non ben compresa laicità, è così impoverire l’umano. Chiunque può e deve parlare di fede, seppur nella sola dimensione antropologica, ma ne deve parlare entrandoci dentro, facendone esperienza. Chi ne parla nella logica dello spettatore, e addirittura giudicante e presupponente, si sta vietando la possibilità feconda di vivere egli stesso una dimensione profonda dell’umano e di comprendere l’esistenza di tanti uomini e donne che, a partire dalla fede, hanno investito tutta la loro vita in scelte di altruismo, in un contesto di profonda e silenziosa ricerca di Dio. Lo partecipazione simpatica ed esistenziale alla fede, sia umana sia religiosa sia teologica, in una logica di fecondo interscambio, crea l’accrescimento dell’umano, di cui ogni uomo e ogni donna è portatore/portatrice, e la capacità esistenziale di appendere la propria vita all’attesa di un altro/Altro, rinunziando finalmente al nefando dominio dell’ipertrofia dell’io, il cui esercizio pone l’uomo o in una misera condizione di isolamento o in un delirio di onnipotenza.

torna su


Frontiere e impresa
Gaspare Alessi
 
Dal 2008 l’economia mondiale vive una prolungata crisi economica che in alcuni Stati ha generato recessioni pesanti e in altri il fallimento d’imprese considerate storicamente solide.
Forse neppure gli economisti più pessimisti avevano previsto un periodo critico così lungo e sofferto.
Le ripercussioni sulle nostre vite sono evidenti e per molte famiglie si è aperto il baratro della disoccupazione cronica, della mancanza di reinserimento dei cassintegrati per finire all’inoccupazione dei giovani che sprecano i loro anni più preziosi, dissipando le loro migliori e più fertili stagioni cercando il miraggio di un “posto stabile” per dimenticare lunghi anni di precariato, d’incertezze o di lavoro sottopagato e in nero. Questi anni difficili costringono le nuove generazioni a riprendere i viaggi migratori della speranza per cercare in altre parti del mondo, che non siano la propria casa, concrete prospettive di serenità e dignità per realizzare i propri sogni: matrimonio, figli, casa.
È ben evidente che stiamo vivendo due diversi tipi di migrazioni: quella epocale, abnorme, incontrollabile e drammatica, causata dalla fuga di popoli che scappano da guerre, carestie, povertà e dittature, e una migrazione nostra, spesso intellettuale e giovane, che contempla fenomeni di squilibrio grave e cronico tra offerta e domanda di lavoro all’interno dei mercati comunitari. Il dato comune è la ripresa di flussi ininterrotti di emigrazione che generano velocemente una società multietnica che ha prodotto un “melting pot” difficile da governare e da regolamentare armonicamente in un popolo.
E’ un mondo che cambia e appare ineluttabile pensare a “super nazioni” blindate da mura spesso neppure metaforiche, costruite nel vano tentativo di contrastare questa inarrestabile migrazione globale. Queste spinte hanno fatto presa provocando mutazioni politiche autarchiche, protezionistiche, intolleranti e razziste. Ma il mondo e l’economia cambiano ad altissima velocità e non è certo ergendo frontiere fisiche, normative, daziarie che si potrà governare o contenere una trasformazione globale che necessita urgentemente di nuovi modelli di sviluppo sostenibile e di equità sociale.
Le imprese vivono anch’esse una violenta mutazione che ha colpito sistemi industriali e modelli competitivi che erano basati su un’obsoleta impostazione industriale. Questa, limitata da costi locali e mercati involuti, che ha reso datati e fragili interi compartimenti di produzione, visto che si erano trovati esposti alle sfide di competitori feroci, veloci, scorretti ma potenti dal punto di vista finanziario.
La vera crisi è non aver creato un modello imprenditoriale moderno, equo e rispettoso delle regole universali di convivenza civile e solidale in un mercato che è, oggi, aperto, globale, liquido e pericolosamente privo di qualsiasi norma e garanzia dei diritti. Ormai appare ineluttabile che ogni impresa debba confrontarsi con una competizione globale; e ogni parvenza di frontiera sia essa fisica che politica, appare improponibile e ardua da applicare oltre che agevole da aggirare.
La globalizzazione non è il male assoluto. È un fenomeno fisiologico ormai ineludibile. Grandi corporation, sostenute da finanza illimitata, crescono a dismisura fagocitando molte imprese locali incapaci di sostenere la concorrenza con armi diverse il dal denaro. Il vero problema non è arginare i “globalizzatori” ma disciplinarli e normare le loro azioni su mercati, prodotti e servizi essenziali. Un auspicato e necessario nuovo modello d’impresa non può porre frontiere protezionistiche alle imprese che cercano sviluppo in nuovi mercati; semmai dovrebbe stimolare e premiare l’innovazione piuttosto che la mera leva finanziaria, esaltare e sostenere la creatività e la ricerca piuttosto che alzare dazi o permettere l’elusione fiscale che rende vincente la concorrenza sleale.
Ma la vera frontiera da conquistare è creare una regolamentazione decisa e forte che sostenga principi validi per tutte le economie globali, e obblighi le imprese al rispetto di quei principi considerandoli requisiti per l’ingresso nei mercati occidentali. Ad esempio il diritto fondamentale di ogni uomo di essere tutelato nella dignità rendendo obbligatoria ogni garanzia che tuteli la qualità della sua vita nel lavoro.
Quindi, sicurezza sul luogo del lavoro e rispetto dell’ambiente e delle popolazioni limitrofe alle aree di produzione; condizioni economiche sufficienti a offrire un sostegno per la propria famiglia a ciascun lavoratore; previdenza sociale, assicurazioni contro gli infortuni, contratti di lavoro equi e non schiavizzanti, sono paradigmi obbligatori per accedere ai mercati internazionali. Queste sono le vere frontiere entro le quali limitare il diritto sacrosanto di sviluppare le ”imprese”.
La concorrenza globale deve recepire una condizione normativa generale e fondamentale che renda equa la produzione nel rispetto di canoni, non derogabili, in materia di diritti umani e civili.
Aziende locali, aziende nazionali o multinazionali devono rispettare i confini delle tutele fondanti dei diritti dell’uomo e del rispetto delle norme fiscali. Poi, se queste condizioni sono eque e sostenibili, sarà il mercato a premiare naturalmente il prodotto più innovativo, l’impresa più creativa, moderna e dinamica.
Certo, sembra ineluttabile che la spinta della finanza speculativa e la forza delle multinazionali tracimi verso tutti i mercati nazionali destabilizzando storiche quote di mercato, vecchi retaggi protezionistici oramai desueti.
Ma su questa direttrice il mercato non deve porre alcuna frontiera che non sia la sana e lecita concorrenza leale alla quale tutti devono rimettere i propri modelli di business per essere sottoposti all’impietoso giudizio di gradimento dei clienti, degli acquirenti e degli stakeholders che valutano nei risultati ogni capacità imprenditoriale.
Darwin scrisse che: «Non è la specie più intelligente a sopravvivere e nemmeno quella più forte. Ma quella più predisposta ai cambiamenti».
Fattori di successo di un’impresa vincente in mercati dinamici globali non è solo la leva finanziaria : vi sono molti casi di successo di marchi e aziende locali, anche di dimensioni ridotte, capaci di percorsi di nicchia e di valorizzazione specialistica delle loro risorse umane, artigianali, artistiche, creative o di brevetti frutto di ricerca e investimenti nella tecnologia evoluta. Non ci sono frontiere per l’impresa che generi un portentoso valore aggiunto sul mercato grazie allo sfruttamento, lecito, di quel mix di fattori sani e disponibili per tutti coloro che li sanno usare. Se invece lo sviluppo è insano, generato da una finanza illecita, frutto di riciclaggi criminali, oppure attivato da leve di concorrenza sleale e fraudolenta non si deve indugiare e occorre porre vere e proprie frontiere normative insuperabili. Il mercato fatto di imprese sane e lecite è un valore costituzionale indiscutibile.
Ecco il vero tema delle frontiere per l’impresa moderna, troppo spesso lasciata libera di proliferare in nazioni troppo permissive e compiacenti in materia di evasione fiscale o di sottocosto del lavoro. Imprenditori che concepiscono la redditività come un fattore unico, esente e da Etica, Deontologia, Liceità, Moralità, Equità, Tutela Ambientale, Sicurezza.
Un’impresa moderna può essere vincente per mille ragioni di merito ma non può combattere e certamente soccombe contro forze indiscutibilmente più potenti come la corruzione, i capitali illeciti, la criminalità organizzata, l’abusivismo, l’evasione fiscale, la concorrenza sleale. In questi casi non si resiste per molto e non resta che il fallimento oppure il ridimensionamento causato da fattori ben chiari di sleale uso dei mezzi di concorrenza.
Al di là di queste tematiche che attengono alla sfera delle azioni illecite penalmente rilevanti, resta pericolosa la tentazione delle delocalizzazioni fortemente stimolate dal costo del lavoro molto basso offerto da nazioni extra comunitarie che attraggono imprenditori sempre più costretti ad abbassare margini e prezzi per mantenere viva la loro quota contro concorrenti del lontano Est. Su questo tema attualmente molto grave per l’occupazione industriale sempre più flettente in Europa, possiamo solo negoziare o porre elementi di tutela verso prodotti che invadono le nostre città senza alcun tipo di limite e sono causa di impoverimento sociale ed economico.
Alzare le frontiere daziarie e protezionistiche sembra sempre più difficile e inutile: le normative o gli accordi di cooperazione globale, non possono che anteporre il libero scambio e la circolazione delle merci e delle persone come principio fondamentale.
Peraltro un eccesso di liberismo per merci sottocosto ha causato l’importazione di merci dal “far east” che hanno generato squilibri gravi nelle nostre produzioni industriali interne, che sono sottoposte a feroci pressioni fiscali e costi di previdenza e assicurazioni sociali che rendono oneroso ogni prodotto “made in Europe”.
Tra autarchia e liberismo potrebbe trovare spazio una politica economica di libero scambio basata su una sorta d’impegno contrattuale sinallagmatico. Una bilancia import-export che possa sempre trovare un equilibrio tra prodotti in ingresso – acquisiti da mercati competitivi inarrivabili per le nostre economie industriali- a fronte di un export di nostri prodotti nazionali. Questo scambio negoziale alla pari può permettere la sopravvivenza di economie locali, di sistemi sociali, non sostenuti dal pubblico, che benché gravati di limiti finanziari, sono ricchi di qualità e creatività.
Una strenua azione di controllo sui requisiti di qualità, di sicurezza e di provenienza della filiera industriale dovrebbe eliminare tutti coloro che, per evidenti ragioni di speculazione e di redditività, tentano di infiltrare nel nostro Paese, sottoprodotti con sottocosti che appaiono molto attraenti ma nascondono un retroscena di produzioni realizzate con sfruttamenti, violenze, abusi, rischi per la salute e finanziamento di attività criminali. Norme ferree e controlli fiscali su tutta la filiera si uniscano a una politica economica di scambi equi per rappresentare una potenziale frontiera ai rischi di un tramonto dell’Europa, che appare già iniziato sotto i segni di una crisi economica profonda, e che, come si diceva, ha già causato la perdita di milioni di posti di lavoro.
Le nuove frontiere che offrono la tecnologia e la ricerca attraverso i nuovi canali offerti da Internet sono un ultimo e relativamente recente fenomeno che apre prospettive rivoluzionarie. Forse si colgono i segni e la necessità indifferibile di una “quarta rivoluzione industriale”. Internet, unito allo sviluppo di un mondo virtuale legato alle nuove formule sul “cloud” rilancia le intelligenze e le creatività in contrapposizione alle potenti e invasive economie multinazionali e finanziarie.
Internet non pone condizioni geografiche o di appartenenza a potentati industriali o finanziari. Internet offre a tutti noi un approccio senza frontiere o barriere, cancella ogni discriminazione sociale o territoriale. Tutto è permesso a chiunque e ovunque.
E’ pensabile e possibile fare impresa da Mondello per un progetto che si sviluppa con refluenze globali che non obbligano a mobilità o emigrazioni né a finanziamenti bancari.
Fenomeni clamorosi di economie virtuali come le imprese generatrici dei “Social” come Facebook o Instagram o Google o Alibaba o Amazon, hanno stravolto i sistemi di distribuzione e di commercializzazione precostituiti, causando premorienze repentine per imprese storiche, incapaci di cogliere la velocità di mutazione offerta da e-commerce efficaci, affidabili e comodi che portano direttamente a casa, con grandi sconti e senza alcun affanno, ogni tipo di merce o servizio. E’ una prospettiva che rilancia un nuovo e stravolgente modello d’impresa virtuale, immateriale.
Ogni nostro giovane e emarginato o delocalizzato genio isolano, grazie a questo strumento di facile accesso e senza alcun tipo di dipendenza da fattori economici, può sviluppare impresa e modelli di business capaci d’incredibili quanto repentine crescite regionali, nazionali o globali se supportati da valori immateriali di cui i siciliani sono ricchi: talento, genio, creatività, passione, sensibilità, emozioni, fiuto, intelligenza e pensiero laterale. Le latitudini non esistono più e non sono un parametro di povertà.
Certo, anche internet senza limiti e senza garanzie non è accettabile. E i rischi di una reputazione troppo degradata da un contesto pieno di bufale, proposte taroccate e fregature, rende sempre improbo ogni approccio e ci pone in una posizione di diffidenza che pregiudica e ridimensiona le tante cose belle e interessanti che si possono sviluppare a costi accessibili.
Piace molto che un’idea diventi “impresa aperta” se stimola nuove forme di finanziamento impensabile nei modelli tradizionali di diritto commerciale teorizzati o praticati per tutto il secolo scorso. Pensare al “crowdfunding” oppure alla “raccolta di fondi on line” oppure all’idea, anche politica, di una nuova “sharing economy” che apra a un azionariato pubblico o sociale, oppure sostenga le mille e mille idee canalizzandole, strutturandole e curandone la crescita con una cultura industriale di premio e finanziamento delle “start up” costituite da giovani esposti a piattaforme di condivisione economica aperta. Appare un’idea di grande fascino sociale.
Le speranze è che queste start up vivano solo pochi mesi nei cosiddetti “incubatori” spesso universitari, e che lascino presto per essere accompagnate sul mercato da “business angels” o “menthors specializzati” che aiutino i nuovi giovani imprenditori a librarsi gradualmente sperimentando da soli la libertà di volare verso il mercato senza schiantarsi per troppa foga o inesperienza.
Questa bella prospettiva renderebbe la nostra cara Sicilia, una terra avvantaggiata poiché da sempre competitiva grazie all’ancestrale strabiliante creatività di molti nostri giovani, costretti a dimostrare le loro grandi intuizioni emigrando verso mercati e imprese estere che riconoscono i loro talenti pagando giustamente le loro capacità e i loro studi e gratificando i loro sacrifici.
Diceva il nostro amato eroe moderno, il giudice martire Paolo Borsellino: «questa terra un giorno sarà bellissima». Ne siamo certi tutti quanti, ma sappiamo che questo incantesimo potrà concretizzarsi solo se saremo capaci di offrire una prospettiva di lavoro, di vita dignitosa e civile e di affermazione qui, a casa propria, ai nostri figli. Essi saranno il lievito per rilanciare una terra spesso maliarda, ingannevole, matrigna e traditrice che Bufalino legava alla “luce e al lutto” perché aberrata nella rappresentazione di Morte (Tanatos) e Vita (Eros) facce della stessa medaglia, onnipresenti e complementari nei colori accecanti del nostro sole e nelle cupezze aspre e dure dei nostri caratteri e delle nostre insane e incontenibili passioni estreme.
Questo nuovo lievito inteso come capitale umano di valore imprenditoriale puro, può generare mille imprese sane e di successo, mettendo fine all’emigrazione costante delle migliori intelligenze. Confidiamo che tante belle idee di noi siciliani possano essere messe a sistema rendendo questa nostra benedetta e magica Terra, un contenitore di genio, creatività, bellezza, servizi, eccellenze nella qualità della vita che non avranno mai bisogno di frontiere né di affrontare i rischi di un’invasione o della perdita della ricchezza o della competitività.
L’impresa Italia è un valore primario nel mondo. Gli italiani con tutte le loro complessità, rappresentano un brand di valore incalcolabile e con una reputazione immensa e riconosciuta in tutto il mondo. Il vero fattore di successo è sono la nostra terra e la nostra storia. L’impresa vincente è l’Italia. Non abbiamo bisogno di porre frontiere verso il mondo né il mondo potrà imporne a noi. Vendiamo a tutto il mondo che acquista da secoli la nostra merce e i nostri prodotti, senza indugi. I nostri strabilianti beni immateriali non temono competizioni o sotto costi, non sono copiabili, non saranno mai soggetti alla concorrenza e neppure alla finanza compulsiva dei “globalizzatori” spietati.
Sono Beni non cedibili e neppure scambiabili, non ripetibili a costi da “cinesi”. Ecco il nostro vero patrimonio. La nostra storia, la nostra terra e noi stessi, padroni del nostro patrimonio e dei nostri cervelli apprezzati da tutto il mondo. La nostra impresa siamo noi. In questo scenario senza frontiere e senza concorrenti la Sicilia e i siciliani potrebbero sovvertire secoli di penalizzazioni geografiche e soprusi e vittimismi ormai non più sostenibili.
L’impresa Sicilia deve credere nei propri prodotti e nell’intelligente creatività del proprio popolo che quando emigra dimostra sempre in lidi, terre e contesti lontanissimi, di essere capace di eccellere nella gestione e nel fiuto per le iniziative di successo. Quindi onore a tanti siciliani apprezzati ed eccellenti nelle aziende dove operano, dimostrando costantemente capacità di saper fare bene gli imprenditori.
Citando Brancati, grande scrittore Siciliano che tanto analizzò i nostri comportamenti umani e caratteriali: «Noi siciliani siamo soggetti ad ammalarci di noi stessi, un male che consiste nell’essere contemporaneamente il Febbricitante e la febbre, la cosa che soffre e quella che fa soffrire».
Il nostro futuro, la nostra speranza sarà espressa dall’unica leva che può produrre ricchezza nel nostro territorio: la capacità personale di intraprendere un percorso di sviluppo che passa da un’idea e diventa un valore economico. Fare impresa è la nostra unica leva di ricchezza per il futuro. Agricoltura bio e filiera alimentare di qualità e del territorio, enogastroturismo, cultura, artigianato, servizi alle persone, terziario avanzato e marketing territoriale, supporto ai beni culturali, internazionalizzazione dei nostri prodotti: tutto sotto il tetto del nostro territorio unico al mondo.
Elementi, nel patrimonio disponibile a tutti, che possono attrarre milioni di turisti, vera miniera di valuta preziosa, pulita, non inquinante e gratificante che ci impone una responsabilità individuale e nel contempo solidale: ognuno di noi artefice di una trasformazione che abbandoni la cultura dell’assistenzialismo per evolverci verso la professionalizzazione di ruoli e mansioni adatti a un mercato che ci chiede di essere preparati, formati e capaci di sostenere la competizione con nazioni altrettanto attraenti ma dalle quali non abbiamo nulla da temere.
Ma solo se saremo capaci di mettere tutto a sistema e diventare una virtuosa filiera adattandoci velocemente al cambiamento come predetto poco prima dalla famosa citazione darwiniana. La vera sfida sarà questa: mettere tutta la nostra intelligenza a servizio di un’idea e farla diventare il nostro futuro, la nostra missione e la nostra vita. Nessuno potrà mai porre alcuna frontiera a un imprenditore che pensa, che ha un’idea, che la trasforma in un progetto e la rende la sua missione di vita fino a quando essa non diventerà una realtà concreta che produrrà sviluppo, benessere e prosperità per se stesso e per tanti altri che appassionerà, coinvolgerà e arricchirà nella sua vorticosa forza di credere in se stesso e nelle propria capacità di iniziativa.

torna su


Le lingue come luogo d’incontro. La Scuola di Lingua italiana per Stranieri dell’Università di Palermo
Mari D’Agostino
 
Muri, frontiere, confini, barriere, sono parole ormai entrate nella quotidianità della cronaca e della politica. Ci segnalano una rappresentazione del presente e, purtroppo anche del futuro, particolarmente incomprensibile specie se associate ad altre due parole lingue, giovani. Come si fa a fermare la diffusione delle lingue, a confinarle all’interno di uno spazio concluso? La storia ci insegna che questo non è possibile, neppure con gli strumenti della coercizione e della violenza.
Le lingue passano di bocca in bocca, le parole si diffondono sotto traccia, riemergono molto lontane dal punto di partenza, migrano da una cultura all’altra senza che ce ne accorgiamo.
L’una e l’altra sponda del Mediterraneo in particolare, da sempre, sono unite dai fili delle parole che passano da una riva all’altra. Stessa cosa può dirsi per l’associazione di frontiere alla parola giovani, l’ansia di conoscere altri luoghi, altre culture, di mettersi in gioco lontano da casa, è parte irrinunciabile della idea stessa di gioventù e di educazione della gioventù. Ne fa testimonianza l’importanza crescente di programmi di mobilità degli studenti universitari come il programma Erasmus che ha coinvolto lo scorso anno più di 650.000 giovani europei con un crescente impegno finanziario dell’Unione Europea. È sottolineato unanimemente come l’esperienza all’estero sia un valore aggiunto di qualsiasi percorso formativo. Le frontiere non servano a fermare i movimenti delle lingue così come non servono a fermare la voglia dei giovani di attraversarle. Queste considerazioni non possono non essere tenute presenti quando guardiamo a una nuova forma di migrazione, quella dei “minori stranieri non accompagnati”. Insieme alla guerra e alla violenza, a condizioni di vita spesso insopportabili, la stessa voglia che spinge i nostri figli ad andare (e magari poi a tornare) a conoscere e a mescolare idee, lingue e culture, spinge anche questi ragazzi a compiere viaggi di mesi, non di rado di anni, per giungere in Europa. Si tratta di ragazzi che arrivano in Italia senza un adulto di riferimento e che sono definiti dalla legislazione appunto “minori stranieri non accompagnati” (msna), cioè «minori stranieri, presenti nel territorio dello Stato, non aventi cittadinanza italiana o di altri Stati dell’unione europea che, non avendo presentato domanda di asilo, si trovano in Italia, privi di assistenza e di rappresentanza da parte di genitori o di adulti per lui legalmente responsabili». Questi due elementi anzitutto, la giovane età e la separazione dai genitori, inducono la legislazione internazionale a considerare questi ragazzi soggetti vulnerabili e quindi oggetto di particolare attenzione.
Il sistema di protezione italiano, in accordo con la normativa internazionale, prevede oltre al divieto di espulsione, parità di trattamento con i cittadini italiani in tema di assistenza sanitaria e di obbligo scolastico e l’inserimento in un sistema stabile di accoglienza che fa riferimento a una pluralità di soggetti istituzionali diversi, dal Ministero dell’Interno e altre amministrazioni pubbliche statali, alle Regioni ed Enti Locali e a molteplici realtà pubbliche e private che intervengono come erogatori di servizi. Il fenomeno migratorio che interessa questa particolare categoria di persone è abbastanza recente e poco conosciuto. Sono giovani per la quasi totalità maschi, e per la stragrande maggioranza fra i 16 e i 17 anni, sbarcati per lo più nelle coste della Sicilia o dell’Italia meridionale. Si tratta di numeri in costante crescita: nel 2014 sono stati più di 14.000 i nuovi arrivi, in maggioranza egiziani, seguiti da somali, eritrei e bengalesi e poi altri paesi dell’Africa occidentale (Gambia, Senegal, Mali, Nigeria). Nel 2015 secondo i dati diffusi dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, su 154 mila migranti sbarcati sulle nostre coste oltre sedici mila erano minori e di questi ben 12.360 risultavano non accompagnati. Nei primi dieci mesi del 2016 i dati parlano di più di 23.000 minori non accompagnati, giunti via mare, e con una previsione, sull’intero anno, di circa 25 mila giovani migranti che, senza adulti di riferimento al loro fianco, intraprendono lunghi viaggi attraversando l’Africa e il Mediterraneo. I minori non accompagnati rappresentano oggi il 15% di tutti gli arrivi via mare, mentre costituivano l’8% nel 2015 e il 7,7% nel 2014. Diverse sono le motivazioni che spingono un adolescente a mettersi in viaggio da solo, come riportato dai pochi studi a oggi effettuati e dalla esperienza che in questi anni abbiamo accumulato a Palermo: sono minori in fuga da guerre, persecuzioni e conflitti, spinti a emigrare dalla famiglia per ragioni economiche, o da situazione di destrutturazione sociale o spesso familiare, cioè dal venire meno di uno o ambedue i genitori, e infine ragazzi attratti da nuovi modelli e stili di vita, o da un forte progetto personale, spesso ad esempio il divenire calciatori, o, in più casi, da elementi di dissonanza e di attrito con l’ambiente familiare e sociale, o anche come si diceva sopra dalla voglia di esplorare e di mettersi in gioco. Una situazione particolare è quella relativa alle spesso giovanissime ragazze che vengono registrate all’arrivo in Italia come minori non accompagnate; sono per la grande maggioranza nigeriane, inserite già prima del loro arrivo nel circuito della tratta e che si allontanano dopo pochissimo dai centri di accoglienza. In realtà, purtroppo, la stragrande maggioranza di queste ragazze ha in Italia un “insieme di adulti di riferimento”, reti di criminali quasi sempre connazionali, con i quali si mette in contatto fin dai primi giorni dopo l’arrivo spinta, assai spesso, da una pesantissima pressione ricattatoria che viene esercitata sia in Italia sia sulle famiglie nei paesi di provenienza. In generale le motivazioni della partenza e la giovanissima età fanno sì che il progetto migratorio sia a volte assai debole e, a volte, poco realistico; cosa questa che aggiunge altri motivi di fragilità a quelli prima visti. Dato che accomuna la stragrande maggioranza di questi ragazzi è l’esperienza del viaggio, realizzato in condizioni difficilissime e costellato da deprivazioni e da violenze. Il vissuto precedente, i mesi trascorsi per strada o nelle carceri libiche, e quello attuale, l’inserimento al loro arrivo in strutture dedicate solamente a loro (le comunità di accoglienza), sono elementi forti che accomunano tutti quanti. Ma sarebbe sbagliato pensare a loro solo attraverso le immagini spesso drammatiche dell’arrivo, prostrati da giorni terribili di permanenza in mare, o attraverso quelle ancora più terribili dei naufragi e delle tragedie. Dopo poche settimane dall’arrivo emergono già personalità ben diverse l’una dall’altra, sguardi fieri e timidi, corpi forti ma segnati da esperienze di sofferenza, sorrisi contratti o ironici. La Sicilia rimane la regione maggiormente coinvolta nell’accoglienza, con una concentrazione di minori pari al 34,5% del totale e nel capoluogo dell’Isola sono ubicate una parte rilevante delle comunità di accoglienza di primo e secondo livello. Dal 2012 la Scuola di Lingua italiana per Stranieri (da ora in poi ItaStra) dell’Università di Palermo accoglie questi ragazzi appena sbarcati nei propri corsi di lingua italiana pensati, in un primo tempo, solo per un’altra categoria di utenti: studenti Erasmus, visiting professor, adulti che fanno esperienze di turismo culturale, e insieme a loro migranti adulti, spesso rifugiati, con alto livello di istruzione (che fin dall’apertura della Scuola di italiano sono stati inseriti gratuitamente in tutti i corsi). Nel tempo è stato costruito attorno ai msna appena arrivati a Palermo un progetto assai articolato che prevede non solo corsi di lingua ma anche immersione nella città, teatro e tutoraggio, sport e impegno civico. Come ormai accade da tanti anni, ragazzi e ragazze, giovani analfabeti e studenti universitari, pelle e occhi di colore diverso, hanno intrecciato anche questa estate, un pezzo della loro vita in un’aula universitaria, ascoltando e raccontando, e imparando l’italiano. Questa volta accanto ai corsi di lingua italiana, che da tanti anni sono uno spazio dove l’incontro fra le diversità si replica in modalità sempre nuove, i docenti di ItaStra hanno costruito un luogo speciale: Odisseo arriving alone, un laboratorio di narrazione che da giugno a settembre del 2016, in una delle tante calde estati siciliane, ha accolto oltre un centinaio di ragazzi e ragazze da pochi giorni sbarcati nei porti siciliani senza alcun familiare, insieme a tanti giovani europei a Palermo per imparare l’italiano o per svolgere un tirocinio.Le storie di Nausicaa e Polifemo, Calipso e Telemaco, l’Isola dei Feaci e l’antro dei Ciclopi, tradotte e narrate in bambara e wolof, pular e inglese, arabo e polacco e tante altre lingue hanno accolto chi era appena sbarcato e chi aveva conosciuto l’Odissea sui banchi scolastici, magari con noia. Seduti a terra su grandi tappeti, in un’aula universitaria o all’Orto Botanico, la magia di una storia millenaria ha ripreso una forma nuova e tutti noi Abbiamo amato l’Odissea, questa volta guidati non da un professore di liceo, ma da Amadou K., Amadou D., Shohag, Ama, Peter e Diawara, straordinari traduttori e narratori. Il ruolo di chi ci ha guidato nel viaggio è stato non solo quello di tradurre e narrare l’Odissea nelle loro lingue materne, le stesse dei giovani appena arrivati in Italia, ma anche di aprire i tanti varchi che dalla narrazione omerica arrivavano diretti all’esperienza del viaggio e della nostalgia, della paura dell’ignoto e del desiderio dell’incontro con il diverso che proprio i giovani neo arrivati stavano vivendo. Alcuni di questi varchi sono stati percorsi dai ragazzi e dalle ragazze che hanno dato forma ai loro sentimenti spesso con disegni e ritratti, a volte con parole e frasi della lingua materna che sono risuonate una accanto all’altra, una sull’altra, come nella multilingue Africa da cui gran parte di loro proviene. ItaStra fin suo inizio è stata concepita come un ponte verso l’esterno, per favorire nello stesso tempo i processi di internazionalizzazione dell’Ateneo e l’accoglienza e l’inclusione di chi sta arrivando in Europa per cercare una nuova possibilità per se stesso e per i suoi cari.
L’una e l’altra direttrice di lavoro è stata resa possibile dalla costruzione di importanti reti di collaborazioni con tante università straniere e con il territorio più vicino, primo fra tutti il Comune di Palermo, le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado della città, tante comunità di accoglienza per minori e adulti migranti. L’organizzazione di corsi di lingua italiana di eccellenza e di percorsi di immersione nel territorio sempre più ricchi e articolati hanno dato gambe a questa duplice prospettiva che negli anni si è fortemente intrecciata, pur conservando, e anzi approfondendo, la specificità dei singoli progetti. Mentre da una parte era costruita un’intera collana bilingue destinata alle università cinesi e il progetto di ricerca e di sperimentazione didattica sull’apprendimento dell’italiano per adulti analfabeti si sviluppava in più direzioni (compreso un intero corso multimediale in più volumi Ponti di Parole), le classi continuavano a essere un contenitore di mondi diversi.
Gli studenti in mobilità internazionale e gli studenti dell’Università di Palermo inseriti in percorsi di tirocinio, hanno conosciuto dentro le aule universitarie Amadou e Diawara e imparato a considerarli molto di più che un numero delle statistiche sugli sbarchi di ogni anno. E, d’altra parte, Amadou e Diawara hanno cominciato a capire qualcosa di quell’altra parte del mare da loro tanto desiderato anche attraverso la loro full immersion a ItaStra, fuoriuscendo dai posticci immaginari mediatici che hanno nutrito in maniera quasi esclusiva il loro sguardo sull’Italia e sull’Europa. Uno dei primi cicli di seminari, in anni ormai lontani, aveva come titolo La lingua come luogo di incontro. E veramente possiamo dire che negli anni questo è stato il filo conduttore del nostro lavoro, anche se sempre più spesso abbiamo cominciato a parlare di lingue come luogo di incontro, non più dunque solo l’italiano ma anche le lingue materne sempre più valorizzate e usate per restituire dignità a chi rischia di perderla per sempre. Il denominatore comune di questi esperimenti, e di tutto il lavoro che in questi anni ItaStra ha realizzato dentro e fuori l’Università, è quello di favorire l’incontro fra mondi e storie, fra lingue e culture diverse, e, soprattutto, fra giovani, giovani in viaggio, giovani che attraversano frontiere.

torna su


Brevi riflessioni in tema di carcere
Gianfranco De Gesu
 
Tra i vari fenomeni che caratterizzano l’epoca che stiamo vivendo l’aumento esponenziale dei detenuti per ragioni legate alla violazione della legge penale è senza dubbio uno dei più preoccupanti.
Difatti dall’inizio degli anni ’90 del secolo scorso si assiste all’aumento dei detenuti nelle carceri di tutto il mondo.
Il fenomeno nasce negli Stati Uniti per motivi non del tutto chiari presumibilmente legati a un aumento del senso d’insicurezza della gente rispetto ai reati di natura predatoria e alla micro criminalità.
La richiesta di maggiore punizione nei confronti degli autori di questi crimini, veicolato dai mezzi di comunicazione di massa, ha determinato da parte dei legislatori la produzione di norme, soprattutto in termini di punizione della recidiva, che hanno abbassato la soglia della carcerizzazione.
Attualmente negli Stati Uniti sono ristrette più di due milioni e duecentomila persone, circa 700 ogni centomila abitanti.
Si tratta di un numero enorme.
Per fornire un termine di riferimento basta considerare che gli effettivi delle forze armate statunitensi, che conosciamo come una superpotenza, sono poco meno di un milione; la spesa per il mantenimento del sistema carcerario statunitense è attualmente paragonabile alla spesa militare e anzi nel corso degli anni novanta è stata talvolta addirittura superiore.
Si calcola che nel mondo siano attualmente non meno di dodici milioni i ristretti e che almeno venti milioni di persone ogni anno varcano le soglie di una prigione.
Al mondo ogni centomila abitanti centocinquanta sono detenuti in un carcere.
Sono cifre che non hanno precedenti nella storia.
Nelle carceri italiane, in cui il fenomeno inizia a percepirsi a partire dal 1995, e nelle quali alcuni anni or sono si è sfiorata la cifra record di 70.000 detenuti (110 ogni centomila abitanti circa) vi sono attualmente ben circa 54.000 ristretti (circa 90 ogni centomila abitanti).
Si tratta di una realtà importante rispetto alla quale nel nostro paese la comunità libera, a livello cosciente e non meno a livello subcosciente, ha continuato e continua a rimuovere, a ghettizzare il carcere con il suo universo umano di operatori e di detenuti con i bisogni e le esigenze dei primi e dei secondi.
Pervicacemente immaginando che esso sia altro da sé, un mondo sommerso, buio, ambiguo, popolato da esseri diversi e strani, regolato da norme incomprensibili, percorso da infiniti inquietudini e da problemi angosciosi ma tutto sommato poco essenziali.
E illudendosi, ingenuamente o forse troppo maliziosamente volendo far credere, che allontanare il carcere basti a rimuovere, non soltanto i problemi e i drammi che nascono in esso, ma anche quelli dei quali esso nasce e in definitiva esorcizzare ansie, colpe, responsabilità, la parte oscura è brutta di sé di cui ci si vergogna e nella quale non ci si vuol riconoscere.
Ma in questo modo involontariamente o volontariamente si condanna la prigione a essere l’ultima frontiera della disperazione degli uomini, il crocevia desolato della rabbia impotente, delle colpe senza riscatto e delle solitudini senza consolazione.
Perché ancora oggi il carcere è la parte di sé che la società rinnega due volte.
Immaginando per un verso di liberarsi dei problemi che le appartengono, ma non è in grado o non ha intenzione di risolvere, scaricandoli su di esso dove invece diventano più difficili, angosciosi, drammatici.
Basti pensare ai malati di mente, ai tossicodipendenti, agli alcolisti, a talune fasce di emarginati per i quali continuano a essere adottate, quasi indiscriminatamente, risposte di tipo repressivo e segreganti.
E immaginando, peraltro verso, che in tale maniera le questioni della prigione si stacchino delle proprie e possono essere risolte indipendentemente da, o addirittura prima, di esse.
Ma questa è una fragile e illusoria consolazione perché i problemi del carcere possono essere risolti soltanto nella e dalla società spesso fuori e prima di esso.
D’altro canto non può non considerarsi che ogni società ha il carcere, come del resto la giustizia, la scuola, la sanità che vuole e che si merita.
Così non avremo migliore assistenza medica nelle carceri se non l’avremo negli ospedali e nelle cliniche né il problema del lavoro potrà essere risolto per i detenuti se non sarà risolto per i cittadini liberi soprattutto eliminando disoccupazione e sfruttamento.
Ma soprattutto la prigione non sarà in grado di sviluppare tutte le sue potenzialità in tema di recupero dei detenuti e di abbattimento della recidiva se non sarà assistita da risorse mezzi e disponibilità.
Quest’ultima considerazione merita un’ulteriore considerazione.
Proprio per superare una concezione che vede il carcere come qualcosa di estraneo alla società intesa nel suo complesso, l’ordinamento penitenziario italiano attribuisce un ruolo centrale alla partecipazione della comunità esterna all’opera di rieducazione dei detenuti L’art.17 della legge Penitenziaria recita: «La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando e organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa.» La norma esprime un concetto di grande significato: il rifiuto della concezione della pena detentiva intesa quale emarginazione.
L’uso del verbo “deve” impone per un verso all’Amministrazione penitenziaria di sollecitare e favorire la partecipazione della comunità esterna all’opera rieducativa dei detenuti per altro verso agli esponenti del consorzio sociale di sentire quale dovere quello di offrire la propria collaborazione.
In altri termini in una società evoluta ciascuno dovrebbe sentire quale doveroso contributo alla collettività la partecipazione alla rieducazione dei detenuti secondo le proprie capacità e possibilità assumendo personalmente responsabilità in tema di recupero e reinserimento dei condannati. Una partecipazione che ovviamente ciascuno dovrà sentire proporzionalmente al ruolo rivestito nel consorzio sociale: quanto maggiori sono le responsabilità connesse al proprio ruolo nella società tanto maggiore deve essere l’assunzione di personali responsabilità nella partecipazione al trattamento dei condannati.
In tal senso il carcere è il terreno ideale in cui ciascun rotariano può estrinsecare la sua vocazione al servizio.
Non mancano esempi concreti in tutta Italia e in particolar modo nella nostra regione in cui gli interventi dei club si sono orientati verso azioni concrete quali la realizzazione di biblioteche o la creazione di spazi per attività sportive come presso la Casa Circondariale di Caltagirone nel quale è attivo un campo di calcio realizzato dal locale club e intitolato a Paul Harris.
Particolarmente qualificanti sono le attività volte a fornire ai condannati competenze lavorative utili ai fini del reinserimento nel mondo del lavoro al termine della pena quali quelle programmate nel breve periodo in tutti gli istituti penitenziari dell’isola, alcune già concluse, volte alla formazione di addetti alla caseificazione alcuni dei quali saranno addirittura impiegati nella produzione di latticini in caseifici realizzati con fondi rotariani in alcune strutture quale, ad esempio, la Casa Circondariale di Ragusa.

torna su


Macchine Intelligenti: Il futuro è già oggi
Salvatore Gaglio
 
Breve storia dell’Intelligenza Artificiale
Nel 1955 un gruppo di scienziati, composto da John McCarthy, Marvin Misky, Nathaniel Rochester e Claude Shannon, propose l’organizzazione di una conferenza a Dartmouth, nel New Hampshire, dal titolo Dartmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence. L’evento, svoltosi poi nel 1956, è considerato la nascita della disciplina nota come Intelligenza Artificiale (IA). Scopo originale del programma di ricerca era quello di arrivare a un mondo in cui “le macchine usano il linguaggio, formano astrazioni e concetti, risolvono il genere di problemi per adesso riservati agli esseri umani e migliorano loro stesse”.
In realtà alcuni anni prima Alan Turing – colui che con il fondamentale lavoro On Computable Numbers with an Application to the Entscheidungsproblem del 1936 aveva gettato le basi dell’attuale informatica – aveva già affrontato tale tematica. Nelle due pubblicazioni del 1948 e del 1950, tradotti in italiano rispettivamente con i titoli Macchine Intelligenti e Macchine Calcolatrici e Intelligenza, egli aveva trattato, infatti, della meccanizzazione di processi intelligenti, di autoorganizzazione e di apprendimento, nonché del rapporto tra intelligenza umana e intelligenza delle macchine, riprendendo uno dei temi importanti del lavoro del 1936: il concetto di macchina universale, ossia un sistema di calcolo che, opportunamente programmato, simula un qualsiasi altro sistema di calcolo. A essa si ispirano i moderni elaboratori programmabili, compresi i nostri PC, tablet e smartphone, e non solo.
La possibilità di una macchina di simulare una qualsiasi altra macchina induce Turing a prendere in considerazione la domanda “possono pensare le macchine?”. La sua conclusione è che questa domanda è mal posta, perché fa riferimento a concetti ambigui come quelli di “macchina” e “pensare”. Pertanto essa va sostituita con un’altra domanda analoga formulata nel contesto di un gioco, chiamato “gioco dell’imitazione”. A questo gioco prendono parte un uomo (A), una donna (B) e un intervistatore (C). Scopo di A è quello di ingannare C, mentre B cerca di aiutare C. Scopo di C, che non è a diretto contatto con A e B, è capire chi è l’uomo e chi è la donna. In questo contesto la domanda corretta diventa: “Che cosa accadrà se una macchina prenderà il posto di A nel gioco?”. È questo il famoso Test di Turing – citato in tanti romanzi e film di fantascienza – a cui si fa spesso riferimento come criterio per stabilire se una macchina può essere considerata intelligente.

Nel 2005, per celebrare i 50 anni dell’IA, è stata organizzata una nuova conferenza a Dartmouth, con alcuni dei partecipanti alla conferenza del 1956, nel corso della quale si sono analizzati i progressi della disciplina. Negli anni le ricerche sull’IA hanno avuto un grande sviluppo soprattutto nei settori del riconoscimento vocale, dell’elaborazione automatica del linguaggio naturale, della visione artificiale, della risoluzione di problemi, delle tecniche di ragionamento e dell’apprendimento, della robotica. I successi si sono alternati ai fallimenti. Nella maggior parte dei casi i sistemi realizzati non hanno superato lo stato di prototipo. Sembra che sia ancora lontano un sistema di intelligenza artificiale di tipo generale che riproduca l’intelligenza umana in tutti i suoi vari aspetti. Il progresso ha riguardano principalmente la cosiddetta “narrow Artificial Intelligence”, ovvero i sistemi specializzati. Poco progresso c’è stato nella “general Artificial Intelligence”.
Tuttavia qualcosa comincia a cambiare da 25 anni a questa parte, quando l’IA incontra i sistemi di calcolo ad alte prestazioni, internet e il web, nonché la disponibilità di enormi quantità di dati, i cosiddetti big data, su cui poter applicare in modo efficace tecniche statistiche. Nel 1996 un programma di intelligenza artificiale, Deep Blue, sviluppato su un supercomputer dall’IBM, batte il campione mondiale di scacchi, Kasparov. Sulla scia di Deep Blue, l’IBM realizza il sistema Watson, in grado di rispondere a domande poste in linguaggio naturale su vari argomenti. Nel 2011 Watson vince un milione di dollari partecipando al gioco a quiz televisivo Jeopardy negli Stati Uniti, conquistando il primo posto nei confronti dei suoi avversari umani. Esso costruisce le sue risposte analizzando molto velocemente centinaia di milioni di pagine web su internet, dalle quali trae le sue conoscenze. Una sua versione specializzata è in grado di fornire risposte rilevanti a problemi di oncologia clinica, individuando anche dei casi molto rari. Più semplici sistemi di dialogo e di dettatura automatica li troviamo nei nostri smartphone.
Da alcuni anni prototipi sperimentali di auto senza pilota percorrono strade cittadine ed extraurbane, dove sono in grado di individuare i limiti della carreggiata, di percepire il comportamento degli altri autoveicoli e di trovare il miglior percorso per raggiungere la meta, dialogando possibilmente via internet con altri apparati e veicoli per evitare ingorghi e traffico. Sistemi di visione artificiale riconoscono volti e luoghi in fotografie e impostano automaticamente le modalità di scatto nelle nostre macchine fotografiche. Gli attuali motori di ricerca usano tecniche di IA per rispondere meglio alle richieste, cercando al tempo stesso di comprendere anche le caratteristiche dell’utente con cui interagiscono.
Gli investimenti e le strategie di oggi
Nel 2015 l’investimento federale negli USA in Ricerca e Sviluppo per l’IA è stato di 1,1 bilioni di dollari. Inoltre, su richiesta del presidente Obama, il National Science and Technology Council (NTSC) degli USA ha pubblicato nell’ottobre 2016 un piano strategico sull’IA dal titolo The National Artificial Intelligence and Development Strategic Plan, redatto da uno speciale comitato nazionale, The Artificial Intelligence Task Force. Nella presentazione del documento si legge che: «Stiamo entrando in un’era in cui l’IA sta avendo un ampio e profondo impatto sulla nostra vita di oggi … In risposta, la Casa Bianca ha annunciato una serie di azioni per promuovere un pubblico dibattito sull’IA per identificare le sfide e le opportunità riguardanti questa tecnologia emergente, per favorire l’uso dell’IA per una più efficace azione di governo e per prepararsi per i potenziali benefici e rischi dell’IA». Nel documento vengono anche stabilite le priorità di finanziamento federale per ricerca e sviluppo nell’IA. E’ davvero interessante esaminare in dettaglio le linee strategiche che sono individuate e che sono le seguenti:

  • Effettuare investimenti a lungo termine nella ricerca in IA, in modo da permettere agli USA di mantenere il ruolo di leader mondiale nell’IA.
  • Sviluppare metodi effettivi di collaborazione fra esseri umani e sistemi di IA. Invece che rimpiazzare gli esseri umani, i sistemi di IA possono cooperare con loro al fine di ottenere ottime prestazioni.
  • Comprendere e affrontare le implicazioni etiche, legali e sociali dell’IA. Per i sistemi di IA devono valere le stesse norme formali e informali che valgono per gli essere umani.
  • Assicurare la sicurezza dei sistemi di IA. Prima del loro largo impiego, si deve fare in modo che essi operino in modo sicuro e controllato.
  • Sviluppare collezioni di dati e ambienti condivisi e pubblici per l’addestramento e il test di sistemi di IA, secondo standard di alta qualità.
  • Misurare e valutare le tecnologie di IA attraverso standard e benchmark.
  • Comprendere meglio le necessità della compagine nazionale per ricerca e sviluppo in IA, in modo da assicurarsi che vi sia un numero sufficiente di esperti in IA per affrontare le linee di intervento previste dal piano.

Uno degli obiettivi del piano americano è quello di focalizzare gli investimenti federali in quelle aree dell’IA in cui le industrie difficilmente investono. Nel piano si assume che l’impatto sociale dell’IA cresca nel tempo, soprattutto per ciò che riguarda l’occupazione, la formazione, la sicurezza e la crescita economica.
In Europa il programma di ricerca Horizon 2020 prevede diverse linee di ricerca nel settore dell’Information and Communication Technology (ICT) in cui le tecniche di IA sono spalmate su diverse tematiche, alcune delle quali caratterizzate dall’aggettivo “smart”, come smart cyber-physical systems, smart system integration, ecc.. Una specifica linea di ricerca riguarda la robotica.
I recenti progressi
Il settore di ricerca che attualmente attira maggiormente l’interesse dei ricercatori è quello del machine learning, ovvero dell’apprendimento nelle macchine. L’uso di tecniche statistiche e la disponibilità di enormi quantità di dati (big data) prodotti ogni giorno, soprattutto nella rete, ha consentito di mettere a punto dei modelli matematici e dei programmi in grado di autoapprendere dei comportamenti per eseguire dei compiti specifici. Degli agenti software intelligenti sono così capaci di selezionare le azioni appropriate in seguito all’individuazione di particolare eventi o di effettuare del data mining (scavare nei dati) per scoprire regolarità e correlazioni nascoste.
Si va alla ricerca di nuovi prodotti e servizi che possano creare nuovi mercati e migliorare la qualità della produzione industriale. Gli agenti software intelligenti, in grado di prendere decisioni, possono rendere più efficienti la logistica e le catene di distribuzione, che possono diventare più robuste adattandosi ad eventi non previsti. Nella finanza le tecniche di IA sono utilizzati per prevedere per tempo vari rischi e aumentare la sicurezza nei confronti di frodi e comportamenti malevoli e anomali. Proprio nella finanza l’impatto dell’IA è ancora maggiore. Agenti software operano in borsa e sono responsabili dell’andamento di buona parte del mercato azionario, che riguarda trilioni di dollari di transazioni. Non è un caso quindi che sia aumentato anche il venture capital diretto a startup in IA negli USA.
Un particolare paradigma di apprendimento nelle macchine è il deep learning. Dal 2013 è enormemente (di 6 volte) aumentato il numero di lavori scientifici e brevetti che hanno a che fare con esso. Si tratta di modelli ispirati al funzionamento della corteccia cerebrale, in cui strati di neuroni si susseguono per creare rappresentazioni sempre più astratte degli stimoli sensoriali. Numerosi strati di neuroni artificiali creano le loro rappresentazioni interne nascoste per interpretare immagini, linguaggio naturale o sequenze genetiche. A partire da immagini digitali vengono, a esempio, rilevati linee con varie orientazioni, contorni, aree omogenee di colore che si aggregano per formare parti significative, per poi individuare e riconoscere oggetti e scene. Tutto questo con processi di apprendimento automatico. Si trovano facilmente in rete – e anche come app per smartphone – deep networks già addestrate che possono essere utilizzate per impieghi specifici, come nel caso della diagnostica medica per immagini.
Le rappresentazioni interne costruite dalle reti neurali profonde risultano di solito non intellegibili per noi essere umani. Queste entità agiscono da cosiddette scatole nere (black box). Riusciamo ad addestrarle per eseguire compiti specifici, ma non comprendiamo del tutto il loro funzionamento interno. Alcune di queste reti sono anche rese accessibili in rete e continuamente addestrate dagli utenti man mano che esse vengono usate. Il problema della scatola nera preoccupa non pochi. Hanno ottime prestazioni, ma ci possiamo sempre fidare di loro? L’avvento, che sembra ormai imminente, dei computer quantistici permetterà di avere macchine superveloci in grado di risolvere problemi finora inaccessibili anche ai più potenti supercomputer. Google, NASA e alcune università statunitensi hanno fondato il Quantum Artificial Intelligence Lab in California, con un programma di ricerca volto a esplorare le nuove potenzialità che questa tecnologia offre. Anche Microsoft sta puntando sul quantum computing con il suo nuovo centro di ricerca Station Q, mentre Intel sta progettando processori con capacità di elaborazione quantistica tramite l’uso di nuovi tipi di transistor.
L’impatto sociale
I risultati e i progressi dell’IA migliorano le nostre capacità produttive e rendono disponibili nuovi servizi. Le tecnologie di IA presentano però anche dei rischi, come la potenziale disgregazione del mercato del lavoro e quelli riguardanti la sicurezza e l’affidabilità dei prodotti di IA. In un contesto di innovazione digitale orientata solo a incrementare i profitti e a ridurre le spese, esse portano inesorabilmente alla perdita di posti lavoro, che viene compensata solo in piccola misura dalla creazione di nuove opportunità per figure specializzate necessarie allo sviluppo e alla manutenzione di tali sistemi.
Già nelle fabbriche e nella gestione di magazzini, catene robotizzate operano con la supervisione di pochi esseri umani.
Ad esempio, Amazon, leader mondiale dell’e-commerce, utilizza migliaia di robot che si muovono ordinatamente all’interno di un grande spazio opportunamente strutturato per evadere sino a centinaia di migliaia di ordini ogni giorno riguardanti decine di milioni di prodotti. Ma altre figure professionali che fanno parte dei cosiddetti colletti bianchi rischiano di essere sostituiti da sistemi di IA. Agenti software intelligenti sono in grado di preparare un pezzo giornalistico a partire dalle notizie di agenzia in rete, oppure di inquadrare un caso giuridico tenendo conto della legislazione corrente e delle sentenze precedenti. I sistemi automatici di guida poi potrebbero dare luogo a nuove tipologie di trasporto pubblico.
Attualmente ci sono sistemi di IA che prendono decisioni molto importanti per noi. È il caso degli agenti software che comprano e vendono azioni in borsa per conto di operatori finanziari che li istruiscono o li addestrano per adottare le loro strategie e per agire con estrema velocità. Muovono volumi pari a trilioni di dollari e determinano le sorti di aziende e nazioni. A un algoritmo di vendita sembra che sia imputabile il crollo della sterlina del 7 ottobre 2016, che è arrivata a perdere il 10% del suo valore in una sorta di effetto domino. Secondo molti, l’algoritmo ha interpretato in senso molto negativo alcune notizie di stampa relative alla Brexit.
Si tratta allora di tecnologie pericolose? Come possiamo fidarci? Si tratta sicuramente di tecnologie molto sofisticate e potenti, che come tutte le tecnologie avanzate, come quelle ambientali, energetiche, e così via, possono essere usate anche per colpire gli esseri umani. La cosiddetta innovazione digitale va opportunamente progettata considerando fra i criteri importanti l’impatto sociale, così come si fa con altri tipi di progetti in ambito urbanistico, produttivo e di servizi. I processi di innovazione vanno governati opportunamente e la politica non può più ignorare l’emergere di nuovi fenomeni sociali, come ad esempio la riduzione progressiva della necessità del lavoro umano. Vediamo infatti man mano scomparire agenzie di viaggi, sportelli bancari, uffici e negozi. Si deve fare attenzione a che non tutto sia delegato ai sistemi digitali. Molte tecnologie di IA riguardano sistemi che possono operare in collaborazione con gli esseri umani. Essi possono aumentare e migliorare le capacità di quest’ultimi.

torna su


Le Nuove Frontiere della Robotica: i Robot Musicali
Antonio Chella
 
Introduzione
L’idea di un computer in grado di suonare e comporre musica risale agli albori dell’informatica: già nel 1800 la prima programmatrice, Ada Lovelace Byron, ipotizzò un automa capace di comporre e di elaborare musica. Ma ancora prima, nel 1700, Vaucanson, accademico francese delle Scienze le cui invenzioni rivoluzionarono la produzione manifatturiera, progettò un automa in grado di suonare il flauto. Oggi il flautista di Vaucanson è considerato il primo robot musicale a tutti gli effetti.
La robotica musicale è attualmente una realtà nota al grande pubblico anche grazie all’esperimento di Pat Metheny, chitarrista jazz di fama mondiale, con l’Orchestrion, un sistema complesso di robot musicali costruiti da un gruppo di artisti newyorkesi (LEMUR) e controllato dal musicista stesso. Pat Metheny si è esibito dal vivo con l’Orchestrion anche a Palermo.
La robotica musicale è un settore di ricerca particolarmente interessante in quanto è un settore multidisciplinare in cui si fondono le competenze meccaniche e informatiche con quelle musicali e artistiche. Gli aspetti di ricerca dei robot musicali riguardano essenzialmente l’uso della fisicità del robot per la produzione di musica: il robot è un artefatto dotato di corpo, in grado di percepire informazioni sull’ambiente esterno mediante telecamere e altri sensori, e in grado di produrre suoni mediante movimenti delle braccia meccaniche o di altri attuatori.
I robot musicali rappresentano una nuova opportunità per la composizione musicale e offrono nuove potenzialità espressive: la produzione di musica avviene, a differenza di un normale computer, mediante una macchina con un corpo che percepisce e agisce. Inoltre, i robot musicali potrebbero rappresentare una occasione unica per ridare nuova linfa in chiave tecnologica agli strumenti popolari, anche desueti, come ad esempio la cornamusa o le tablas.
La letteratura specialistica classifica i robot musicali secondo alcune categorie, peraltro non delimitate in maniera netta. Il robot può, infatti, essere utilizzato come un vero e proprio strumento musicale: in questo caso esegue una composizione musicale predefinita precedentemente. Ma può anche essere impiegato come un musicista, generando autonomamente musica sulla base al suo programma di controllo i cui parametri sono definiti dal compositore. Inoltre, il robot può seguire uno spartito. In questo caso, il compositore ha predeterminato l’esecuzione che naturalmente sarà eseguita con l’espressività consentita dall’automa.
Il robot può anche seguire l’esecuzione: in questo caso produrrà musica attraverso le interazioni con gli altri musicisti, come ad esempio nel jazz o con un direttore. Il compositore ha in questo caso il compito di definire le modalità di interazione e i relativi eventi musicali. Ad esempio, certi movimenti del direttore, percepiti dal robot mediante telecamere, possono essere associati a specifici eventi musicali.
Lo Stato dell’Arte della Robotica Musicale
Di seguito sono riportati alcuni dei più interessanti esempi della ricerca sulla robotica musicale.
Il robot WF-4RIV è un robot flautista direttamente ispirato a Vaucanson. E’ un progetto nato alla Waseda University in Giappone. Il robot segue lo spartito, ed utilizza la propria corporeità per generare una esecuzione espressiva. E’ dotato di labbra e lingua meccaniche, di una cavità orale e di un mantice che funge da polmone. Il meccanismo di controllo del robot è in grado di percepire e valutare la musica suonata dal robot stesso e di aggiustare e correggere l’esecuzione stessa, sulla base di parametri di valutazione.
La Ryukoku University in Giappone ha realizzato un robot in grado di suonare il violino. E’ un progetto allo stato iniziale che utilizza un braccio robotico con dita per suonare il violino in maniera semplificata, oppure per muovere l’archetto.
Anche in questo caso, la ricerca mira a ottenere una esecuzione espressiva.
La cornamusa è uno strumento antichissimo che si ritrova in molte culture. Partendo da questo assunto, la Carnegie Mellon University di Pittsburgh ha realizzato McBlare, un robot cornamusa. Il robot è costituito da un compressore che fornisce aria alla cornamusa e da un sistema di attuatori che aprono e chiudono i fori della canna diteggiabile della cornamusa.
Sarebbe peraltro molto interessare estendere questo progetto alla “ciaramedda” siciliana.
Lo scopo del progetto della KAGAWA University in Giappone è la riproduzione fisica della voce umana, il primo strumento musicale. Il robot è costituito da due lamelle vibranti che simulano le corde vocali, e da un tubo di silicone, deformabile mediante pistoni controllati da attuatori, per simulare la cavità orale. Le lamelle generano le frequenze fondamentali, mentre le deformazioni della cavità orale generano le formanti. Il progetto è molto interessante e foriero di sviluppi ma ancora allo stato iniziale.
Haile e Shimon sono due robot costruiti da Gil Weinberg del Georgia Institute of Technology ad Atlanta, USA. Haile è un robot percussionista e Shimon è un robot suonatore di marimba, evoluzione di Shimon. In entrambi i casi l’interazione tra il musicista e il robot è stata analizzata con grande cura.
Entrambi i robot sono in grado di improvvisare semplici brani jazz.
Il progetto Sing with Telenoid del RoboticsLab dell’Università di Palermo utilizza il robot Telenoid sviluppato dall’Università di Osaka. L’obiettivo del progetto è di insegnare al Telenoid a improvvisare un duetto jazz con un cantante. Il Telenoid è un robot dotato di corporeità essenziale, moto della testa, braccia e labbra. L’idea di base del progetto è di studiare l’essenza della interazione tra il musicista e il robot riproducendo i gesti e la prosodia del cantante nel robot. Il robot è teleoperato durante la fase iniziale di apprendimento ed è sempre più autonomo nelle fasi successive. Il progetto dell’Università di Palermo è stato ripreso anche dalla prestigiosa rivista inglese New Scientist.
Il progetto RoboDanza è sviluppato dall’ICAR-CNR di Palermo, dall’associazione ARCI Tavola Tonda e dal RoboticsLab dell’Università di Palermo. Suoni, facce, movimenti influiscono sulle scelte del robot NAO che in tempo reale decide l’esecuzione dei suoi movimenti in base alla sua esperienza e i suoi processi di creatività artificiale. Le danzatrici umane dell’ARCI Tavola Tonda hanno creato con il NAO una coreografia per lo più improvvisata, basata sui ritmi, i vocalizzi e le movenze eseguite dalle artiste. Il modello cognitivo di creatività artificiale studiato e implementato dal Laboratorio di Sistemi Cognitivi e Robotica dell’ICAR-CNR di Palermo, è impiegato anche in altri campi artistici quali la pittura e la musica e rappresenta un valido e innovativo strumento a supporto della “co-creazione”, consentendo nuove sinergie tra artisti, agenti software artificiali e robot. RoboDanza è stato presentato in diverse occasioni a conferenze scientifiche ed è stato l’evento di apertura della conferenza internazionale BICA 2015 tenutasi a Lione nel Novembre 2015. Il progetto è stato recentemente ripreso dalla rivista Le Scienze.
Il Progetto del RoboticsLab con il Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo
Il progetto del RoboticsLab del Dipartimento dell’Innovazione Industriale e Digitale dell’Università di Palermo insieme con il Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo è nato dalla sollecitazione del prof. Giuseppe Silvestri, già Rettore dell’Università e già Presidente del Conservatorio. Lo scopo del progetto è l’impiego dei robot quali strumenti tecnologici per offrire nuovi mezzi espressivi ai compositori. Il progetto ha avuto una lunga fase di preparazione di circa due anni in cui le competenze robotiche del RoboticsLab si sono confrontate con le competenze artistiche del gruppo di artisti e compositori del Conservatorio.
Il robot utilizzato, analogamente al progetto RoboDanza precedentemente citato, è il NAO, programmato dal RoboticsLab. Tutti i programmi che controllano il robot e la app utilizzata per l’esibizione sono stati sviluppati a hoc dal RoboticsLab.
All’inizio dell’esibizione, al pubblico è richiesto di scaricare la app sviluppata dal RoboticsLab, su telefonino Android. La app presenta quattro riquadri con quattro colori corrispondenti a emozioni: giallo – felice, rosso – arrabbiato, blu – triste, verde – sereno. Queste associazioni prendono spunto da studi psicologici riportati in letteratura, sebbene siano argomento di dibattito. A ogni emozione è associata una specifica frase musicale composta dai compositori del Conservatorio. La frase è evocativa dell’emozione corrispondente: avremo quindi una frase evocativa della felicità, una della tristezza, e così via.
Quando l’utente sceglie un colore sul telefonino, tale scelta è memorizzata dal software che controlla il robot. Il robot, sulla base dei voti ricevuti, ma anche della frase musicale che sta suonando e del caso, sceglierà la prossima frase musicale da far suonare ai musicisti e la indicherà agli stessi assumendo una opportuna posa. Sono state individuate quattro specifiche pose in modo da risultare chiare e facilmente individuabili dai musicisti senza ambiguità.
Si potrebbe dire quindi che il robot “dirige” un quintetto d’archi. Non si tratta però di una vera e propria direzione d’orchestra nel senso oggi utilizzato del termine, ma una direzione ad alto livello, nel senso che il robot con le sue pose indica al quintetto la prossima frase musicale da suonare. Nel progetto si sfrutta la presenza scenica del robot per creare un evento artistico interattivo in cui la creatività dell’artista è mediata dagli spettatori attraverso il robot ed evitando la mera imitazione robotica del direttore d’orchestra.
Il progetto ha coinvolto numerose persone con competenze diverse. Per il RoboticsLab hanno partecipato Antonio Chella, Rosario Sorbello, Marcello Giardina, Salvatore Tramonte, Samuele Vinanzi e Claudio Zito. In particolare questi ultimi, laureati magistrali in Ingegneria Informatica, hanno partecipato in qualità di tesisti di Robotica.
Per la Scuola di Composizione e di Musica Elettronica del Conservatorio hanno partecipato Fabio Correnti, Giuseppe Rapisarda, Marco Betta. L’EMC (Ensemble Musicale Contemporaneo) del Conservatorio è stato diretto da Fabio Correnti; il coordinamento è stato a cura di Fulvia Ricevuto, Gaetano Costa, Loris Capister. Infine, le musiche suonate sono state composte da Francesco Corsello e Vincenzo Caravello, studenti di Composizione e Musica Elettronica.
Il risultato del progetto è stato presentato il 19 Ottobre 2016 nella Sala Scarlatti del Conservatorio di Palermo. La sala di 150 posti era stracolma, segno del grande interesse destato dal progetto.
Al termine del concerto è stato distribuito un questionario di gradimento a tutti i presenti. I risultati del questionario sono attualmente in fase di elaborazione e forniranno preziosi suggerimenti sull’evoluzione futura del progetto stesso.

torna su


Società e nuove tecnologie, quali frontiere
Francesco Parisi
 
Sin dalla notte dei tempi l’uomo comprende l’importanza di comunicare con i suoi simili. La Storia ci parla degli sforzi fatti per attivare canali di comunicazione e di scoperte che hanno facilitato l’avvicinamento dei popoli. Prima ci sono la ruota, le grandi vie disegnate dai Romani, e poi ancora le navi, le strade ferrate, gli aerei e infine le astronavi che dovrebbero potere avvicinarci agli abitanti di altri pianeti. Le comunicazioni interpersonali vedono una prima forma di espressione nei geroglifici in cui i primitivi cristallizzavano le loro conoscenze e le loro impressioni, che così ci sono trasmesse; più tardi ci sono la scrittura, quindi la stampa. La trasmissione senza fili crea gli strumenti necessari per la messa a punto di nuove modalità di espressione. Le nuove tecnologie – telefono, televisione, computer – sono il risultato di un lungo percorso che favorisce le relazioni sociali e i contatti umani più diversificati, trasformando e facilitando le modalità di accesso alla cultura, all’informazione nonché i rapporti interpersonali.
Agli inizi degli anni ’90 ho modo di conoscere un importante editore che pubblicava alcuni dei più famosi dizionari, anche enciclopedici, del nostro Paese e che hanno costituito quasi l’unica fonte per le ricerche strutturate di tutti gli studenti della mia generazione. Nel corso di lunghe chiacchierate, mi palesava spesso la sua grande preoccupazione per la perdita di valore, connessa alle innovazioni portate da internet e dal personal computer, del suo immenso archivio – creato per essere riversato nelle sue enciclopedie – di schede redatte dai più insigni letterati, storici e scienziati degli ultimi decenni, su tutti gli argomenti dello scibile. Nello stesso tempo era perfettamente cosciente del fatto che percorrevamo una strada senza ritorno e che non si poteva imbrigliare in alcun modo la cultura. Vedevano la luce i primi CD, portanti conoscenze enciclopediche settoriali e poi più propriamente universali, capaci di una certa “interattività” – cliccando su parole determinate il sistema consentiva di riorientare la ricerca su argomenti anche diversi da quelli da cui si era partiti – che diventava la parola chiave di quegli anni.
Ma il nostro vissuto si sviluppa all’interno di frontiere, che si allargano sempre di più man mano che le nuove conoscenze e le nuove opportunità si appalesano, e siamo oggi sospinti, grazie ai sistemi di cui disponiamo, verso nuovi orizzonti; la nuova parola d’ordine è: “interazione”. Essa pervade tutto ciò che attiene la cultura, l’informazione e i rapporti interpersonali, con ricadute sulla qualità della vita.
La cultura diventa veramente un bene comune. È difficile immaginare oggi che gli studenti non si avvalgano di internet per le loro ricerche. Ciò permette migliori risultati scolastici, anche se i vantaggi connessi con l’immediatezza della consultazione fanno il paio con un linguaggio che si sposta verso un registro più povero. Il sapere non si trasmette più soltanto in un senso, ma chiunque ne sia in possesso ne fa partecipi gli altri e dagli altri assume quella parte di cui non dispone. Tutti attingiamo, per esempio, a Wikipedia – quando desideriamo acquisire conoscenza immediata su qualsiasi personaggio, fatto o cosa, salvo poi cercare se necessario approfondimenti o conferme ulteriori – e c’è qualcuno che si prende la briga di contribuire attivamente alla costituzione e all’arricchimento di questo patrimonio.
La qualità dell’informazione è migliorata, basti pensare alla diffusione delle notizie, che ormai riguardano il mondo intero, e all’aumento esponenziale delle fonti ufficiali, che rappresenta una grande garanzia di obiettività. Oggi i media forniscono informazioni sugli avvenimenti della propria città, del proprio Paese, dell’Europa, del mondo intero. Chiunque desideri essere informato può conoscere tutti i dettagli sulla guerra in Iraq, sull’assassinio di cinque bambini in quell’asilo infantile in Argentina, sul naufragio del « Concordia », sugli amori di quella star del cinema americano o del bambino che questa ha avuto con quel giocatore di football del Brasile, ecc. Per contro, talora le informazioni – anche di natura scientifica – diffuse da chissà chi rischiano di diventare superficiali e qualche volta non sufficientemente verificate.
Mi soffermerò ora, sulla qualità delle relazioni. Si ridisegna infatti – in una comunicazione a due vie – il modo di svilupparsi dei rapporti interpersonali, che fioriscono non più soltanto nel giardino di casa propria, sotto l’occhio dei più cari e vicini, ma all’interno di una piazza più ampia, che tende ormai a dissolvere i suoi confini. L’ulteriore evoluzione si disegna grazie alla creazione e all’accesso alle reti sociali, i cosiddetti social media – ne esistono molti: alcuni con il semplice scopo di creare comunità di persone, altri riservati a chi ha interessi specifici – che accrescono in maniera smisurata le relazioni personali e rendono la vita delle persone praticamente pubblica. Ciò ci porta verso un avvenire radioso o ci avviamo verso nuovi periodi di oscurantismo? Su queste problematiche e in particolare sull’utilizzazione senza limiti dei dati personali è aperto nella società un grande dibattito che tuttavia non ha alcuna chance di trovare una univoca risposta, se non quella di condividere l’esigenza di individuare dei contrappesi di natura legale che possano limitare il pericolo di forme di spionaggio generalizzato e di utilizzo non autorizzato di circostanze non appropriate. Noi diamo alle reti sociali, con facoltà di mentire, un grande numero di informazioni che ci riguardano; nello stesso modo non potremo essere del tutto sicuri che le informazioni che riguardano gli altri siano veritiere. L’utilizzo dei social ci obbliga comunque a mettere in “rete” i nostri dati personali, che acquisiranno per il mercato un immenso valore; noi non li padroneggeremo più. Le reti li utilizzeranno mettendoli a disposizione delle imprese – che così influenzeranno con i loro messaggi pubblicitari le nostre abitudini, i nostri desideri. Quale evoluzione si può intravedere? Basta pensare alla possibilità per le imprese di modificare interattivamente sulla base dei “mi piace” dei fruitori i loro messaggi pubblicitari se non addirittura la loro produzione. E non solo: la politica potrà influenzare i popoli e diventare completamente autoreferenziale, facendo svanire i residui margini di democrazia? C’è chi sostiene, ad esempio, che la campagna per le presidenziali americane abbia visto vincitore Trump anche per la grande abilità con la quale i suoi tecnici hanno riorientato i messaggi contro Clinton man mano che se ne spostavano gli indici di gradimento sui social. Non ci saranno più segreti da opporre alle Autorità che conosceranno i nostri modi di vivere, i nostri desideri più reconditi, persino le violazioni che compiamo delle regole; per esempio non potremo più nulla nascondere dei nostri spostamenti, delle conoscenze che facciamo in rete, dei nostri affetti, del nostro modo di vivere.
Per concludere, sarebbe oggi poco gradevole vivere senza potere disporre di un tablet, sul quale leggere un libro elettronico o grazie al quale godere della visione di un film, mentre si fa un noioso viaggio in treno. Sarebbe altrettanto triste non potere più comunicare in chat o attraverso Skype o persino col nostro cellulare grazie alle più sofisticate App disponibili.
Quando, molti anni fa, leggevamo Asimov o Orwell mai avremmo considerato le loro opere più che alla stregua di romanzi di fantascienza. Oggi ci domandiamo se al contrario non si trattasse di profezie e se il futuro non ci riservi di assistere al reale manifestarsi di quant’altro da loro descritto e non, spingendoci verso frontiere comunque oggi impensabili.
Mi auguro tuttavia che, malgrado la moltitudine di contatti possibili grazie ai social con persone di tutto il mondo, le future generazioni non siano destinate a vivere queste relazioni in solitudine, nel chiuso di un rapporto esclusivo con il loro PC o smartphone.

torna su


La nuova frontiera della Chirurgia Plastica: la “Chirurgia Rigenerativa”
Ettore Pirillo
 
Introduzione
L’utilizzo di cellule staminali per applicazioni di terapia cellulare, tra le quali le cellule staminali adulte “mesenchimali”, rappresenta oggi uno dei settori della medicina di maggior interesse.
Le staminali hanno dimostrato una grande capacità di rigenerazione dei tessuti, di rimodulazione del sistema immunitario e posseggono, inoltre, una serie di altre qualità benefiche per l’organismo.
Definiamo “rigenerativa” quella branca della medicina che ha come scopo quello di riparare organi o tessuti danneggiati da malattie, traumi o dal “semplice” invecchiamento.
L’obiettivo è quello di ripristinare la funzionalità di questi organi, o almeno di migliorarla. In questo senso, però, tutta la medicina, a eccezione di quella preventiva (si pensi per esempio alle vaccinazioni) può essere definita “rigenerativa”, e dunque oggi si pone l’esigenza di una definizione più puntuale e precisa. “Medicina rigenerativa” identifica dunque l’insieme delle ricerche e delle terapie che, nel perseguire l’obiettivo della rigenerazione, utilizzano le cellule staminali.
Parliamo propriamente di terapie cellulari.
Parlare di cellule staminali e delle loro capacità rigenerative come se fossero un’unica cosa è però erroneo, prima nell’embrione e successivamente all’interno del nostro organismo adulto molteplici tipi di cellule staminali svolgono funzioni continue di creazione e rigenerazione dei tessuti. Un tipo particolarmente promettente di cellule staminali adulte per la medicina rigenerativa sono le cellule staminali mesenchimali.
Queste cellule reperibili in diversi tessuti del nostro organismo hanno la capacità, una volta espanse (ovvero aumentate di numero) e differenziate (ovvero indirizzate a uno specifico tessuto) di rigenerarlo in parte o interamente con semplice reinfusione anche distante dal tessuto bersaglio.
Grazie alle loro particolari caratteristiche le MSC vengono oggi considerate come il candidato più promettente da utilizzare in medicina rigenerativa/riparativa, in terapia cellulare e in ingegneria dei tessuti da sole o in associazione con biomateriali che funzionino da scaffold. L’elevato potenziale proliferativo in vitro, il trofismo, la capacità antinfiammatoria, la possibilità di disporre di cellule off-the-self e in modo particolare la possibilità di differenziare e trans differenziare verso cellule specializzate, se impiantate nel giusto contesto e microambiente, fanno si che le MSC possano essere uno strumento per la rigenerazione e la riparazione di tessuti danneggiati da traumi, malattie degenerative e agenti patogeni (di grande impatto per alcune patologie acute, per le quali il pronto intervento è fondamentale).
La medicina rigenerativa è oggi all’inizio del suo percorso, seppur ostacolata da legislazioni assurde e da spiccioli interessi locali. Le attese nel futuro sono grandissime, ma già oggi patologie finora incurabili hanno dimostrato di rispondere a questo tipo di terapia.
Le attese miracolistiche di guarigione sono altrettanto dannose per quest’area di ricerca quanto gli ostacoli che le sono stati posti, ma ormai in tutto il mondo fioriscono sperimentazioni che dimostrano l’efficacia di tali terapie.
La nostra attenzione per ragioni pratiche è indirizzata sostanzialmente alle staminali adulte in quanto oggetto, già oggi, di risultati terapeutici.
In questa sezione nella voce “Sperimentazioni” riportiamo un elenco seppur incompleto e in continuo aggiornamento delle principali applicazioni fatte nel mondo. Come ogni confine avanzato della ricerca non è oggetto di un’uniformazione, ma subisce uno sviluppo a macchia di leopardo.
A seconda delle legislazioni locali, dell’apertura culturale ed economica dei singoli paesi vi sono avanzamenti o blocchi della ricerca.
La medicina rigenerativa è una disciplina innovativa, che si propone di riparare organi adulti umani danneggiati con l’intento di restituire loro l’integrità strutturale e funzionale dell’organo sano.
Il traguardo che la medicina rigenerativa si prefigge può essere raggiunto attraverso:

  • l’identificazione delle cellule che meglio di altre possono sostituire le cellule colpite dalla malattia, come per esempio le cellule staminali;
  • la ricostruzione del microambiente più adatto capace di ospitare e istruire le cellule rigeneranti (ingegneria dei tessuti).

La medicina rigenerativa metterà a disposizione nuove terapie per combattere le patologie neurodegenerative e alcune malattie neurologiche gravi e invalidanti, che colpiscono soprattutto i giovani adulti, quali la sclerosi multipla, l’ictus cerebrale, e i traumi del midollo spinale.
Gli studi condotti dai ricercatori del San Raffaele hanno già prodotto risultati importanti.
Grazie a loro oggi sappiamo che:

  • le cellule staminali del cervello, manipolate prima in laboratorio e poi iniettate, sono in grado di raggiungere selettivamente le aree del cervello e del midollo spinale danneggiate dall’infiammazione e di ripararle attraverso il rilascio di fattori solubili antiinfiammatori e neuro protettivi;
  • è possibile ricostruire i nervi danneggiati da traumatismi utilizzando protesi di collagene impiantate direttamente nel nervo danneggiato.

È solo un ottimo inizio: l’obiettivo è di arrivare a rigenerare i tessuti nervosi danneggiati restituendo loro la funzione e la struttura originaria. Si impedirà così che nei malati s’instaurino quei danni neurologici irreversibili, invalidanti e progressivi che ne pregiudicano gravemente le attività di tutti i giorni, anche le più semplici.
Medicina rigenerativa e cellule staminali
Le cellule staminali offrono una speranza senza precedenti per la cura e forse la guarigione di tessuti gravemente danneggiati che non possono essere salvati nemmeno dai trattamenti farmacologici o chirurgici più avanzati. Questa prospettiva ha aperto la strada a un nuovo paradigma nella gestione di malattie complesse, la cosiddetta “Medicina Rigenerativa”, che ha la potenzialità di guarire malattie oggi cronicizzate e di aiutare un invecchiamento sano e attivo, con eccezionali ricadute di natura socioeconomica.
Il settore della Medicina Rigenerative e delle Cellule Staminali ha ricevuto un notevole impulso dalla recente osservazione che mediante trasferimento genico con vettori virali di soli tre-quattro geni, può essere possibile riprogrammare cellule somatiche umane adulte non-staminali (es. fibroblasti della cute) o cellule staminali umane adulte multipotenti (es.
cellule staminali mesenchimali) fino a diventare addirittura cellule staminali simil-embrionali. Accanto a questo scenario prettamente scientifico si è aperto anche un complesso contesto normativo ed economico. Infatti, nell’ambito di una terapia cellulare, le cellule staminali si configurano giuridicamente come farmaci e come tali devono essere quindi isolate, caratterizzate, espanse e crioconservate secondo modalità strettamente codificate a livello internazionale (le cosiddette “GMP”). Dal punto di vista economico, le ricadute della Medicina Rigenerativa sono cruciali per la sostenibilità dei costi della sanità pubblica in una popolazione sempre più anziana.
Il fatturato dei prodotti a base cellulare cresce a un ritmo del 10-15% /anno e si prevede che raggiungerà i 6.6 M$ nel 2016.
L’INBB è attivo nel campo soprattutto nell’ambito del Laboratorio di Biologia Molecolare e Bioingegneria delle Cellule Staminali dell’INBB presso l’Università di Bologna, con la realizzazione di strategie innovative di medicina rigenerativa del danno cardiovascolare. Sempre come risultato delle attività del Laboratorio INBB sono state identificate molecole naturali in grado di fungere da registi della cardiogenesi in cellule staminali e sono state sintetizzate nuove molecole a “logica differenziativa e paracrina”. Sono stati sviluppati cocktails di molecole naturali in grado di aumentare l’attività paracrina di cellule mesenchimali staminali umane, anche a supporto della sopravvivenza e funzionalità in vivo di isole pancreatiche. E’ stata prodotta la prima evidenza in letteratura della capacità di campi magnetici di modulare il grado di multipotenza della cellule staminali, assieme alla loro capacità differenziativa verso fenotipi multipli. E’ stata prodotta la prima evidenza in letteratura della possibilità di riprogrammare con campi elettromagnetici cellule umane adulte somatiche non-staminali in senso cardiaco, neuronale e muscolare scheletrico, senza dover ricorrere a trasferimento genico con vettori virali e senza alterare in senso pro-oncogenico l’omeostasi cellulare. La scoperta della proprietà delle cellule di emettere vibrazioni nanomeccaniche rilevabili e udibili come onde sonore ha aperto prospettive senza precedenti per lo studio delle condizioni di salute cellulare e per la modulazione dei destini differenziativi cellulari. Nel tentativo di sviluppare sistemi di terapia cellulare rapidamente trasferibili in ambito clinico, sono stati realizzati per la prima volta un metodo e un dispositivo capaci di isolare dal tessuto adiposo umano una frazione micronizzata contente una nicchia vasculo-stromale intatta e, al suo interno, cellule staminali mesenchimali e periciti. Tale forma di tessuto, a differenza del lipoaspirato, è crioconservabile, anche da donatore cadavere, senza alcuna perdita della architettura della nicchia vasculostromale e della vitalità dei suoi elementi cellulari.
Applicazioni in Chirurgia Plastica
Numerose equipe mediche negli ultimi anni sono diventate pioniere nell’utilizzo delle tecniche della Medicina e Chirurgia Rigenerativa come testimoniato dalle numerosissime pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali di indiscutibile valore.
D’altro canto il progressivo incremento dei traumi della strada registrato negli ultimi anni con le conseguenze che da essi derivano, l’invecchiamento della popolazione e le sempre più frequenti patologie a esso correlate, stanno portando allo sviluppo di metodiche mirate alla rigenerazione di tessuti e organi come possibile alternativa alla loro terapia o sostituzione.
Pertanto per tutti coloro che siano affetti da gravi ferite che stentano a rimarginarsi determinate da traumi stradali che abbiano provocato importanti deficit a carico sia di tessuti duri, come nelle fratture del massiccio facciale e delle strutture ossee dei vari distretti corporei che dei tessuti molli, come nelle gravi perdite di sostanza e negli esiti cicatriziali che ne derivano, sono disponibili oggi queste nuove metodologie espressione della più alta ricerca in campo medico.
Medicina e Chirurgia rigenerativa: applicazioni e metodi d’impiego in chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica
La Medicina e la Chirurgia Rigenerativa insieme rappresentano le più recenti applicazioni delle scienze in campo medico, con l’obiettivo e la finalità di restituire funzione e integrità a parenchimi e tessuti danneggiati.
L’approccio relativamente “poco invasivo” consente al paziente di avere un decorso post-operatorio rapidissimo, utilizzando le proprie cellule e tessuti. Questo riduce lo stress fisico e psichico e accelera i processi di guarigione. Tre gli elementi fondamentali utilizzati nella Chirurgia Rigenerativa: biomateriali sintetici, cellule staminali ottenute dal tessuto adiposo e da altri tessuti, fattori di crescita contenuti nelle piastrine. Sia le cellule staminali che le piastrine vengono prelevate dallo stesso paziente, attraverso un’autodonazione.
Nel caso di interventi su tessuti ossei, come ad esempio il trattamento di disodontiasi, brecce alveolari, fratture e perdite di sostanza, viene usato un concentrato di piastrine ottenuto da un prelievo di 18cc di sangue, che viene sottoposto a una specifica centrifugazione, al termine della quale si otterrà PRP (platelet-rich-plasma) plasma ricco di piastrine e fattori di crescita.
Per la rigenerazione dei tessuti molli, invece, si può utilizzare il PRP da solo nel caso della Biorivitalizzazione del volto e delle mani e in associazione al tessuto adiposo ricco di cellule staminali mesenchimali. In questo caso il paziente viene sottoposto a prelievo di tessuto adiposo mediante una piccola lipoaspirazione, generalmente in regione addominale o a livello di fianchi e cosce come da desiderio del paziente.
Il tessuto ottenuto viene anch’esso sottoposto a una specifica centrifugazione al termine della quale si otterrà tessuto adiposo purificato che verrà addizionato al PRP precedentemente ottenuto.
Il tessuto adiposo in associazione al PRP sarà innestato attraverso delle microiniezioni nelle regioni deficitarie, come nelle depressioni cutanee, nelle emiatrofie facciali, negli esiti cicatriziali, nelle perdite di sostanza, nelle ulcere, e utilizzato nell’ambito della chirurgia estetica mini-invasiva nel ringiovanimento facciale. L’obbiettivo è quello di accelerare i processi di guarigione e di effettuare una ricostruzione tridimensionale dei tessuti danneggiati.
La Medicina e la Chirurgia Rigenerativa trovano pertanto grande impiego nella terapia di gravi ferite che stentano a rimarginarsi e nelle ulcerazioni croniche.
Si avvalgono di diverse tecnologie e metodiche che possono essere brevemente riassunte:
Gel Piastrinico e Fattori di Crescita
Tra le diverse metodiche impiegate nella Rigenerazione e Riparazione dei tessuti, una nuova tendenza è rappresentata dall’utilizzo di gel piastrinico e Fattori di Crescita.
Il gel piastrinico è una metodica che consente l’utilizzo di fattori di crescita nella forma di Plasma ricco di piastrine (PRP Platelet rich plasma -) per accelerare i processi di guarigione iniziali (attraverso bFGF, PDGF e IGF) e tardivi (attraverso EGF, VEGF, TGF-b, IGF) nell’osso e nei tessuti molli.
Si ottiene tramite un piccolo prelievo di 18cc di sangue direttamente dal paziente prima del suo ingresso in sala operatoria, con assistenza del Servizio Trasfusionale. Può essere utilizzato da solo o in combinazione con l’innesto di tessuto adiposo.
Viene impiegato da solo in interventi di demolizione del distretto maxillo-facciale, nelle gravi perdite di sostanza ossea che portano a disodontiasi, nell’implantologia qualora non vi sia tessuto osseo a disposizione per il posizionamento degli impianti, nell’edentulia, nel rialzo del seno mascellare, e nelle brecce alveolari. In combinazione con l’innesto di tessuto adiposo centrifugato (contenente cellule staminali mesenchimali) nel trattamento di ulcere da decubito, piaghe croniche e a lenta guarigione, ulcere trofiche e vascolari degli arti inferiori, perdita di sostanza post-traumatica, emiatrofia facciale e Sindrome di Romberg, esiti cicatriziali, esiti di ustione, ricostruzione mammaria e in chirurgia estetica mini-invasiva.
Interventi di Chirurgia Rigenerativa con utilizzo di tessuto adiposo, cellule staminali e fattori di crescita:
Aumento di volume e modellamento mammario nelle ricostruzioni post oncologiche.
Ringiovanimento del volto con aumento di volume degli zigomi ecc.
Ringiovanimento delle mani Aumento volume dei glutei Modellamento delle cicatrici da ustione e post traumatiche Simmetrizzazione nelle malformazioni Ecc.

torna su


Frontiere in Oftalmogia
Salvatore Torregrossa
 
L’oftalmologia è una scienza medica in continua evoluzione: avanzamenti nella diagnostica e nuovi traguardi terapeutici sono all’ordine del giorno. Oggi la chirurgia del distacco di retina ha successo nel 90% al primo intervento, la chiusura chirurgica dei fori maculari raggiunge quasi il 100%, le maculopatie umide sono bloccate e rallentate con le intravitreali di antiVEGF , gli scompensi corneali non sono più sottoposti a trapianto a tutto spessore ma al solo impianto di una membrana sottilissima.
Gli studi clinici, trials, sono migliaia, basti citare che per la maculopatia secca , dAMD, ne sono in corso oltre 100.
Nell’ambito oftalmologico quello che possiamo considerare una frontiera, è la cura delle Malattie Genetiche Retiniche dove i progressi sono stati veramente pochi, se non nulli. Basti citare la Retinite Pigmentosa, RP, in tutte le sue varianti, l’Amaurosi Congenita di Leber di tipo 2 , LCA2, e prima per diffusione, la Maculopatia Secca, dAMD.
Ma oggi si apre un nuovo capitolo per l’avvento di nuove tipologie di intervento, molto lontane da quanto sinora praticato: parliamo di RIGENERAZIONE RETINICA, che può avvenire per due strade diverse, la Terapia Genica e il trapianto di Cellule Staminali. L’occhio infatti è considerato un sito adatto a questa tipologia di interventi, alla terapia genica per la sua configurazione compatta e la sua accessibilità e alla terapia staminale per i suoi privilegi immunologici.
Nel 2008 sono iniziati dei Trial clinici in UK e USA per la terapia genica dell’Amaurosi congenita di Leber, LCA2: malattia ereditaria progressiva a rapida insorgenza da difetto del DNA preposto alla sintesi di un enzima, l’RPE65, essenziale per la catena biochimica della visione.
La procedura prevede l’utilizzo di vettori, degli adenovirus modificati attenuati (AAV) che si inseriscono nel DNA delle cellule infettate portandosi dietro il gene sano che inizia a produrre la proteina carente. In sala operatoria alcuni bilioni di particelle virali sono iniettati nello spazio sottoretinico creando una bolla che lentamente verrà riassorbita . lo studio in corso prevede una sola puntura.
I soggetti trattati hanno avuto tutti benefici, maggiori nei più giovani ma con riduzione progressiva nel corso di tre anni di osservazione: il fatto è che al momento non tutto l’Epitelio Pigmentato riesce a essere infettato, ma solo il 50%.
L’incognita era la possibile reazione immunitaria al trattamento del secondo occhio.
Finalmente ad agosto del 2016 è stato pubblicato un report in cui si danno i risultati dell’iniezione nei secondi occhi su 11 pazienti per lo più ragazzi con una osservazione prolungata sino a 5 anni che non ha evidenziato problemi tranne che per una endoftalmite. I pazienti restanti sono tutti migliorati senza danno anche sul primo occhio. Questo è il primo trial che certifica la sicurezza della terapia genica sul secondo occhio.
Questo è stato il primo trial clinico di terapia genica negli USA : l’eventuale approvazione della procedura aprirebbe una nuova strada per la cura di tante altre malattie oculari, quali la Retinite Pigmentosa, la Coroideremia, l’Acromatopsia, la Retinoschisi legata al sesso..
Ma i risultati a distanza sono stati un po’ deludenti in quanto i miglioramenti si riducono progressivamente al terzo anno.
La terapia genica sembrerebbe più indicata nella malattia all’esordio, mentre nei soggetti più adulti si spera maggiormente nella terapia Staminale.
Nella terapia genica s’impianta codice DNA sulle cellule malate per tramite di un virus modificato che le infetta. Nella terapia Staminale si impiantano cellule o tessuti che si sostituiscono o affiancano quelli malati e si spera anche nella ricostruzione tridimensionale delle strutture.
Nell’occhio trova un terreno favorevole per la presenza della barriera ematoretinica con riduzione dei fenomeni di rigetto.
Che tuttavia non sono esclusi.
Esistono fondamentalmente due tipologie di produzione di cellule staminali:

  • da cellule embrionali
  • da cellule autologhe indotte pluripotenti

La prima, decisamente meno onerosa, crea problemi etici religiosi La seconda, ha costi elevati, sino a 800 mila $ per paziente con tempi lunghi anche di un anno per la preparazione dei tessuti. Entrambe espongono a reazioni immunitarie e a possibili teratomi o neoplasie. Nell’occhio poi, essendo un organo chiuso, i possibili problemi infettivi derivanti dall’impianto per lo più sottoretinico, sono estremamente gravi.
Al momento numerosi sono i trial aperti per la Retinite Pigmentosa, la maculopatia secca e la malattia di Stargardt: sono utilizzati prevalentemente tessuti di origine embrionale ma anche di derivazione dalle cellule del sangue abbinando l’istocompatibilità dei tessuti.
I risultati degli studi ufficiali sono tutti soddisfacenti, ma al momento non ci sono terapie già validate.
Le promesse sono enormi così come gli interessi: negli USA, ma recentemente anche in Italia, ci sono individui e cliniche che propongono terapie staminali con cellule prelevate tramite liposuzione: si tratta di stromal vascular fraction , SVF, non approvate dall’FDA ne dall’EMA per l’uso intraoculare, il cui utilizzo è sconsigliato, ritenuto pericoloso e illegale dall’AAO , la più grande società scientifica oftalmologica del Mondo che ha diramato un Clinical Statements a tale contenuto nel giugno del 2016 . La stessa consiglia gli interessati a consultare i centri che sono autorizzati a trial clinici.
Siamo proprio alle frontiere.

torna su


Etat Frontière entre la vie et la mort
Giancarlo Perra
 
È la notte del 5 dicembre 2015 quando Anna, infermiera del reparto di lungodegenza per i malati in stato vegetativo persistente, sente chiamare il suo nome con voce flebile. Una voce che non aveva mai sentito e del resto in quella stanza nessuno parla da anni. Vi sono ricoverati i malati in coma prolungato, i cronici, malati che dopo una severa emorragia cerebrale da trauma o da ictus restano come sospesi alla vita resa possibile da un filo sottile. Necessitano di assistenza continua e di essere accuditi in tutte le loro funzioni. Un lavoro di equipe ove medici, fisioterapisti, personale infermieristico specializzato utilizzano le proprie conoscenze in costante evoluzione e degli strumenti che consentono di alimentare gli ammalati, di farli muovere, di stimolare continuamente i loro corpi alla ricerca di un contatto verbale o anche di un minimo segno di presenza cosciente.
La voce ripete il nome di “Anna” e l’infermiera per dovere e/o curiosità vince la propria riluttanza, la paura e si avvicina a tutti i ricoverati sino a quando identifica in “Giustina” la responsabile della chiamata. In preda a enorme sorpresa chiama il medico e gli altri colleghi: “Giustina si è svegliata” dice.
La paziente è ricoverata nel reparto da 45 mesi in uno “stato vegetativo” e nessuno in tale periodo era mai riuscito a entrare in contatto con lei.
La vicenda comporta una maggiore attenzione nei confronti della paziente che progressivamente riesce a migliorare il proprio contatto con l’ambiente esterno e a esprimersi vocalizzando con maggior facilità. Ci si rende conto che la paziente durante la degenza, al di là delle apparenze di incomunicabilità, memorizzava i nomi dei medici e degli infermieri e registrava le loro abitudini. Si ridefinisce quindi la diagnosi la paziente da uno stato vegetativo era passata dapprima in uno stato “Locke in”, uno miglioramento rispetto allo stato vegetativo e dopo a uno stato di vita cosciente.
Durante il periodo in Looke in Giustina percepiva l’ambiente circostante ma non interagiva per mancanza degli strumenti della parola e delle funzioni motorie. Questo stato è dovuto a severe lesioni del tronco cerebrale sino a ora considerate irreversibili. Le sorprese non finiscono qui e la paziente progressivamente riesce anche a ricordare le canzoni della propria gioventù e a seguire le parole e a suggerirle, comincia ad articolare il linguaggio con vocaboli ricercati. Partecipa all’ambiente con attenzione e talvolta sorride.
Giustina non manifesta segni di sofferenza per l’esperienza vissuta o di insoddisfazione per il suo stato cosciente, mostra di essere contenta di vivere così com’è e gioisce nell’apprendere dei propri figli, dei nipoti, elargisce dei sorrisi solari ai propri cari e al personale che la accudisce.
I nostri pregiudizi rispetto alla sofferenza dei malati con cui non si riesce a entrare in contatto crollano e questa esperienza ci fa realizzare che essi piuttosto vivono in uno stato onirico, vivono al di là del nostro orizzonte in un universo tutto loro e rendono palpabile il dubbio Amletico: siamo sicuri che dopo la morte tutto cessi? O la morte è solamente la fine della vita come noi la percepiamo? «Cosa è successo, come mai ha recuperato le funzioni coscienti e la parola?» La storia dimostra che il cervello ha delle capacità di recupero al di fuori di quelli che erano i luoghi comuni sulla irreversibilità degli stati di coma prolungato; questi limiti sono stati spostati grazie anche al progresso tecnico nella gestione di tali ammalati.
«Cosa ci vuole affinché questo non sia un risultato isolato ma ottenibile con una certa frequenza?» Un recupero come questo non si ottiene mai per caso, è indispensabile, da parte dei medici, una profonda conoscenza degli stati di coma in fase acuta, una competenza tecnica adeguata per eseguire l’intervento in un ambiente adeguato e forte in cui opera una equipe in grado di far fronte a situazioni così complesse.
La storia dice che Rosalba (detta Giustina) ebbe una emorragia cerebrale devastante con un idrocefalo secondario nel mese di marzo del 2012 seguita da un arresto cardiaco. La paziente fu ricoverata in coma profondo nel reparto di Rianimazione dell’Ospedale Civico e stante le gravissime condizioni si esplorò la disponibilità dei familiari a una eventuale donazione degli organi nel caso, molto probabile, che non vi fosse esito positivo di tutte le terapie possibili.
L’esame Tac encefalo e angio-tac eseguiti misero in evidenza una severa emorragia cerebrale con inondazione dei ventricoli e idrocefalo cui si associava una ipodensità/infarcimento del tronco cerebrale. Tale devastante quadro radiologico e clinico era dovuto alla rottura di un aneurisma della Arteria Basilare, patologia gravissima che comporta un intervento chirurgico difficilissimo già in condizioni più favorevoli.
In tale condizione di apparente irreversibilità l’unica soluzione nell’immediato era di procedere “Step by Step” innanzitutto riducendo la pressione intracranica per valutare in condizioni più favorevoli lo stato del danno cerebrale e fu quindi posizionato un drenaggio ventricolare esterno.
A questo elementare intervento preliminare si deve un lieve miglioramento e la stabilizzazione delle condizioni neurologiche: la catena di eventi che aveva portato la paziente in fin di vita venne arrestata: “eravamo riusciti a colloquiare con la malattia”.
Il passo successivo è stato quello di eseguire un intervento chirurgico sull’aneurisma per escluderlo dal circolo e quindi evitare un risanguinamento che avrebbe certamente provocato la morte della paziente.
L’intervento fu eseguito nel migliore dei modi. L’arteria basilare così riparata garantiva il normale flusso di sangue al tronco cerebrale che venne riperfuso.
La terza fase era quello di tenere la malata in rianimazione e sperare che il tessuto cerebrale danneggiato potesse recuperare. Tale possibilità appariva per la verità remota! Inizia il periodo di attesa in cui la paziente è tenuta in vita da competenti e infaticabili medici rianimatori che utilizzano sofisticati strumenti che garantiscono il giusto quantitativo di aria, di elettroliti, di proteine. Lentamente, day by day, impercettibilmente qualcosa cambiava nel quadro generale; pur non essendoci alcun recupero dello stato di coscienza la paziente in coma viveva e si stabilizzavano le funzioni vitali.
Si passò alla fase cronica che durò per quarantacinque mesi.
Il Recupero
In questi casi avviene che ripristinato il circolo cerebrale e quindi garantendo il regolare apporto di ossigeno al cervello, assieme al continuo flusso di liquor e con l’intervento di cellule spazzine l’organismo riesce a liberare le vie anatomiche e funzionali dell’encefalo con progressiva attivazione sia del metabolismo dei neuromediatori che con il ripristino di alcune sinapsi.
Il quadro è simile a quello del dopo alluvione a Firenze in cui le case gli scantinati, le opere d’arte vennero ricoperte dal fango e poi grazie al lavoro di diverse equipe specializzate (restauratori, addetti allo sgombero, trasportatori, operai, intellettuali), e al lavoro di tantissime persone alcuni di questi oggetti sono stati recuperati mentre altri completamente distrutti andarono definitivamente persi.
Cosa emerge da questa esperienza?

  • Il cervello è un organo di cui ancora non si conosce abbastanza, sempre più si profila come una struttura anatomica e funzionale estremamente complessa, sofisticata, con risorse e limiti ancora sconosciuti il cui funzionamento è assimilabile a un computer quantico ovvero capace istantaneamente di recepire e rielaborare migliaia di stimoli paralleli producendo contemporaneamente delle risposte emozionali, motorie e associative immediate riconducibili alla attività sinergica di entrambi gli emisferi cerebrali.
  • Possiede la capacità di interagire con altri cervelli è per esempio possibile condividere le emozioni e le paure delle altrui esperienze istantaneamente per la presenza dei neuroni a specchio. In questa ottica neanche la telepatia va considerata impossibile.
  • Oggi la vecchia visione di aree anatomiche cerebrali preposte a determinate funzioni, ad esempio area di Broca per il linguaggio, è del tutto superata. I risultati di recentissimi studi neurofisiologici, che si avvalgono dell’utilizzo di apparecchiature molto sofisticate, come la RMN 7 Tesla in grado di eseguire anche lo studio funzionale delle aree cerebrali, sui neuromediatori, sul ruolo degli ormoni, sulle sinapsi multidendritiche, ci fanno pensare a un organo in cui ogni singola cellula cerebrale è totipotente e ha un ruolo suo proprio e un ruolo generico indefinito. Le sensazioni, le emozioni hanno un aspetto diffuso e tutto l’encefalo è coinvolto nel processo di sintesi e rielaborazione delle risposte. Non vi è più un emisfero dominante propriamente detto ma l’essere è la sintesi di funzioni diffuse che fanno capo ad aree associative presenti in entrambi gli emisferi.
    Percepire la musica (per es.) comporta tutto un susseguirsi di eventi a cascata in quanto il suono, la melodia, diffondendosi attraverso le vie uditive, ma anche attraverso il corpo e tutti gli organi di senso, raggiungono le aree corticali della percezione del suono (qui si infrangono come sulla tastiera di un pianoforte ricomponendo la melodia), ma anche altre regioni del cervello. Dall’area di percezione del suono si emettono altri impulsi, mediati da neurotrasmettitori o sinapsi, che raggiungono aree emozionali del cervello che a loro volta eccitano delle vie anatomiche e/o neuromediate che comportano il rilascio di determinati ormoni da cui si generano emozioni di appagamento, di rabbia etc. mentre nell’emisfero controlaterale è mantenuta l’esperienza la memoria e la trasmissibilità dei dati riuscendo a influenzare l’esperienza e i comportamenti futuri. Ma il cervello percepisce contemporaneamente anche l’atmosfera, il clima in cui quel suono è prodotto e attraverso recettori periferici tattili, olfattivi, ottici gli impulsi viaggiano contemporaneamente verso il cervello ove vengono rielaborati e integrandosi con gli altri stimoli contribuiscono alla risposta finale. Questa è una semplificazione del processo che in realtà è ancora molto più complesso.
  • Queste proprietà del cervello sono alla base di quella che è la stimolazione neurosensoriale per la riabilitazione dei malati in coma. Nel paziente in coma un continuo flusso di stimoli tattili, olfattivi, termici percorrono delle vie nervose sia sane che alterate e raggiungono aree sane del cervello ove vengono in parte rielaborate dati i danni presenti. La stimolazione neurosensoriale è in grado con il tempo di riattivare le funzioni del cervello attraverso l’uso di aree inizialmente sane ma inibite, e con il recupero di aree sofferenti che rispondono alla mediazione neuroendocrinologica. La stimolazione neurosensoriale è nota da oltre 40 anni e il concetto di musicoterapia quale agente benefico nel recupero dei malati in coma è noto e universalmente accettato.
  • Iniziamo ora ad avere consapevolezza che i casi di coma cronico, stati vegetativi di cui ne esistono svariate forme (mutismo acinetico, sindrome demenziale psico orgamica, stato vegetativo etc.), a volte possono trovare uno sbocco positivo per attivazione di aree silenti o per recupero di nuclei primitivamente inibite contro laterali alla lesione. Grazie ai progressi tecnologici e alla migliore conoscenza delle terapie intensive e rianimatorie si verificano sempre più frequentemente casi che superati una fase acuta si avviano verso la cronicizzazione.
  • Nella neuroriabilitazione dei malati in coma prolungato il ruolo degli istituti di riabilitazione e cure assume un ruolo cruciale in quanto essendo possibile un recupero questi centri debbono essere messi sempre più in grado di provvedere a ogni necessità del paziente senza mai perdere le speranze e continuare, spesso per sempre, a curare ogni paziente evitando blocchi articolari o altro che impediscano il recupero.
  • Bisognerebbe curare tutti come se tutti potessero tornare a una vita normale.
  • Risolvere positivamente un caso simile a quello eclatante appena descritto comporta un impegno economico e dei costi sociali altissimi alla comunità che spesso si ritrova nel migliore dei casi con un invalido da nutrire e da gestire spesso per tutta la vita.

La domanda è: ne vale la pena?
La risposta è SI! Un caso come quello di Giustina sposta il confine della conoscenza verso limiti inesplorati e dà la possibilità di acquisire nuove conoscenza che possono cambiare la vita in maniera significativa.
Per i motivi esposti, corroborati da solidi dati scientifici recenti bisogna ammettere che i pazienti apparentemente in stato vegetativo elaborano dei pensieri e vivono una loro vita per lo più a noi non nota non necessariamente sofferta. Il ritorno alla realtà da questi stati frontiera tra la vita e la morte ci farà acquisire nuove conoscenze al di là di quelli che sono i luoghi comuni noti.
Idee originali e innovative sulle funzioni superiori della memoria, dell’apprendimento, sulle funzioni cerebrali superiori o anche sull’originalità del pensiero cosciente possono essere acquisite dallo studio di questi stati.
Il recupero da lesioni così gravi comporta il riconoscimento dei diritti dei pazienti che vivono in uno “stato frontiera tra la vita e la morte”.
Il dualismo vita – morte è un quesito esistenziale che ha sempre affascinato gli uomini.
Sin dal tempo dei faraoni in Egitto si eseguivano dei fori di trapano sul cranio a scopo esplorativo nelle demenze, nelle schizofrenie e nei traumi. Sinuhe l’egiziano riuscì anche a curare efficacemente alcuni casi di pazienti in coma e dopo il recupero il paziente veniva interrogato sulla sua esperienza.
La storia dell’uomo è spesso caratterizzata da grandi imprese che produssero risultati diversi da quelli per cui erano state progettate ma che si conclusero con risultati superiori alle aspettative cambiando il destino del mondo.
La circumnavigazione del globo operata dalla spedizione di Ferdinando Magellano fu il fallimento delle intenzioni iniziali che la avevano ispirata infatti non produsse né una rotta più breve per raggiungere le Isole delle Spezie né realizzò i vantaggi economici promessi. Tuttavia le scoperte scientifiche emerse da questo viaggio hanno rivoluzionato la vita dell’uomo, Antonio Pigafetta, quasi un turista a bordo della nave che riuscì a tornare, teneva un accurato diario di bordo ed evidenziò che tra la data di partenza e l’arrivo vi era un giorno di differenza rispetto a chi era rimasto sulla terraferma, si ebbe la prova provata che la terra era rotonda, che il Sud America non era il muro della fine del mondo visto che lo Stretto di Magellano permetteva di accedere a un nuovo Oceano. Si scoprì anche che nell’emisfero australe gli uomini non erano a testa in giù e si diede una spiegazione. Tutto questo riuscì a sovvertire tutte le credenze dell’epoca e, malgrado gli sforzi per occultare questa nuova realtà, gradatamente imporsi nella vita di ogni giorno.
Chissà magari la morte è solo la fine della nostra percezione della vita come la conosciamo.

torna su

Nuove frontiere alimentari, il caso degli insetti dei “Novel Foods”
Diego Planeta
 
I novel foods sono alimenti e ingredienti di nuova generazione che vengono introdotti e/o prodotti a fine degli anni novanta all’interno dell’Unione Europea derivati dall’innovazione e sostenibilità delle scienze e tecnologie alimentari. Da mettere in evidenza, è anche il fatto che l’evoluzione del mercato alimentare degli ultimi anni sta diventando sempre più complessa per la comparsa di alimenti innovativi che, oltre al tradizionale apporto di nutrienti, hanno effetti salutistici di varia natura. La normativa riguardante i novel foods, sta anche permettendo di sviluppare degli alimenti definiti “funzionali”. Gli alimenti funzionali sono riconosciuti come agenti benefici per una o più funzioni specifiche dell’organismo, che vanno oltre gli effetti nutrizionali normali, in modo tale che sia rilevante per il miglioramento dello stato di salute e di benessere e/o per la riduzione del rischio di malattia. Alimenti con caratteristiche funzionali sono quelli probiotici, prebiotici e simbiotici. La definizione di novel food viene introdotta con il Regolamento CE 258/97. Tale Regolamento mette in evidenza quattro gruppi di prodotti e ingredienti. Del primo gruppo fanno parte i prodotti e ingredienti alimentari con una struttura molecolare primaria nuova o volutamente modificata. Del secondo gruppo fanno parte i prodotti e ingredienti alimentari costituiti da insetti, microrganismi, alghe. Nel terzo gruppo vi sono prodotti e ingredienti alimentari costituiti da vegetali e ingredienti alimentari di origine animali. Infine il quarto gruppo, dove ritroviamo prodotti e ingredienti alimentari sottoposti a un processo di produzione non generalmente utilizzato, che comporta cambiamenti significativi del valore nutritivo, del loro metabolismo o del tenore di sostanze indesiderabili. Tutti i gruppi per essere commercializzati nel mercato, devono rispondere a degli specifici criteri che salvaguardino la salute del consumatore.
Il Regolamento CE 258/97 viene abrogato con il Regolamento UE 2015/2283 semplificando e rendendo chiaro il settore dei Novel Foods , escludendo prodotti OGM, enzimi e aromi, mantenendo la divisione nei quattro gruppi, mettendo in evidenza gli alimenti probiotici. Una volta riconosciuta la sicurezza alimentare i Novel Foods sono raggruppati in un elenco reperibile nel sito istituzionale dell’Unione Europea: http://ec.europa.eu/food/safety/novel_food/catalogue_en .
Tale inserimento avviene in seguito alla valutazione del rischio da parte dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) che ha sede a Parma. La Commissione Europea può prevedere obblighi di monitoraggio, successivi all’immissione nel mercato, al fine di assicurare non solo la sicurezza alimentare ma anche quella ambientale all’interno dell’Unione Europea. Il cibo in Europa ha una nuova frontiera: ciò è dovuto non solo in seguito all’aumentare della popolazione mondiale, ma anche per le esigenze ambientali e lo sfruttamento di risorse come suolo e acqua, che sono notevolmente sfruttati per la produzione di alimenti, sia provenienti da agricoltura tradizionale che biologica. Sono molteplici le potenzialità degli insetti, non solo ai fini dell’alimentazione umana ma anche di quella in ambito zootecnico: infatti la Fao ha riconosciuto da sempre negli insetti una fonte alimentare sostenibile ricca di proteine e aminoacidi, che appartiene già alla dieta, nel resto del mondo non occidentale, di oltre 2 miliardi di persone e rappresenta un ottimo sostituto delle farine di pesce e della soia nella produzione dei mangimi per animali. La particolarità degli insetti è quella di essere molto ricchi di proteine ma anche di avere capacità superiori di accumulo di sostanze quali il ferro, che sono nettamente maggiori del doppio, rispetto alle carni rosse tradizionali. Ulteriore aspetto di non secondaria importanza è la sostenibilità di allevamento, non solo per il minore spazio delle strutture ma anche per una netta diminuzione delle emissioni di gas serra, consumo di suolo e acqua, rientrando nella logica della sostenibilità per una nuova alimentazione a livello mondiale.
Questa nuova tipologia alimentare di apporto proteico si basa su circa duemila specie di insetti. Insetti come la regina delle termiti, le cui uova sono considerate uno degli alimenti più proteici e nutrienti al mondo; come le formiche zuccherine, che accumulano glucosio per poi immagazzinarlo nel formicaio. In molti Paesi di diversi continenti (Sud Africa, Burundi, Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Nuova Guinea, e tanti altri), gli insetti sono comunemente consumati e apprezzati per il loro valore nutritivo, fin dall’alba dei tempi. Mangiare termiti, grilli, formiche non è poi così diverso dal mangiare gamberetti, aragoste, lumache, alimenti che consumiamo normalmente nel mondo occidentale; quello che ci ferma sono le barriere culturali. Durante la manifestazione inaugurale dell’Expo Milano 2015 si è svolta la prima degustazione di insetti in territorio italiano, il protagonista principale delle pietanze furono i grilli diversamente preparati culinariamente. Infatti, il buffet a base di grilli fu abbinato con delle tartine di crema, sia dolci che salate. Un menù a base di novel food che potrebbe andare dall’antipasto al dolce, da proporre durante una conviviale nel prossimo futuro rotariano, consisterebbe in: Antipasti: tarantola in pastella, insaporita con del peperoncino calabrese in polvere; crema di formiche al forno su crostini. Primi: zuppa di maggiolini, coleotteri ricchi di ferro e magnesio con pane tostato; risotto alle locuste, insaporite con erba cipollina. Secondi: spiedini di grilli, privi di zampe, posti in modo alternato con pomodori e peperoni; cavallette fritte in olio di oliva, con zucchine e melanzane. Dolce: torta di biscotti di cioccolato bianco alle larve di vermi.
Frutta: ananas con formica amazzonica caramellizzata. Bevande alcoliche: succo di formiche zuccherine fermentato.
Il futuro indubbiamente porterà dei miglioramenti tecnologici, a tavola saremo serviti da robot, che sparecchieranno e puliranno i piatti oltre ad aver cucinato, ma saremo disposti a oltrepassare la frontiera del gusto e rinunciare ai piaceri del palato? Credo proprio di no!

torna su


Nuove frontiere nel settore agroalimentare
Agostino Contorno
 
L’agroalimentare siciliano è al centro di un processo d’innovazione e, sensibile alle esigenze dei mercati internazionali e dei cambiamenti di stile di vita dei consumatori, si prepara a recepire nuove tendenze già da tempo presenti nei paesi anglosassoni.
Mi riferisco all’alimentazione “fast food” in contrapposizione a quella dello “slow food” e, in ultima, a quella del “finger food”.
Una larga fetta di consumatori non è abituata alla terminologia anglosassone e si trova disorientata nelle scelte di alimentazione; in particolare, per ciò che concerne il cibo vegano, il gluten-free, il bio, la dieta mediterranea, per citarne alcune.
Né per il consumatore, né per il produttore è semplice cambiare le proprie abitudini alimentari; per quest’ultimo non si tratta di scegliere un segmento di mercato più promettente di un altro, bensì di soddisfare molteplici esigenze, a prescindere dal proprio credo alimentare.
Se poi teniamo conto delle risorse alimentari disponibili e reperibili nel rispetto delle nostre tradizioni, dobbiamo far fronte a consistenti problematiche.
Recentemente, ho appurato che diversi gruppi di consumatori di differente età e istruzione si sono mostrati sempre più inclini a ridurre il consumo di proteine derivanti da carni rosse, verosimilmente a ciò spinti dalle informazioni diffuse dai media.
Ormai da anni, si consiglia, a fini salutistici, il consumo di proteine derivanti da prodotti ittici, in particolare dal pesce azzurro, per via della presenza degli omega tre.
Tuttavia, i volumi del pescato sono inferiori al potenziale consumo, nonostante il ricorso all’acquacoltura (in via di espansione), senza dimenticare che il bacino di utenza ( i consumatori ) ha dei tempi di cambiamento non rapidi.
Ritengo che le proteine vegetali siano il perfetto sostituto di quelle animali, poiché più semplici da reperire rispetto a queste ultime. Più nello specifico, faccio riferimento alle varie specie di leguminose.
I vantaggi possibili sono rappresentati dalla coltivazione in loco, dalla possibilità di programmare semine e raccolti, dall’opportunità, soprattutto nel sud Italia, di coltivare in bio e non ultimo il fattore economico, si tratta infatti di un prezzo accessibile a tutti, elemento non trascurabile in tempi di crisi economica. Coscienti di tali necessità, abbiamo ritenuto opportuno sviluppare ricette semplici: delle zuppe di legumi da rendere ready to eat, cioè pronte all’uso, evitando la fastidiosa perdita di tempo per la relativa cottura e preparazione.
Abbiamo pensato che, per agevolarne la diffusione, bisognava realizzare un sistema di conservazione pratico, sicuro, durevole e fruibile in qualsiasi circostanza.
Attraverso la produttiva collaborazione tra l’Università di Palermo (Dipartimento di Ingegneria Chimica), la Stazione Sperimentale delle Conserve di Parma (un’industria multinazionale del packaging innovativo) e l’industria F.lli Contorno, è stato avviato uno studio congiunto, della durata di due anni, per testare la validità del progetto.
Il risultato è stato più che soddisfacente, in quanto abbiamo realizzato una confezione in polipropilene, ad alta barriera d’ossigeno, idonea a contenere zuppe di legumi sterilizzate e pronte all’uso con una self-life di oltre un anno.
Detta confezione risulta estremamente pratica, poiché il consumatore potrà utilizzarla anche e soprattutto nei posti di lavoro, riscaldando il prodotto in un semplice forno a microonde.
Il packaging prescelto comporta considerevoli vantaggi: da una parte, un basso costo di trasporto in termini di peso rispetto al vetro, dall’altra, consente di evitare eventuali cessioni di metallo o di vernici rispetto alle comuni lattine.
Conclusa la fase sperimentale, è stato avviato un test di gradimento commerciale, presentando diversi prodotti, tutti a base di leguminose, in una fiera internazionale, tenutasi a maggio 2016 a Parma.
Abbiamo ottenuto un interessante riscontro da parte di diversi operatori esteri e nazionali e contiamo nel 2017 di mettere in produzione una linea di otto referenze.
Concludo tornando al tema frontiere nell’ agroalimentare evidenziando come la superiore innovazione di per sé riesca a soddisfare le diverse esigenze dei consumatori moderni centrando gli obiettivi della alimentazione rapida, salutistica, a portata di tutti e rispettosa delle nostre tradizioni.

torna su