Energie


EDITORIALE
Giacomo Fanale
 
Sono fieramente soddisfatto del nuovo inserto dello storico periodico del Rotary Club Palermo Est, e in particolare estremamente grato a Davide Camarrone di aver insistito sul tema da lui proposto nel trattare la lettera “E” di “Energie” e non di “Etica”, come era a me parso più adatto. Ma condividendo lo spunto suggerito da Davide, il tema “Energie” oggi appare più attuale e opportuno, più ampio e dinamico, certamente meno inflazionato di un’“Etica” che, di questi tempi, appare come termine alquanto inflazionato e distorto da un diffuso sentire privo di riscontri
La qualità delle riflessioni che in questo numero sono raccolte, indiscutibilmente di alto profilo, investe un’ampia gamma di tematiche che ruotano attorno al concetto di “Energie” riflessioni ad ampio spettro, dalle implicazioni sociali allo specifico scientifico, alla robotica, ai ruoli e ai risvolti etici ed economici che le nuove energie promuovono, con attenzione al territorio, alla natura, allo sviluppo delle “energie” alternative, al coinvolgimento, delle economie regionali ed in particolare di quella siciliana, e un’attenzione assolutamente dovuta alle attese per un “futuro” tutto da inventare, che sappia far tesoro delle “Energie” e trarne vantaggi economici
La voglia di valorizzare al massimo le professionalità dei soci, tutte di alto profilo, ha reso il periodico aperto al contributo di ognuno: contributo che si è rilevato variegato e completo; un risultato che è espressione delle diverse competenze professionali presenti, e principalmente espressione dello spirito, del pensiero e dell’anima del club
Perseveriamo in questa “enciclopedia/dizionario delle problematiche del nostro tempo”, come sottolineava Cristina Morrocchi nell’editoriale che accompagnava l’uscita del numero “B” di “Burocrazie” del suo anno di presidenza del club, nel ricordo e nello spirito di chi fu l’iniziatore della collana, Aldo Spinnato, che nel cogliere il suggerimento di Davide Camarrone che è l’artefice del progetto editoriale, ben seppe intuire il futuro del periodico che caratterizza il nostro club. Ancora oggi, e sono ben certo ancora per gli anni a venire, tale periodico sarà l’espressione più significativa della leadership professionale e umana di cui è intriso il nostro sodalizio
Voglio esprimere la mia gratitudine a tutti coloro che hanno contribuito a vario titolo alla riuscita dell’iniziativa, ancora una volta promuovendo riflessioni argute e attente del nostro tempo Un vivo e sentito ringraziamento va a tutto lo staff redazionale, al direttore responsabile Nino Pizzuto, a Davide Camarrone, a Nino La Spina, a Cristina Morrocchi e a tutti i soci che si sono spesi per la redazione e la pubblicazione di questo quinto numero dedicato alle “Energie”

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PREFAZIONE
 
Questo quinto numero ha per un poco esitato tra due temi possibili, corrispondenti alla quinta lettera dell’alfabeto. Etica (o etiche, per proseguire nella declinazione plurale, democratica, dei nostri lead) era da considerarsi naturalmente favorito, per la lunga frequentazione che la “cultura politica” di questo nostro Paese ha avuto con essa.
L’etica è stata formalmente applicata ad ogni campo dell’agire dopo anni, o sarebbe meglio parlare di decenni, nei quali si è fatto strame di ogni principio di buon governo, invocando a torto Macchiavelli (che mai disse il fine giustifica i mezzi) – e meglio sarebbe stato riferirsi allo studioso fiorentino per il conflitto che accompagna il potere -, e a Guicciardini, per la “carestia grandissima di ministri bene qualificati” dei quali si dotano “è principi, ancora che grandi”. Il dibattito italiano sull’etica ha oscillato tra una sorta di compiacimento per l’unicità del caso italiano (relativamente all’abilità manovriera, “machiavellica”, del Politico italiano), e il disegno di un’utopia per definizione irraggiungibile nella quale l’agire politico potesse esser dettato dall’alto.
Energie ha un senso affatto differente. Energie è incontro di sensibilità differenti, conflitto che non dissipa, produzione partecipata, trasformazione della materia in idea: preminenza dello spirito, insomma, innovazione.
Energie è un tema post moderno che non esclude l’Etica ma la include in una prospettiva rispettosa delle potenzialità di ognuno, ciò che è in definitiva il tema delle moderne democrazie. Energie dice del superamento delle produzioni energetiche fossili e pesanti verso quelle rinnovabili e leggere, delle opportunità offerte anche a territori marginali (per sviluppo e forme di coesistenza) per superare gli ostacoli storici e partecipare di un processo rapidissimo di evoluzione economica e sociale.
Energie, dunque, per riflettere sul futuro che ci attende (anche in Sicilia).
Così proseguiremo con “Fusioni”.

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ENERGIE SOCIALI.
ALFABETO POSTMODERNO

Davide Camarrone
 
Amministrazione. Fino a qualche anno fa, lo Stato decentrava alle proprie organizzazioni periferiche la gestione dei servizi al cittadino e teneva al centro l’organizzazione delle principali funzioni: l’economia, la giustizia, la difesa, le relazioni con i paesi esteri. Il nostro Paese, in particolare, disponeva e dispone tuttora di un sistema di assistenza sociale incompiuto rispetto ai Welfare states maturi. Ora, le tecnologie informatiche consentono forme inedite di democrazia diretta, calibrando ogni decisione in relazione a territori e fasce sociali differenti, e persino in relazione alle singole necessità individuali o famigliari. È possibile ipotizzare una sorta di Welfare on demand, ciò che avrebbe come effetto un profondo mutamento dei rapporti tra Stato e cittadino, con effetti diretti sulla rappresentanza politica, e un superamento della distinzione netta tra politica e amministrazione. La possibilità di misurazione dei costi e dei benefici variabili da parte dei cittadini potrebbe render necessario l’affidamento di incarichi amministrativi ad eletti revocabili.
Beni. La crescita della popolazione mondiale (sulla Terra, saremo 11 miliardi nel 2100: magari, dovremmo colonizzare altri pianeti), l’incremento tendenziale dei consumi (nonostante la crisi), e l’andamento del global Warming lasciano immaginare una riduzione della disponibilità di beni durevoli o della necessità di disporne stabilmente. Probabile, un incremento delle condivisioni. Già in atto, una politica di riduzione del fabbisogno energetico e di incremento del riciclaggio e del riuso.
Condivisione. Tra Otto e Novecento, il dibattito politico ha oscillato tra proprietà pubblica e privata dei mezzi di produzione. La lunga crisi economica cominciata con il nuovo Millennio, gli effetti dell’incremento produttivo sull’inquinamento e la riduzione delle risorse non rinnovabili, hanno dato vita a nuove teorie economiche e filosofiche e nuove modalità di comportamento sociale. La condivisione dei beni materiali è un fenomeno oramai diffuso, pure se cohousing e coworking vengono descritti come marginali (lasciamo stranieri i termini riferiti a concetti e modalità che vorremmo estranei alle nostre prassi).
Differenziazione. Nel regno della statistica, della comunicazione universale e della fine della privacy, la conoscibilità dei desideri e la possibilità di dislocazione delle produzioni a distanze infinite mediante la progettazione periferica, l’invio di dati e la produzione singola, agevolano una differenziazione infinita del design e delle caratteristiche dei prodotti materiali e immateriali, una loro diversa durabilità e non finitezza spazio-temporale (anche qui, possiamo parlare di condivisione: dei prodotti immateriali e di quella frazione traducibile in oggetti).
Energia. Oggi può esser pulita e prodotta in periferia con strumenti a basso impatto ambientale. Presto, potrebbe esser accumulabile, stoccabile e dunque controllabile e cedibile sul mercato: la produzione energetica potrebbe tradursi in opportunità di lavoro indipendente per i singoli. La ricerca potrebbe moltiplicare ulteriormente le fonti di energia pulita e gli strumenti di controllo e stoccaggio dell’energia medesima. Gli enti locali e le piccole comunità potrebbero provvedere ai propri fabbisogni e al ricavo di utili sufficienti al proprio sostentamento utilizzando impianti e dotazioni esistenti modificandone l’uso ordinario.
Futuro. È il tempo nel quale sconteremo la nostra inefficienza oppure godremo i frutti della nostra preveggenza. Il futuro è ravvicinato e programmabile ma non può in alcun modo esser allontanato o eluso. La competizione economica (e dunque pure la competizione tra sistemi sociali e istituzionali) deve tener conto della frequenza dei mutamenti tecnologici e informatici. La riduzione dei costi di trasformazione e distribuzione delle merci è ritenuta meno significativa della riduzione dei salari. Occorre un più rapido mutamento della cultura dei consumi.
Gioco. Il futuro della previsione fondamentale keynesiana, l’equilibrio generale, non si fonda più sul solo impiego universale ma anche sull’assistenza sociale e sulle attività dirette a produzioni dilatate nel tempo, anche di generazioni. Si registra dunque un incremento dell’importanza dello studio e delle attività di simulazione. Ciò che è privo di conseguenze immediate e registrabili, può esser considerato un gioco economico o un fondamentale impegno sociale.
H. L’idrogeno costituisce una delle fonti energetiche più importanti del futuro. L’idrogeno può fornire energia o mediante una semplice elettrolisi (in quantità limitata) o grazie alla c.d. fusione nucleare “fredda” (meno pericolosa, quest’ultima, della fusione “calda”).
L’uso dell’idrogeno, la sua disponibilità e portabilità, consentirebbero un minore impatto ambientale – e dunque un abbandono delle fonti tradizionali e quasi nessun inquinamento – e, grazie alla fusione fredda, la progettazione e l’uso di astronavi in grado di percorrere enormi distanze a velocità oggi inimmaginabili.
Idee. Il prodotto contemporaneo più ambito è rappresentato dalle idee. Un sistema di idee, legato alla produzione o al funzionamento del government, può già esser considerato un software, e nell’idea del software è insita la modalità della condivisione. Ciò che in un tempo non lontano definivamo brainstorming, a sottolinearne l’eccezionalità, oggi è la modalità ordinaria di gestione di un’attività competitiva e innovativa.
Luce. La trasmissione dei dati può avvenire alla velocità della luce, e la velocità della luce – grazie al laser, alla fibra ottica, a modalità di compressione e a chip sempre più veloci -, consentirà una capacità di interscambio di dati che renderà del tutto insignificanti le distanze e le concentrazioni produttive.
Memoria. La memoria condivisa, lo stoccaggio delle informazioni, l’uso competitivo della privacy (l’esistenza di regole violabili solo da alcuni oligopolisti), la conoscibilità dei desideri diffusi e la prevedibilità dei comportamenti dei singoli, ha trasformato il marketing in una scienza quasi esatta, dotata di capacità di verifica e aggiustamento delle proprie conclusioni in tempi pressoché reali.
Naturalità. Il ritorno alla terra, a produzioni biologiche, ha un significato a dir poco ambivalente. Essa esprime, in teoria, un rifiuto del modello “Monsanto” (dal nome della multinazionale operante nel campo delle sementi transgeniche) denunciato sin dagli anni Ottanta da numerosi ambientalisti europei ed americani. Da ricordare, al riguardo, le denunce e le campagne di José Bové, agricoltore francese poi deputato europeo (e la sua stessa parabola politica può esser definita ambivalente). Il Bio, però – ed ecco altre ambivalenze -, è divenuto un business, le catene di distribuzione impongono retroattivamente alcune produzioni, la legislazione in materia è carente, i controlli scadenti. L’incrocio tra naturalità e grande distribuzione è sostanzialmente fallito: la naturalità richiede frequentemente la prossimità.
On demand. Il welfare on demand, legato al concetto di differenziazione sociale e alla crisi oramai stabile dei nostri sistemi economici, potrebbe dar luogo ad una programmazione ravvicinata, all’offerta di servizi mirati e proporzionati alle necessità reali (alla domanda di servizi), oltre che a nuove opportunità di lavoro (con uno scambio rapido tra pubblico e privato) e a nuove modalità di contribuzione o di scambio con le istituzioni: attività vs servizi, ad esempio.
Prossimità. Un concetto nato in relazione alla maggiore affidabilità dei prodotti in specie naturali può oggi estendersi a beni e servizi immateriali, comportando fra l’altro una riduzione dei costi di produzione e della necessità del trasporto fisico di persone e cose, e un significativo miglioramento delle relazioni con gli apparati burocratico-amministrativi. Le città vengono ridisegnate e il modello delle municipalità interne consente l’adozione di modelli di democrazia diretta e di amministrazione responsabile.
Qualità. Non si tratta più di una categoria secondaria di valutazione dei soli beni materiali. Anche i beni immateriali o condivisi e i servizi possono esser valutati secondo criteri di innovazione e naturalità, oltre che di economia. Il controllo di qualità può esser garantito da standard fissati democraticamente ed in tempi reali. Il concetto di qualità procede parallelamente a quello di standard. Lo standard fissa il “grado” di qualità in relazione a parametri scelti autoritativamente, e non ancora democraticamente, e dunque, in relazione a criteri socialmente condivisi.
Recupero. Il termine riporta all’integralità dell’esistenza e non solo alla durabilità dei prodotti materiali e immateriali. Non più il valore dei beni materiali e immateriali legati all’arco vitale del singolo bensì alla trasmissibilità degli stessi. Il recupero dell’esistente, la sua condivisione orizzontale e verticale (nel tempo e tra gli individui e le generazioni), è un valore primario.
Straniero. Termine oramai privo di significato. Ieri, era limitato ad una sorta di funzionalità equivoca: è utile solo ciò che non incrina il meccanismo. La velocità delle comunicazioni e delle mutazioni fisiche e immateriali, la capacità di attingere al software collettivo che anima ogni comunità vitale, probabilmente destituiranno di senso ogni barriera di appartenenza e distinzione fondata sulla lingua e la cultura. Dinanzi a questo processo che forse è irreversibile, si costituiscono forme violente di resistenza.
Tasse. È possibile una diversa concezione dell’apporto dei singoli alla comunità statuale. È possibile dedicare alla collettività delle attività in luogo del pagamento di tasse. È possibile immaginare uno scambio tra il sostegno e l’assistenza ricevuti con la produzione intellettuale o le prestazioni dei singoli. Cambiano la nozione di assistenza e il senso più profondo del termine volontariato. L’attività produttiva può esser resa anche nei confronti della comunità anziché del solo mercato.
Università. È opportuno parlare di Poliversità: luoghi di analisi e di studio delle diversità plurali, fusi nel territorio e coincidenti anche solo parzialmente con i luoghi di lavoro, di riflessione e di condivisione. Poliversità è anche immaginare forme di studio immediatamente produttive e auto sostenibili.
Velocità. Significa molte cose: nuovi algoritmi, maggior capacità di compressione, nuovi vettori, trasmissioni veloci ma anche riduzione delle distanze fisiche, prossimità delle merci e dei servizi ma anche capacità di raggiungere più grandi distanze in tempi comprensibili in una generazione. La velocità è la frazione risultante dalla sovrapposizione del fattore Tempo sulla Tecnologia.
Zero. Impatto zero è l’opposto della quantità crescente di beni entropizzati. Parliamo anche di consumo zero e inquinamento zero.
Dobbiamo tendere alla zero gravity, alla leggerezza industriale.

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LE TRASFORMAZIONI DELL’ECONOMIA:
LE NUOVE ENERGIE, I RISCHI, LA DEBOLEZZA DELLE REGOLAZIONI

Antonio La Spina
 
Premessa
“Economia” è una parola di origine greca: oikos (casa) e nomos (regola, legge). Originariamente si riferiva, quindi, alle norme da seguire per la buona gestione di una casa (intesa non solo come edificio, ma come casato, quindi comprendente la famiglia e l’insieme delle proprietà, ivi inclusi gli schiavi). Poi per estensione il termine ha assunto il significato che ha adesso, riferendosi talora a interi paesi (come l’Italia), a macro-aree (come l’Unione Europea), o all’intero pianeta (l’economia globale). Nell’accezione moderna si distingue poi un’economia in senso sostanziale – che è l’insieme delle decisioni relative alla produzione, distribuzione, scambio di risorse scarse, prime tra le quali quelle relative ai mezzi di sussistenza – e un’economia in senso formale, che è invece l’insieme delle transazioni che hanno luogo, tramite l’intermediazione della moneta, entro i mercati, nei quali operano non solo singoli individui ma anche imprese, talora di grandi dimensioni, talora multinazionali.
Occorre poi distinguere l’economia legale da quella illegale.
L’homo oeconomicus sarebbe un “egoista razionale”. In effetti è vero che spesso gli attori sociali sono animati da interessi particolari e di basso profilo, e sono anche miopi, disinformati, effettivamente egoisti. Talora inseguono visioni fuorviate e deliranti, ma talaltra, magari più raramente, cercano di operare per il bene comune.
Azioni soggettivamente “razionali” in certi casi producono esiti collettivamente irrazionali.
La politica economica è l’intervento delle autorità pubbliche (tipicamente lo Stato, oggi sempre di più soggetti sopranazionali come l’UE o il Fondo monetario internazionale, o l’Organizzazione mondiale del commercio) volto a produrre risultati economici, come il controllo dell’inflazione, la promozione dello sviluppo o della piena occupazione, il rilancio dei consumi in chiave anticiclica, la regolamentazione degli effetti dell’attività economica, tra cui quelli sull’ambiente, sulla salute dei lavoratori o dei consumatori, sui risparmiatori, e così via.
Dalle origini del genere umano, una qualche forma di economia, in senso sostanziale, è sempre esistita (anche nell’età della pietra) ed esisterà sempre (finché l’umanità sopravviverà). Certe economie sono più efficienti di altre. Ad esempio, l’uso dell’aratro trainato dai buoi in zone con abbondanza idrica come l’Egitto o la Mesopotamia consentì un incremento del surplus (ciò che resta della ricchezza prodotta una volta detratto quanto necessario per la sussistenza) di proporzioni mai conosciute prima e pose le basi di società profondamente diverse da quelle nomadi, egualitarie, basate sulla caccia e la raccolta, che fino a quel momento erano la forma di aggregazione sociale di gran lunga più diffusa.
Società diverse si caratterizzano anche (sebbene non soltanto) in base ai modi differenti attraverso cui strutturano le rispettive economie. Il capitalismo di mercato fondato prevalentemente sull’iniziativa privata si è affermato ormai quasi in tutto il mondo, visto che la sua principale alternativa (il collettivismo nella versione sovietica, in quella maoista o in altre) è pressoché scomparsa (con pochissime eccezioni). Ciò detto, c’è capitalismo e capitalismo. Quello dell’Ottocento non è quello delle grandi corporations affermatesi agli inizi del Novecento, così come quello odierno della new economy, dell’innovazione tecnologica spinta e della finanziarizzazione è ancora differente dai precedenti.
Anche la politica economica può assumere e ha di fatto assunto forme diversissime. Mettendo da parte il collettivismo, e limitandoci ai paesi che hanno accolto il capitalismo, si sono avuti periodi di massiccio intervento pubblico e altri di “ritirata dello Stato”. Senza il New Deal l’economia statunitense e forse anche quella mondiale difficilmente si sarebbero riprese dalla Grande Depressione. Senza una certa dose di intervento pubblico (gestito da classi dirigenti dotate di una visione di lungo periodo) il miracolo economico italiano o quello giapponese del secondo dopoguerra difficilmente sarebbero decollati e si sarebbero consolidati. D’altro canto, nell’espansione del settore pubblico si sono avuti anche eccessi e distorsioni, che hanno preparato la crisi fiscale dello Stato, la stagflazione e le crisi di governabilità manifestatesi a partire dalla fine degli anni settanta dello scorso secolo, spianando la strada all’ondata neo-liberista che sarebbe venuta dopo. Ed è anche indubbio che a certe condizioni e in certi settori la concorrenza è più vantaggiosa per la collettività rispetto alla gestione da parte di soggetti pubblici.
L’economia o, meglio, le economie si trasformano in continuazione, lasciandoci intravedere la possibilità di produrre ricchezze sconfinate, ma anche il rischio di catastrofi immani. Ovviamente senza pretese di completezza e di approfondimento, nei paragrafi che seguono passo in rassegna alcune delle energie (più o meno nuove) che si muovono o potrebbero muoversi nelle economie contemporanee. Segue una seconda rassegna, anch’essa a volo d’uccello, su alcuni dei rischi che hanno origine nelle attività economiche e incombono su di noi. Infine, qualche riflessione sulla regolazione pubblica, la cui funzione, che purtroppo spesso non viene assolta a dovere, dovrebbe essere quella di contenere i rischi e al contempo di indirizzare le energie economiche al servizio delle collettività, dei cittadini, dei diritti umani.

Energie: nuove e meno nuove
“Energia” fa ovviamente pensare, specie se abbinata ad “economia”, a ciò che alimenta il processo produttivo, quindi il cibo e le restanti condizioni che consentono l’impiego dei muscoli umani o animali, e poi il carbone, i derivati dal petrolio, l’elettricità, il magnetismo, il nucleare, che tengono in moto le macchine. Fa pensare anche alle “nuove” energie pulite (che in alcuni casi di nuovo hanno ben poco in sé e per sé, mentre nuovo dovrebbe esserne l’utilizzo): sole, vento, oli vegetali, biomasse, idrogeno e, ove mai la si potesse realizzare, energia nucleare derivante dalla fusione fredda. Estensivamente possiamo considerare energie (nel senso di fattori che spingono a mutamenti incisivi della produzione) anche i nuovi materiali sintetici, ovvero le nuove forme di utilizzo di materie prime già note (come la grafite). Per non dire delle possibilità offerte in tutti campi (anche l’arte, il design, l’alta moda) dall’utilizzo di materiali riciclati.
ln senso ancora più lato, è energia ciò che sospinge l’attività economica: quindi il capitale, l’innovazione, la domanda.
Il capitale finanziario è stato a lungo considerato la risorsa essenziale, tant’è che un certo sistema economico prende il nome da esso.
La carenza di capitale veniva anche considerata il fattore principale della debolezza economica, che si poteva quindi superare attraverso robuste iniezioni di capitale, anche tramite la leva dei finanziamenti pubblici. ln alcuni casi ciò ha funzionato. Oltre al già ricordato New Deal, si può citare il Piano Marshall, forse il caso di stimolo alla ricostruzione di economie devastate dalla guerra e talora all’industrializzazione ex novo che ha avuto il maggiore successo nella storia. Anche in epoca recente, alla crisi ivi originata a seguito dell’inadeguata regolazione dei mercati finanziari gli Usa hanno fatto fronte con massicci interventi pubblici. E in tutti e tre questi esempi parliamo di un paese in genere considerato assai poco interventista in economia, specie se paragonato ad altri come Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Giappone, Stati scandinavi, specie dal dopoguerra fino agli anni settanta.
Per altro verso, se certi investitori guardano al brevissimo termine e quindi disinvestono e reinvestono in continuazione, inseguendo guadagni di tipo speculativo, non legati alla produzione reale, il capitale (finanziario) da “energia” necessaria e positiva si trasforma in una forza distruttiva, come è purtroppo ormai evidente. C’è bisogno di un certo tempo affinché il capitale “sano” che viene investito in attività reali possa dare i suoi frutti, tanto remunerando chi ha rischiato, quanto creando e mantenendo posti di lavoro, indotto, produzione, introiti fiscali, competitività di un’azienda e del territorio su cui questa insiste. Pensare al guadagno soltanto nel brevissimo termine è un’attitudine nociva.
L’innovazione, in secondo luogo (in tutti gli aspetti dell’attività economica, non soltanto in campo tecnologico), è oggi considerata una risorsa (una “energia”) ancor più importante del capitale!.
Innovazione significa buone idee, che possono andare dal brevetto, alla campagna pubblicitaria, al design e alle nuove funzionalità di un prodotto, all’algoritmo di Google, all’intuizione di Facebook. Le buone idee sono prodotte dai cervelli, quindi dal capitale umano. ln genere, una manodopera qualificata (se un’economia è competitiva, non se essa è adagiata su attività tradizionali e sull’assistenzialismo) è una risorsa fondamentale, il che significa che il rendimento del sistema scolastico e formativo in genere fa molta differenza. Ma l’innovazione strategica viene da risorse umane particolari, la “classe creativa”, i “lavoratori della conoscenza” (scienziati, informatici inventivi, designer, scrittori, artisti, e così via), i quali in genere hanno una formazione universitaria, sebbene non sempre: ad esempio Bill Gates o Mark Zuckerberg hanno iniziato a riceverla, non a caso ad Harvard, anche se poi non l’hanno completata; il grande pubblicitario Jacques Séguéla è si laureato, ma in farmacia; Steve Jobs l’università la lasciò assai presto, non potendosela permettere.
Le idee che vengono in mente a creativi d’eccezione sono la componente decisiva dell’economia contemporanea. Ciascuno di questi cervelli un po’ speciali ha un valore enorme.
L’ambiente e le condizioni di lavoro (in azienda, in ufficio, in laboratorio, in uno studio, in un incubatore) sono quindi essenziali, ma può esserlo anche il contesto in cui si vive, quindi la città. Alcune città, sottolinea Richard Florida, in certi momenti storici sono diventate attrattori e fucine di talenti: tra queste l’Atene classica, la Firenze rinascimentale, la Vienna dei primi del Novecento, New York, Londra, San Francisco con la Silicon Valley. Aggiungo la Palermo fredericiana (e quella dei Florio, sia pure in misura assai minore). Se si ha una sinergia tra qualità delle classi dirigenti, istituzioni culturali e universitarie, mondo della produzione, società civile, la città può diventare il luogo in cui le “nuove energie” si esplicano al massimo grado. Sempre Florida parla di tre T – talento, tecnologia e tolleranza – che danno i frutti migliori tra loro quando in certi luoghi viene condiviso un ethos che valorizza creatività, individualità, meritocrazia, diversità e apertura!.
Un’altra novità essenziale, per alcune categorie di lavoratori, è la possibilità di svolgere in modo nuovo (assai più flessibile, talora da casa propria, o portandosi appresso il proprio “ufficio”, costituito da un laptop e un cellulare) talune attività. Il luogo di lavoro, la giornata lavorativa, quindi anche le condizioni contrattuali possono subire forti trasformazioni, se si riesce a contemperarle con le esigenze di tutela sanitaria, infortunistica, previdenziale, oltre che con retribuzioni almeno decorose. Non solo certe prestazioni dei lavoratori, ma anche certe sedi della produzione materiale degli oggetti (i “vecchi” capannoni industriali) oggi in certi casi possono essere decentrate, tramite le I(stampanti tridimensionali”. È poi indubbio che il progresso tecnologico va eliminando, meccanizzandole, certe prestazioni lavorative (quindi certi posti di lavoro).
Ancora, i trasporti low cost riconfigurano l’idea stessa di migrazione.
Se, specie nelle aerolinee, vi è concorrenza, anziché il predominio di compagnie inefficienti e ingessate, ci si può spostare settimanalmente da una città all’altra, talora da un paese all’altro. L’affermarsi del trasporto low cost, dunque, non rileva soltanto ai fini turistici.
Esso mette in circolo energie anche nel mondo del lavoro.
Ovviamente affinché esso possa dispiegare appieno i suoi effetti benefici, occorre che nelle città, in arrivo e in partenza, esistano poi adeguati sistemi di mobilità e ospitalità.
La libera circolazione dei lavoratori è poi un altro elemento chiave.
Le “città creative” sono tali anche perché capaci di far venire a sé talenti da altre città e paesi. Intere nazioni (come, nell’Ue, tra le altre l’Olanda, il Regno Unito, la Germania, finora la Svizzera) si caratterizzano non solo per capacità di attrarre lavoratori, ma in particolare per quella di attrarre cervelli. L’Italia per parte sua attrae immigrati che in buona parte passano da noi per poi andare altrove. Quelli che si fermano in genere svolgono lavori poco qualificati (anche quando sono laureati). Al contempo il Bel Paese “esporta”, a suo danno, grandi quantità di giovani super-qualificati alla ricerca di ciò che non trovano a casa propria. Per altro verso, sempre più immigrati in Italia avviano proprie attività autonome.
Se le buone idee sono la cosa più importante (torno per un momento al capitale), il credito alle imprese, specie se innovative e giovanili, dovrebbe essere allora una leva da utilizzare sistematicamente.
Invece, proprio in Italia, e proprio nel Mezzogiorno, dove vi sarebbe sia l’esigenza di “trattenere” in loco i talenti migliori, sia quella di promuovere lo sviluppo (il che significa promuovere l’imprenditorialità, non certo insistere con la spesa clientelare), succede spesso il contrario. Pur essendovi non irrilevanti risorse comunitarie, l’innovazione è in genere una Cenerentola. Inoltre, il sistema creditizio non è sufficientemente disponibile verso esigenze del genere. Il credit crunch dovuto alla crisi, le regole targate Basilea, l’inerente maggiore rischiosità del fare impresa al Sud comportano tassi di interesse più elevati e credito più difficile da ottenere, specie per chi è “nuovo”, mentre con riguardo alle start up dovrebbe accadere il contrario. Peraltro, proprio a seguito della crisi, le banche hanno goduto di alcuni significativi flussi di risorse, che andrebbero impiegati nel rilancio della crescita.
Vengo in terzo luogo alla domanda. Dall’inizio della crisi, nel 2008, ci siamo abituati a leggere bollettini che evidenziano un costante calo dei consumi, il che a sua volta ha aggravato la crisi, con conseguente chiusura di negozi e stabilimenti industriali, conseguenti emergenze occupazionali, ulteriore crollo della domanda.
Per un verso, congiunturalmente, se si vuole uscire dalla crisi occorre sostenere la domanda, restituendo potere d’acquisto alle famiglie, nell’immediato tramite misure di carattere socio-assistenziale (come il reddito minimo, che in Italia manca), nel medio periodo promuovendo la crescita e la riespansione dell’occupazione. Ma occorre anche una capacità di analisi che vada al di là delle dinamiche congiunturali, riguardante sia il mondo della produzione, sia gli stili di vita, sia le dinamiche globali.
Del mondo della produzione si è detto qualcosa. Ritornando sul punto va rimarcato come la possibilità di segmentare e decentrare i processi produttivi induce molte aziende a dislocare attività in paesi ove i costi sono bassi, creando occasioni lavorative lì e facendone venir meno “in patria”. L’attrattività di un territorio, tuttavia, non dipende solo da un basso costo del lavoro. l salari potrebbero anche essere non bassissimi, ma se il contesto è “amichevole” per le imprese (con vantaggi fiscali e contributivi, incentivi, servizi pubblici e burocrazie efficienti, relazioni sindacali sinergiche, sistema giudiziario ben funzionante, criminalità organizzata e corruzione a bassi livelli) queste potranno comunque prescegliere un dato territorio, come dimostrano i casi di Irlanda, Galles e Scozia (che fino agli anni settanta erano altrettanti “Mezzogiorni”).
Gli stili di vita cambiano anch’essi. Se a un modello basato su consumismo, industrializzazione pesante fordista, forte impatto ambientale, spesa pubblica dilagante si sostituisse un consumo critico, “verde”, con produzioni ecosostenibili e un settore pubblico un pò ridimensionato, avremmo forse un pò meno domanda, ma soprattutto una domanda di tipo differente (peraltro in genere di prodotti un po’ più costosi): ad esempio di alimenti biologici e a chilometro zero, di energie pulite, di case ecologiche, di tecnologie smart, di servizi alla persona (dalla fitness/wellness alla cura degli anziani). Si avrebbe (secondo qualcuno, come Inglehartt, si è già avuto) un passaggio dai valori materialisti tipici degli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo a valori post-materialisti e ai corrispondenti stili di vita, che interesserebbero fasce sempre più larghe della popolazione. Ciò è in effetti già una realtà di proporzioni non esigue soprattutto in alcuni paesi nordeuropei, ma anche per certe aree e strati sociali negli Stati Uniti o in Canada, Nuova Zelanda, Giappone, Australia. Non lo è altrove.
Un’altra considerazione da fare in relazione alla domanda ha a che vedere con la situazione della popolazione mondiale. Questa è vista in genere, e non senza ragione, come una minaccia, poiché si teme che masse sempre più vaste di diseredati premano sui confini o sulle coste dei paesi più sviluppati per trovare una sussistenza che a casa propria è loro negata. Ma va anche considerato che in alcuni paesi si sono fatti consistenti passi avanti. ln meno di quindici anni circa un miliardo di esseri umani è uscito dalla condizione di povertà estrema, soprattutto in Cina. Anche in India, Brasile, Sudafrica e altrove un processo del genere è in atto. Mentre in altre parti del mondo la povertà estrema permane. Popolazioni un tempo indigenti che arrivano ad un minimo di benessere sono, tra l’altro, mercati significativi, capaci di esprimere una domanda di beni e servizi di importazione (per loro), che è di esportazione per chi sa produrli in modo competitivo. Per un’economia tradizionalmente basata sull’export e sulla propria riconoscibilità (il made in Italy), in campi che vanno dall’alimentazione all’abbigliamento, dal mobilio al design, queste dovrebbero essere occasioni d’oro. È così?

I rischi in atto
l rischi – intesi come danni potenziali – così come i danni già verificatisi a causa delle modalità di funzionamento delle economie contemporanee sono ben noti. Ne richiamo alcuni, senza, lo ripeto, aspirare alla completezza.
Il primo rischio/danno riguarda l’ambiente. Siti paesistici rovinati, intere specie animali o vegetali estinte o a rischio di estinzione, alterazioni irreversibili di eco-sistemi, mutamento climatico (con conseguenze sui ghiacciai, il livello del mare, gli eventi metereologici, le migrazioni animali, i raccolti, e così via), sfruttamento eccessivo di falde idriche, foreste, riserve naturali di materie prime, conseguenze talora assai gravi sull’integrità fisica e sulla salute delle persone. l paesi da tempo industrializzati sono stati i principali responsabili di ciò, ma alcuni di essi nel tempo hanno mitigato le esternalità ricadenti sull’ambiente. Nei paesi di recente industrializzazione, come la Cina, o caratterizzati da impianti industriali obsoleti, come le Russia, l’impatto ambientale è stato devastante, andandosi ad aggiungere in tempi accelerati a quello che già proveniva dai paesi a capitalismo “maturo”. Il problema ambientale ha dimensioni globali, come attestano l’effetto serra o la creazione di “nuvole” di emissioni (come la Asian brown cloud) che si spostano da un continente all’altro.
Un altro rischio, che viene percepito assai più intensamente del primo, almeno nelle fasi di crisi, è quello derivante dalla finanziarizzazione dell’economia. Anzitutto negli Usa sono stati messi in circolazione, senza che ciò venisse frenato dalle autorità pubbliche, titoli “tossici” che hanno consentito un incremento esponenziale del giro degli affari, pur fondandosi su crediti difficilmente esigibili.
Ciò ha avuto poi conseguenze pesantemente negative su certi settori dell’economia reale, come quello della casa. Si specula sulle quotazioni di borsa di beni primari, come certi alimenti. Una dozzina di anni fa un’altra bolla speculativa si accompagno all’arrivo in borsa delle società operanti nella c.d. New economy (nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione). Sono stati collocati presso risparmiatori inconsapevoli, anche dalle banche, titoli come le obbligazioni Parmalat o i Tango bonds. Non solo molta gente ha visto intaccati o bruciati i risparmi faticosamente messi da parte, ma intere banche e talora interi Stati (l’Argentina così come la Grecia) hanno perso o sono stati sul punto di perdere la propria affidabilità.
Mentre fino a non molti anni fa un credito nei confronti di uno Stato veniva considerato massimamente garantito, i titoli di Stato sono diventati rischiosi. E ciò non vale soltanto per le Repubbliche delle banane, ma anche per potenze industriali come appunto l’Argentina o l’Italia, o addirittura gli Usa (il cui debito pubblico è peraltro in gran parte detenuto da investitori cinesi). La possibilità del default di Stati che appartengono ai Grandi ovvero di sistemi sovra-nazionali come l’Ue non è più fantascienza, quanto piuttosto un’eventualità che va tenuta in considerazione. Infatti in momenti difficili cresce lo spread, vale a dire la differenza tra il tasso di interesse che uno Stato in cattive acque è costretto a impegnarsi a pagare per collocare i propri titoli rispetto al più basso tasso di interesse di un altro Stato ritenuto solvibile. Né il lasciare al proprio destino aziende di credito o Stati in difficoltà è necessariamente la strada migliore (come dimostrano le conseguenze catastrofiche del fallimento di Lehman Brothers). Un altro tema cui faccio solo un accenno riguarda il fatto che l’affidabilità dei paesi viene valutata, tramite un apposito punteggio (rating), da agenzie private multinazionali le quali a loro volta non sono sempre scevre da conflitti di interesse al riguardo. Per altro verso, i fondi comuni di investimento, che invece rischiano del proprio scommettendo su certi titoli e dunque su certe aziende e certi paesi, svolgono un ruolo cruciale, non solo di finanziatori, ma anche, di fatto, di valutatori.
l circa trent’anni seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale hanno visto crescere l’economia e al contempo il benessere e la sicurezza dei cittadini del “primo mondo”. Lo shock petrolifero del 1973 e la successiva stagflazione furono dei campanelli d’allarme, ma si è continuato a pensare che sia il Pil sia l’occupazione e il Welfare potessero continuare a crescere, così che i figli sarebbero stati meglio dei genitori, o quanto meno non peggio. Oggi, e non soltanto in Italia, questa aspettativa appare dolorosamente irrealistica. Le occasioni di lavoro, come si è già visto, si sono spesso spostate verso altri paesi, mentre gli Stati non possono più essere molto generosi nelle politiche sociali e in genere di spesa (a meno che circostanze eccezionali non dettino interventi anch’essi eccezionali e circoscritti nel tempo). Ecco dunque altri rischi, forse ancor più palpabili dei predetti: perdere il lavoro senza trovare un’alternativa, non trovare affatto un’occupazione, cadere in povertà o comunque perdere il tenore di vita precedente, essere sprovvisti di una rete di sicurezza (assistenziale, sanitaria, previdenziale), vivere ai margini, anche se si è cittadini di quella che si è abituati a ritenere una potenza industriale.
La sovrappopolazione mondiale è un problema. Essa è peraltro, fortunatamente, conseguenza del diffondersi, sia pure a livelli insufficienti, di un pò di ricchezza, di tecnologie e soprattutto di cure mediche. Il pianeta ovviamente non è dotato di risorse illimitate e di conseguenza non può reggere una pressione antropica che dagli anni sessanta a oggi è passata da tre miliardi e mezzo di persone a sette e si prevede raggiungerà i dieci verso il 2050. Da ciò derivano, com’è evidente, rischi di proporzioni immani: denutrizione e vita al di sotto della dignità umana per miliardi di persone, tensioni geopolitiche, rivolte, guerre locali, genocidi, ulteriore accelerazione della tendenza all’esaurimento delle risorse naturali, migrazioni di massa, anche a seguito della desertificazione. Può tutto ciò avere come esito il terrorismo? Non vi affatto è una correlazione necessaria. Si pensi al fatto che Osama Bin Laden apparteneva a una famiglia di petrolieri e che certe organizzazioni internazionali hanno bisogno di risorse economiche, armi, professionalità, coperture che i disperati alle prese con la fame non possono certo permettersi. Ma ciò non significa che ci sia da stare tranquilli. Più ancora del terrorismo possono prefigurarsi situazioni di instabilità politica, economica e migratoria costanti, potenzialmente esplosive.

Strategie e debolezze della regolazione
Quelli suddetti sono tutti rischi gravi, che farebbero tremare chiunque. Alcuni di essi si sono già concretizzati, anche più di una volta.
Eppure, ciascuno di essi in linea teorica potrebbe essere fronteggiato, tramite una “regolazione” appropriata, con riferimento sia agli strumenti sia ai livelli di governo. Dico subito che anche quelli che seguono sono solo cenni sparsi. Ciascuno degli argomenti toccati richiederebbe una trattazione estesa a parte.
Quanto all’ambiente, vanno prescelte forme di intervento che non mortifichino l’iniziativa imprenditoriale e le esigenze di crescita.
Detto questo, è oggi possibile ridurre quasi a zero la produzione di rifiuti e comunque differenziarli (tant’è che nei paesi in cui ciò avviene le discariche vengono superate e trasformate in impianti di riciclo), così come è possibile avvalersi in modo diffuso di energie pulite e rinnovabili (come il solare, l’eolico e le biomasse). È possibile anche riorganizzare i processi produttivi per tagliare drasticamente le emissioni. Tutto ciò ha ovviamente un costo, ma è anche un business. I paesi del Nord Europa hanno imboccato da tempo questa strada, eppure le loro economie sono assai più competitive di quelle dell’Europa meridionale. Occorrono quindi regolazioni nazionali adeguate (che negli Stati membri dell’Ue derivano in genere da norme comunitarie) ed effettivamente applicate. Non bisogna poi dimenticare le esigenze dei paesi di recente globalizzazione. Se a questi si chiedesse senz’altro di tagliare le emissioni, risponderebbero sia che ad altri è stato per lungo tempo consentito di inquinare, sia che l’industrializzazione è essenziale per la crescita, la lotta alla povertà, il benessere dei suoi cittadini. È dunque necessario compensare tali paesi, fornendogli finanziamenti nonché tecnologie e materie prime pulite. La modalità più adatta, a condizione che la si sappia gestire, è lo “scambio internazionale di diritti di inquinare” (emission trading), di cui parla anche il Protocollo di Kyoto (ma finora l’idea non ha avuto successo). Se singoli paesi però fanno i furbi, accettando limiti di emissione che poi non fanno rispettare, non sarà possibile contrastare il disastro ambientale globale. È pertanto necessaria un’Autorità mondiale per l’ambiente (un organismo indipendente cui i vari Stati-nazione dovrebbero trasferire proprie quote di sovranità) con poteri normativi, ispettivi, sostitutivi, di gestione dell’emission trading, di sanzione verso gli Stati inadempienti!.
Quanto alla regolazione dei mercati finanziari, occorre revocare in dubbio alcuni dogmi del fondamentalismo di mercato in materia.
Mentre se parliamo di merci, servizi, persone, idee la libera circolazione genera benefici enormi, se parliamo di capitali finanziari non sempre essa è collettivamente vantaggiosa. Infatti alcuni paesi, come la Cina, vi hanno opposto resistenza, mentre quelli che hanno bruscamente liberalizzato i loro mercati finanziari, in genere a seguito di un diktat del Fondo monetario internazionale, hanno avuto di che pentirsis. Più in generale, la speculazione contro le valute nazionali e l’acquisto di titoli con la prospettiva di guadagni di breve periodo e repentini disinvestimenti (consentiti da tale liberalizzazione) espongono financo le economie più solide a gravi oscillazioni e danni. Anche in questo campo sarebbe richiesta una regolazione globale, che per un verso elimini i “paradisi” regolativi e fiscali (come le isole Cayman) ove si può occultare il frutto delle speculazioni (e talora anche di attività criminali), e per altro verso vieti i prodotti finanziari tossici, preveda una tassazione delle transazioni, prevenga le bolle speculative. l regolatori nazionali infatti, non hanno di norma le risorse finanziarie e le prerogative necessarie per fronteggiare certe crisi – che è ormai di vitale importanza prevenire – e assicurare la stabilità sistemica. È stato infatti a più riprese necessario l’intervento di istituzioni sovranazionali. In effetti, mentre alcuni interventi di regolazione globale sono di là da venire e spesso controversi, in molti campi una regolazione sovranazionale già esiste (certamente nell’Ue), ad esempio con riferimento a standard in materia di banche e vendita di titoli, anche con un controllo sull’applicazione delle regole sovranazionali negli ordinamenti domestici. Nel 2011 sono state istituite tre autorità europee: la European Banking Authority (EBA, per il settore bancario), la European Securities and Markets Authority (ESMA, per il settore dei mercati di capitali), e la European Insurance and Occupational Pensions Authority (EIOPA, per il settore assicurativo e previdenziale). È stato poi creato I’European Systemic Risk Board (ESRB), per monitorare le minacce alla stabilità finanziaria. A fine 2012 è stato poi creato un sistema di garanzia dei depositi bancari, nonché un Meccanismo unico di supervisione. Si va verso un’unione bancaria per l’eurozona. Sono state varate regolazioni più restrittive in tema, tra l’altro, di derivati, hedge funds, vendite a breve, credit defaults swaps. Quanto al livello globale, FMI e Banca Mondiale dovrebbero predisporre, anche secondo Stiglitz che ne è stato un rigoroso critico, una rete assicurativa che copra potenzialmente tutti i paesi del mondo. Vanno quindi riformati e adeguatamente rifinanziati.
Oltre al campo ambientale e a quello delle attività finanziarie, la regolazione investe molti altri ambiti. In genere, e in estrema sintesi, essa mira a sopperire ai c.d. “fallimenti del mercato”, tra cui l’assenza o l’insufficienza della concorrenza, le asimmetrie informative (che si hanno quando ai consumatori potrebbero non essere fornite informazioni chiave per valutare i prodotti che acquistano), le esternalità negative (come l’inquinamento, o i danni alla salute dei lavoratori o dei consumatori), l’incapacità del mercato di produrre beni pubblici. Una modalità regolativa che a certe condizioni può essere efficace è quella di creare autorità indipendenti, cui viene delegata la regolazione di un dato settore, come quello della moneta, o dell’energia, o delle comunicazioni, o della concorrenza. E una soluzione che ha avuto notevole seguito negli Stati Uniti. Anche in Italia si hanno alcune autorità del genere. ln alcuni casi, come già detto, i poteri regolativi sono ormai in larga misura europei. Le autorità indipendenti raggiungono i risultati voluti a condizione di essere composte da soggetti realmente indipendenti e competenti e di essere dotati di poteri di intervento incisivi. Al contempo, devono essere attivati anche meccanismi di controllo (in sede giurisdizionale, attraverso relazioni al parlamento, attraverso la consultazione sistematica dei soggetti interessati, attraverso l’inserimento in reti sovranazionali).
Esistono casi in cui la regolazione si dimostra capace di mettere in riga i “poteri forti” e di migliorare la situazione a vantaggio degli interessi diffusi. Si pensi alle decisioni delle autorità antitrust Usa e Ue che hanno ridimensionato Microsoft. Ma vi sono anche casi in cui i regolatori sono poco competenti, condizionati, sprovvisti di poteri sufficienti: “tigri di carta”, che si fanno “catturare” dagli interessi regolati e/o dal ceto politico, dai quali dovrebbero invece essere indipendenti.

Concludendo: il governo dell’economia
In senso stretto, la regolazione è la statuizione e l’applicazione – ove richiesto coattiva – di regole. Oltre ai parlamenti e ai governi, un ruolo sempre più saliente dovrebbero averlo le autorità indipendenti. ln senso molto più lato si ha la regolazione di un sistema quando si interviene su alcuni parametri per ottenere una modificazione desiderata dello stato del sistema stesso. Rispetto al nostro tema piuttosto che di regolazione in questo secondo caso possiamo parlare di governo dell’economia, con corrispondenti politiche economiche, industriali, del lavoro, per lo sviluppo delle aree depresse.
Alcune delle criticità che il governo dell’economia dovrebbe affrontare hanno una specificità nazionale. Ad esempio, l’Italia è l’unico paese europeo che continua a mantenere una vasta area sovraregionale di sottosviluppo, pressoché coincidente con il Mezzogiorno. Regno Unito e Germania, che avevano un problema simile, lo hanno superato. Spagna, Irlanda, Portogallo, financo Grecia, che erano interamente o quasi aree in condizioni di ritardo, in larga misura non lo sono più.
Vi sono poi alcune problematiche (il carico fiscale, il mercato del lavoro, la scarsa competitività, le dimensioni di gran parte delle imprese, la scarsa tendenza all’innovazione) che vanno ascritte al sistema-paese.
Se anziché alla sola Italia guardiamo ai paesi a capitalismo maturo, troviamo che dappertutto si teme la perdita di investimenti produttivi e posti di lavoro a vantaggio di paesi più attrattivi, così come dappertutto è stata avvertita la necessità di porre mano alle politiche sociali (tra cui quelle previdenziali, sanitarie, scolastiche) per limitare la spirale dei costi. In un mondo globalizzato è sempre più difficile indurre le aziende a mantenere sedi e stabilimenti in Stati che esse ritengono inospitali. Una possibile soluzione consiste nel puntare al massimo sull’attrattività del territorio sia per le imprese che per le persone, incoraggiando chi è già sul posto a restare e altri ad arrivare (o a inventare nuove imprese se autoctoni), generando nuove posizioni lavorative che via via compensino quelle che si perdono. A ciò vanno aggiunti sistemi di garanzia del reddito per tutelare i lavoratori nei periodi in cui attendono di passare da un’occupazione all’altra. È il sistema scandinavo della flexicurity, indicato dall’Unione Europea10 come quello più adeguato alle sfide attuali.
Di recente sta avendo un certo seguito la teorizzazione della “decrescita felice” o “serena”, secondo cui, vista anche la sempre più preoccupante scarsità delle risorse naturali, sarebbe bene che il Pil vada giù e che alcuni consumi diminuiscano. A ciò si associa un’enfasi sulla comunità, le tradizioni e le colture locali. Se però anziché soltanto alla situazione particolare che vivono alcune categorie sociali (peraltro spesso garantite dalla legislazione lavoristica e dalla sicurezza sociale) rivolgiamo lo sguardo verso i miliardi di persone che hanno vissuto in condizioni di indigenza o che sono appena usciti da essa (ma potrebbero rientrarvi), ovvero ai milioni di disoccupati o di “scoraggiati” che troviamo oggi anche in alcuni dei paesi più sviluppati, potremo ancora sostenere che la decrescita sia una ricetta adatta? Direi di no. Infatti i paesi a economia avanzata fanno o vorrebbero fare l’opposto di quanto suggerito dalla decrescita serena, vale a dire tentare di sostenere la crescita o farla ripartire se vi è stata una recessione. D’altro canto, pur se si riconosce la necessità della crescita, si possono comunque criticare il consumismo, l’avidità, i beni di lusso e gli status symbols visti come valori in sé, la ricerca smodata del guadagno, le disparità eccessive tra pochi super-ricchi e il resto della popolazione. Con stanziamenti cospicui ma non insostenibili si possono alleviare grandemente molte sofferenze.
Certamente nei paesi in via di sviluppo, ma spesso anche soccorrendo le fasce più disagiate nei paesi più ricchi.
ln definitiva, non è attraverso il rifiuto dell’innovazione tecnologica e dell’apertura dei mercati che l’umanità potrà farcela. D’altro canto, il governo dell’economia deve saper rispettare la natura e le altre eredità che l’umanità ha ricevuto. Sarebbe possibile portare in tutto il pianeta il lavoro, il benessere, i diritti sociali, un’appropriata regolazione delle conseguenze indesiderabili dell’attività economica. Il capitalismo è già capace di generare un prodotto ben maggiore di quello che è necessario per la sopravvivenza del genere umano. E le sue potenzialità sono ancora sterminate, sebbene non illimitate. Ma anche le distruzioni e in genere i costi che può produrre, se sregolato, sono immani. Pur considerando che i singoli tendono spesso a comportarsi da egoisti razionali, si tratta di governare l’economia con la mens delle persone di buona volontà, guardando al bene comune e all’interesse delle generazioni future.

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E-MOTION: ENERGIE ROBOTICHE IN MOVIMENTO
Antonio Chella
 
Studi recenti, ed in particolare mi riferisco ai libri di Brynjolfsson e McAfee e di Pistono, hanno evidenziato come la crisi economica che stiamo vivendo non possa essere analizzata mediante i tradizionali modelli economici, ma ne debbano essere creati di nuovi.
Questi studi ritengono che la novità della attuale congiuntura risieda nel fatto che sulla scena si sia affacciato un nuovo attore: la robotica, e più in generale le moderne tecnologie informatiche.
Secondo la sintesi di Pistono, la robotica sta portando via il lavoro alle persone e le sta rendendo “Obsolete” i due libri summenzionati concordano essenzialmente con questa tesi, ma differiscono sulle conclusioni. Pistono, in linea con i movimenti di opinione legati in Italia alla galassia che ruota attorno al Movimento Cinque Stelle, ritiene che la battaglia contro le macchine sia persa e che dobbiamo adeguarci, abbassando le nostre pretese e conseguentemente il nostro tenore di vita. Questo ridimensionamento, conclude Pistono, se correttamente affrontato, potrebbe aiutarci ad essere più felici.
Brynjolfsson e McAfee ritengono invece che grazie alla robotica si stiano dischiudendo grandi opportunità davanti a noi e che una Oculata politica di incentivi e finanziamenti possa farci vincere la sfida contro le macchine.
Il fatto che la robotica e l’informatica abbiano tagliato posti di lavoro è certamente sotto gli Occhi di tutti: la classe operaia è stata quasi completamente sostituita dai robot industriali e il ceto medio degli impiegati potrebbe essere destinato in breve tempo ad una sorte analoga: gran parte dei compiti eseguiti da impiegati è sostituita da software basati su Internet.
Per fare qualche esempio, gli sportelli bancari sono diminuiti per via dei sistemi di home banking; le agenzie di viaggio hanno visto diminuire la loro utenza poiché i biglietti di viaggio, albergo, escursioni si prenotano tramite Internet, e grazie a siti come TripAdvisor è anche possibile ricevere suggerimenti di viaggio in tempo reale. Le librerie online quali Amazon e IBS stanno sostituendo l’antica figura del libraio cui chiedere consigli di lettura: in tanti siti specializzati è anche possibile scambiare commenti e condividere recensioni. A questo proposito, è ancora viva per noi palermitani la ferita della chiusura della storica libreria Flaccovio di Via Ruggero Settimo.
Ma allo stesso tempo è innegabile che quasi giornalmente si aprano davanti a noi nuove ed inaspettate possibilità, a patto che i settori dell’industria e dei servizi siano disposti a ripensare se stessi, a “cambiare pelle” accettando la sfida dell’innovazione.
La robotica di servizio, secondo I’Executive Summary3 della International Federation of Robotics (IFR), federazione delle principali ditte produttrici di robot, è destinata a conquistare un ampio filone di mercato nei prossimi anni. Nel 2012 sono stati venduti circa 3 milioni di robot per uso personale e domestico, il 20% in più che nel 2011, per un valore di circa 1.2 miliardi di dollari. Per il triennio 2013-2016 si prevede che saranno istallati 94.000 nuovi sistemi robotici professionali per un valore di circa 17 miliardi di dollari. Inoltre, nello stesso triennio saranno venduti 22 milioni di robot per uso personale, per un valore di 5.6 miliardi di dollari.
Alcuni esempi: il sistema Watson sviluppato dalla IBM ha recentemente vinto al programma televisivo americano jeopardy, analogo al nostro Rischiatutto. IBM sta studiando la possibilità di impiegare questo sistema per il supporto alle decisioni in medicina. Il robot mulo della ditta Boston Dynamics, adesso acquisita da Google, è in grado di trasportare carichi pesanti anche in condizioni di terreno difficili e accidentate; AS/MO prodotto da Honda ha sembianze umane ed è in grado di portare carichi anche salendo e scendendo le scale; Geminoid F, realizzato dal prof. Hiroshi Ishiguro dell’Università di Osaka, riproduce le fattezze di un’attrice giapponese ed ha recitato in diversi spettacoli teatrali.
Amazon sta sperimentando un sistema per la gestione del magazzino di libri, una sorta di bibliotecario robotico in grado di prelevare e preparare per la spedizione i libri presenti nel magazzino. Sistemi simili sono in fase di sperimentazione da Walmart e Tesco, famose catene americane di prodotti alimentari. A breve sarà quindi possibile gestire con poca spesa interi magazzini e vendere prodotti a prezzi più bassi, come avviene per i libri. EI possibile immaginare che altre ditte che immagazzinano e vendono merci potranno seguire questo esempio.
E’ quindi tempo anche per la scuola e l’università di ripensare se stesse: si stanno prepotentemente affermando i MOOC (Massive Open Online Courses), i corsi di studio a distanza inizialmente nati per gli studenti lavoratori. In Italia il capofila è stato il consorzio Nettuno, con una esperienza complessivamente positiva. A Palermo negli anni passati diversi studenti di Ingegneria Informatica, grazie ai corsi Nettuno, sono riusciti a laurearsi velocemente e lavorando. Lo studente dei MOOC non ha bisogno di recarsi all’università per seguire i corsi ma può frequentare classi virtuali e seguire lezioni a ogni ora del giorno, svolgere esercitazioni, scambiare impressioni e studiare insieme ad altri colleghi mediante piattaforme di condivisione. Inoltre, diversi studi concordano sul fatto che l’uso della robotica possa facilitare l’apprendimento dell’informatica, della matematica e della fisica.
Questo è il panorama in cui ci muoviamo oggi. E, certamente possibile per i giovani approfittare delle opportunità create dalla robotica e dall’informatica, ma è bene tenere presente che è richiesta loro una alta specializzazione. Secondo la recente statistica di Linkedin il social network orientato alle professioni, le professionalità richieste sono quasi esclusivamente le cosiddette STEM (Science, Technology, Engineering, Math), ed in particolare quelle legate all’informatica e alla gestione d’impresa.
E quali potrebbero essere le prospettive in Sicilia della robotica? E’ indicativo analizzare a questo proposito il documento della Regione Toscana5 “Il Sistema Toscano della Ricerca ed Innovazione: Strategie integrate per crescere e innovare” che descrive come la regione si sta preparando ad affrontare le prossime sfide dell’innovazione anche in relazione al programma europeo Horizon 2020.
Sfogliando il documento si nota innanzitutto la presenza di un interlocutore ben identificato: la Conferenza Regionale per la Ricerca e l’Innovazione. Un analogo organo è presente anche per la Regione Sardegna, mentre, sempre al Sud, la Campania ha un Assessorato per la Ricerca Scientifica e Innovazione Tecnologica.
E’ auspicabile a questo proposito che anche la Regione Siciliana si possa dotare di uno strumento moderno preposto alla intercettazione ed alla corretta fruizione dei fondi europei destinati alla ricerca e innovazione tecnologica.
Il documento della Regione Toscana, tra le altre cose, definisce le flagship regionali, che sono “i pilastri del futuro sviluppo sociale ed economico della Regione e definiscono lo scenario di riferimento per tutti gli attori del Sistema.” Se leggiamo in dettaglio il documento, vediamo che la robotica cui fa riferimento la Toscana è innovativa ed in linea con le attuali tendenze di ricerca: Nuove generazioni di robot, nello spettro dai nanorobot (inclusi i sistemi impiantabili -”neuropr0te5i”) per il recupero di funzioni sensori-motorie, ai robot di dimensioni umane, versatili ed “intelligenti”, con applicazioni in campi strategici come la chirurgia, la diagnostica, la riabilitazione, le protesi intelligenti e la neuro-robotica, la sicurezza, il supporto ad anziani e diversamente abili basato su soluzioni “Ambient Assisted Living”, l’educazione e l’entertainment, l’ambiente, il lavoro in ambienti ostili, la robotica marina e sottomarina, in particolare per la salvaguardia di beni archeologici, etc.
E’ molto interessante vedere come un governo regionale del centro Italia consideri quindi la robotica come un pilastro su cui scommettere per il futuro della regione stessa.
E in Sicilia? La situazione descritta nel documento di analisi congiunturale della Regione Siciliana6 “Analisi Congiunturale dell’Economia Siciliana nel 2013,” è decisamente negativa. Tuttavia si intravede una nota positiva, legata proprio alle esportazioni industriali. Nel caso dell’elettronica questo incremento è notevole e pari al 23%. Inoltre, il documento7 dell’Osservatorio Congiunturale della Fondazione Res mette in evidenza come gli investimenti produttivi in termini di macchinari e attrezzature stiano finalmente tornando al segno positivo. Potrebbe allora essere un buon momento per lanciare la robotica.
Ma cosa può fare la robotica per la Sicilia? Il mio sogno utopico è una “Sicilia robotica” in cui la robotica possa essere uno dei motori trainante dell’avanzamento culturale e sociale della regione. Per inseguire questo sogno ho fondato nel 1998 il RoboticsLab, laboratorio di robotica dell’Università di Palermo. La missione del RoboticsLab è mettere insieme in modo interdisciplinare gli studi di robotica con quelli delle neuroscienze, della psicologia e della filosofia della mente per costruire robot coscienti, dotati di senso di sé, di emozioni, ed in grado di realizzare un sistema sociale uomo-robot.
Più praticamente, nel medio termine, i benefici della robotica potrebbero essere molteplici. Parto da Cicerobot, una esperienza che mi sta molto a cuore. Cicerobot è un progetto di ricerca che mira alla costruzione di robot che fungono da guide museali; con i miei collaboratori abbiamo condotto negli anni numerosi esperimenti presso il Museo Archeologico Regionale di Agrigento, i giardini dell’Orto Botanico di Palermo e presso la chiesa di Sant’Antonio Abate allo Steri.
Questa tecnologia ha riscosso grande interesse nei media e ha ampie potenzialità in quanto coniuga i beni culturali con la robotica. La Sicilia è una terra ricca di gioielli artistici spesso celati. Basti pensare ai bellissimi musei, alle chiese e agli oratori chiusi o aperti in maniera limitata per mancanza di personale. La robotica potrebbe dare una grande spinta alla valorizzazione di questo immenso patrimonio. Come abbiamo sperimentato ad Agrigento, un robot Cicerone può attirare l’interesse dei più giovani verso l’arte.
Inoltre, poiché il robot è un nodo Internet, si possono organizzare visite “in remoto”, in cui il visitatore virtuale impossibilitato a recarsi al museo potrà comandare il robot dal proprio computer o smartphone ed esplorare il museo con gli occhi del robot, ossia attraverso le telecamere a bordo del robot.
Cicerobot è stato anche sperimentato per compiti di sorveglianza: durante la notte o durante gli orari di chiusura del museo il robot può continuare a girare ed allertare la vigilanza in caso di situazioni sospette, ad esempio una borsa abbandonata.
Prendo adesso spunto dall’esperimento di guida che abbiamo condotto con Robotanic presso i giardini dell’Orto Botanico di Palermo.
Si potrebbero utilizzare questi robot nei giardini della Sicilia. Il Parco della Favorita potrebbe diventare un giardino in cui i robot accompagnano i visitatori per i viali, con la possibilità di trasportarli anche fisicamente.
Infatti sono stati ormai sperimentati con successo i veicoli autonomi senza guidatore in grandi aree con poco traffico. Questi veicoli a oggi non sono ancora in grado di funzionare in modo soddisfacente in zone di elevato traffico ma potrebbero essere impiegati ad esempio nel centro storico di Palermo qualora fosse chiuso al traffico come avviene in tutte le città europee. Un servizio di piccoli taxi senza guidatore potrebbero trasportano le persone all’interno del centro storico per visitare le chiese, i palazzi e per fare shopping.
Come nel caso della guida museale, questi robot potrebbero essere utilizzati per compiti di sorveglianza pattugliando il centro storico delle città o altri quartieri critici e segnalando eventuali situazioni sospette o in difficoltà alle autorità preposte o agli ospedali per il pronto intervento.
Inoltre i robot potrebbero essere utilizzati anche per compiti di pulizia: recentemente il gruppo dei colleghi della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha sperimentato un robot “spazzino”. Si può immaginare quindi una squadra di robot che pulisce le strade del centro di Palermo anche in grado di richiamare l’attenzione degli addetti verso situazioni critiche.
Un altro progetto che mi sta molto a cuore è RoboCare, focalizzato sull’applicazione delle tecnologie robotiche per l’assistenza ai malati ed agli anziani. Nell’ambito di RoboCare abbiamo sperimentato l’uso di robot per l’assistenza domiciliare che imparano le abitudini e le necessità dell’anziano o dell’infermo e lo monitorizzano durante la giornata a casa propria. L’idea ispiratrice di RoboCare è un robot personale per l’assistenza domiciliare che impara e si adatta alle necessità e abitudini dell’anziano: una sorta di badante robotica che controlla se l’assistito ha fatto colazione, se ha preso i medicinali all’orario previsto e capace di segnalare tempestivamente eventuali situazioni critiche all’infermiere o al medico. Palermo potrebbe diventare capofila in queste sperimentazioni, alleggerendo così gli ospedali cittadini per quanto riguarda la lungodegenza.
Una applicazione molto interessante in questo filone è relativa al progetto Robotica e Autismo, in collaborazione con la ASP e sponsorizzato dal Rotary Club Palermo Est. L’obiettivo è l’impiego dei robot come ulteriori strumenti a disposizione del terapista per i soggetti autistici. Questi sono generalmente più a loro agio nell’interazione con i robot piuttosto che con le persone, in quanto un robot attira maggiormente la loro attenzione. L’obiettivo è allora l’utilizzo dei robot in modalità teleoperata, quale oggetto transazionale per migliorare l’integrazione del soggetto autistico con i compagni di classe.
In conclusione, tornando all’utopia della Sicilia robotica, per portare avanti il sogno abbiamo sicuramente bisogno dell’aiuto delle nuove generazioni. Insieme ai miei collaboratori organizziamo e partecipiamo frequentemente a conferenze e corsi rivolti ai bambini delle scuole elementari e medie per iniziarli alla robotica. Abbiamo in atto collaborazioni in tal senso con i colleghi psicologi e partecipiamo alle attività di associazioni nazionali che hanno come scopo la promozione della robotica nella didattica.
Sono sicuro che le nuove generazioni sapranno costruire una Sicilia migliore anche grazie alle tecnologie robotiche.

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ENERGIE CREATIVE. LA METAFORA DELLA POLITICA ITALIANA PER GESTIRE SQUADRE DI ROBOT
Rosario Sorbello
 
Un esempio di energie creative.
Immaginate delle elezioni dove tutto si svolge senza troppi clamori: gli esponenti politici non si esibiscono nei talk show televisivi, non promettono cose impossibili come improbabili venditori di piazza, non cambiano idee o progetti con facilità. Il pragmatismo è il loro unico punto di forza nella gestione del potere. Immaginate ancora che gli attori non siano uomini ma robot.
D’altronde, anche la politica procede spesso per simulazioni e finzioni: si simula una crisi di governo per ridistribuire i rapporti di forza all’interno della coalizione; si indicono elezioni come le primarie per valutare il peso elettorale di un candidato prima di una competizione reale e per delineare l’assetto di una eventuale compagine di governo.
Questi robot sono in realtà un po’ particolari perché fanno parte di una società di multi-robot che vive e si organizza secondo le regole del sistema politico italiano.
Una colonia di robot impegnati nello svolgimento di operazioni complesse per svolgere una missione ha bisogno di strategie ottimali e flessibili per adattarsi alle varie circostanze. La Metafora della Politica applicata ai robot è stata usata per rispondere a queste esigenze e il dinamismo tipico delle elezioni italiane.
La società robotica cui si fa riferimento è altamente dinamica, il tempo è scandito dalle missioni che mirano al raggiungimento di precisi obiettivi e non al mantenimento del potere. Non esistono ruoli fissi e inamovibili (nessun robot è attaccato alla poltrona), i compiti vengono distribuiti di volta in volta tenendo conto dello stato di energia, delle specifiche capacità di lavoro di ciascun robot e della loro attitudine al rischio.
Ogni robot ha un ruolo diverso da quello degli altri, assegnato dopo una procedura di elezione. E qui cominciano le analogie con la politica italiana da cui questa strategia di comportamento prende spunto e che ha dato luogo ad un filone di ricerca appartenente alla classe degli algoritmi di Artificial Life.
ln dettaglio l’algoritmo prevede tre partiti robotici che si contendono i favori dell’elettorato: i conservatori, i moderati e i progressisti (siamo lontani dalla nuova idea dei politici di oggi che vorrebbero l’alternanza di due 2 partiti idealmente rappresentati dalla sinistra e dalla destra).
Ogni partito robotico è animato da un’ideologia di base che, se vincente alle elezioni, influenzerà le strategie dell’intera colonia.
I conservatori tendono a condurre la missione privilegiando la sicurezza del gruppo, con rischi ridotti al minimo. l progressisti adottano un approccio più aggressivo, non esente da rischi. La politica dei moderati è intermedia.
Le Regole alla base della votazione prevedono che i robot esprimano una sola preferenza fra le tre opzioni, senza astensionismo.
Le elezioni conducono ad una coalizione di governo che assegna i ruoli chiave di Primo ministro, ministro della Difesa e ministro delle Comunicazioni (il Primo ministro, se il caso lo richiede, può assumere, ad interim, gli altri ministeri). Tutti gli altri robot saranno i cittadini, impegnati in vario modo.
Ad elezioni avvenute, ecco che parte una tipica missione: il Primo ministro pianifica la strategia di azione, il governo prende posizione e dispone i robot nelle aree da esplorare. ln precedenza il ministro della Difesa ha costruito la mappa globale e ha individuato i percorsi preferenziali che si suppone siano esenti da pericoli.
Durante la missione è prevista una verifica, una specie di pagella che valuta le prestazioni sia dei membri del governo che dei cittadini e, in corso d’opera, qualora non si riuscisse a svolgere la missione nel tempo assegnato, per errore di strategia o perché il gruppo di comando non è efficiente, si indicono nuove elezioni.
L’obiettivo è quello di ottenere nelle società robotiche la stessa efficienza che si riscontra in quelle umane. Il modello di strategia basato sulla politica è utile, ed anche necessario, per gestire sistemi multi-robot dove il singolo robot è un agente intelligente in grado di coordinarsi con gli altri.
Il modello è stato messo a punto nel 2000, quando mi sono recato negli Stati Uniti durante il mio dottorato di ricerca’.
Sono state studiate diverse forme di coordinamento, compresa la dittatura e l’anarchia e alla fine è stato scelto il modello basato sulla politica italiana perché la sua “instabilità dinamica” legata alle elezioni anticipate, alle crisi di governo, ai rimpasti governativi ed anche ai ribaltonil alla prova dei fatti si è rivelata utile per il funzionamento del sistema.
ln realtà mi sono ispirato al modello della Prima Repubblica, perché più movimentato. Dal 1948 al 1993 si sono succeduti 47 governi, con 36 minicrisi e 11 elezioni, con coalizioni di governo composte da circa 6 partiti.
Oggi per rendere più complesso il modello basato sulla Metafora descritta si potrebbero introdurre ulteriori elementi di disturbo attribuendo ad ogni robot il sesso maschile e femminile ed aggiungendo comportamenti più aggressivi e diretti per i robot di sesso maschile e comportamenti meno aggressivi ma più riflessivi per quelli femminili.
Chissà un giorno molto lontano si potrà avere nella realtà un Primo Ministro robotico che messe da parte le proprie emozioni e il proprio tornaconto personale possa occuparsi del bene del nostro paese.
Ma ho paura che questo possa ridursi ad una bella irrealizzabile utopia.

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ENERGIE CREATIVE. L’EVOLUZIONE DELL’EDITORIA DIGITALE, DA GUTENBERG A BOOKENBERG
Antonio Gentile, Antonino Giuffrida, Antonio Massara
 
La maggior parte delle persone non sa che Gutenberg, nonostante l’idea geniale della stampa, falli un paio di volte. E che la sua maggiore difficoltà, oltre ai soldi (e gli inchiostri, i formati e il design) consisteva nel trovare la carta, un bene la cui tecnologia era ancora da affinare. Per il resto andò, come sappiamo, sul sicuro: stampò la Bibbia e fu un successo.
L’abbiamo vista, la sua Bibbia. Dopo cinquecento anni stava in una teca all’ingresso dell’immensa sala lettura della Public Library di New York, in condizioni perfette, come fosse uscita dalla tipografia fresca fresca.
Ai suoi tempi, la domanda di libri era fortissima, e alcuni imprenditori veneziani si resero conto che c’era da fare un bel pò di quattrini. Si buttarono sull’affare.
La stampa a caratteri mobili rivoluzionò la cultura dei successivi secoli e vide il sorgere della figura dell’editore, che ben presto assunse il ruolo di asso pigliatutto. L’Editore ha preso pian piano possesso dell’intera filiera del mercato, dalla tipografia giù fino alle librerie, raccogliendo su di sé tutto il potere e il margine commerciale, e determinando il successo o l’insuccesso dell’autore.
Nel frattempo, si svilupparono i quotidiani, che diventarono presto il quarto potere, e qualcuno entrò pure nel quinto potere, quello della televisione, monopolizzando di fatto tutta la comunicazione che veniva imbandita per i lettori e ascoltatori. ln alcune lingue del mondo, come per esempio l’italiano, praticamente non c’è cosa che si legga, si veda o si senta che non venga decisa da un paio di uomini al massimo, che sono, per l’appunto, editori.
Agli editori dobbiamo anche le centinaia di capolavori dati alle fiamme da frustrati Creativi mai pubblicati, clamorosi abbagli nelle scelte editoriali, le traduzioni fatiscenti, le titolazioni confuse, i giornali illeggibili, i programmi televisivi che rincitrulliscono, la propaganda elettorale e l’immensa produzione di titoli inutili, quando non dannosi per la mente, che affollano le nostre librerie.
Oggi tutto ciò è in crisi.
ln tutte le parti del mondo, in qualsiasi lingua, gli editori sono in crisi. Vedono il proprio fatturato scendere, ridursi il numero di lettori, le copie diminuire e le librerie scomparire.

La crisi attuale
Che succede? ln verità è abbastanza semplice. Il mercato editoriale era una filiera composta da varie figure. C’era un autore che di solito è immaginato come un Vate affamato, nascosto dal mondo e protetto dall’editore, che produce parole interessanti o avvincenti che vengono digerite, date alle stampe da alcune tipografie e distribuite da una miriade di librerie in tutto il paese; milioni di lettori entrano e comprano. Oggi invece gli autori si affacciano su Facebook, consigliano le proprie creazioni agli amici/lettori, che non devono neppure muoversi da casa: possono scaricarli sul loro telefonino o sul tablet, comodamente seduti in poltrona, con un semplice click. ln una riunione dell’editoria digitale mondiale, il mese scorso a New York, un conferenziere ha chiesto alla platea di editori perché mai un autore con 10.000 amici su Facebook debba farsi pubblicare da un editore. Potrà distribuire le proprie storie sui mobile device dei propri amici, oppure potrà stampare on demand le copie richieste da quelli fra loro che proprio amano i libri di carta.
Fine dell’editoria, fine dell’editore e fine dei libri? Ovviamente no.
Diciamo subito a scanso di equivoci che chi scrive pensa che i libri non scompariranno mai, così come gli editori.
Ma andiamo piano, e cerchiamo di capire meglio quello che sta succedendo sotto i nostri occhi.
Innanzitutto occorre guardare ai supporti, al dove legge una persona oggi. Gutenberg ebbe il problema della carta, poiché ancora non esisteva la sua produzione industriale. Noi abbiamo gli smartphone e i tablet. Su entrambi si legge, pur con particolarità distintive, perché le dimensioni contano, e anche la storia del prodotto.
Quando comparve il telefonino, molti dissero che non avrebbe avuto alcun successo, limitandosi a quei pochi globetrotter di successo che dovevano stare connessi h24 al proprio lavoro. Sbagliato, il telefonino esplose in quelle culture che abbisognano di comunicazione. Curiosamente anche tra gli italiani, che sono dei gran chiacchieroni, in testa alle classifiche del blogging mondiale.
Poi Amazon s’inventò il Kindle, che è uno schermo per leggere, solo per leggere. Negli Usa ebbe un grande successo. Li legge molta gente, molto più che in altre parti del mondo, ed è indubbio il vantaggio di scaricare, leggere, prendere nota, segnare e navigare, su centinaia di libri in biblioteca, da portare sempre con sé, al peso di meno di 100 gr.
L’anno dopo Steve Jobs lanciò l’iPad, cambiando il mondo dopo neanche 12 mesi.
Col tablet ti connetti, ti diverti e lavori, guardi la televisione, i film, ascolti musica e nel frattempo leggi opere multimediali. Lavoro e svago indissolubilmente intrecciati, col peso di pochi grammi e la portabilità di un foglio di carta, o quasi. il tablet sta esplodendo nel mondo. In Italia un po’ meno, per tre motivi. Col tablet, oltre a divertirsi, si lavora. E se uno è disoccupato e non ha soldi, non lo compra. Il secondo motivo è che non è un telefono, quindi non si chiacchiera, ma puoi chattare. Il terzo motivo è generazionale: i nativi digitali gli preferiscono lo smartphone grande, perché ci fanno tutto uguale, ma è più piccolo, anche se in generale costa tanto quanto.
Li hanno chiamati gli “screenager”, i teenager che passano il tempo a guardare lo schermo. Ma che guardano? Se andate a vedere, nella maggior parte dei casi, leggono: Sms, Whatsapp, post su Facebook.
E’ come un romanzo a più mani, che racconta la loro vita. E scrivono. l nostri figli scrivono l’equivalente di dodici cartelle al giorno, e magari si lamentano se il professore gliene chiede quattro per il compito in classe. Hanno imparato a scrivere con i pollici alla stessa velocità con cui noi scriviamo con gli indici sulla tastiera del computer. EI un salto generazionale.
Oltre allo schermo c’è l’oggetto della narrazione, il libro: lo chiamano eBook.
Sui tablet, i più semplici eBook di solo testo sono stati fatti in modo che, quando giri pagina, si vede il simulacro di una pagina di carta che solleva l’angolo e si sposta cinematograficamente sull’altra pagina a sinistra, che invece non c’è. Viene replicata persino la trasparenza tipica della carta sul lato non scritto. E’ un trucco, una magia tecnologica per far credere di leggere un libro, un modo per dire agli amanti della carta: “Vedi? noi ti capiamo, siamo con te!” Ma sul tablet si possono leggere magnifiche opere multimediali, colorate e parlanti, con cui interagire all’infinito, come le favole per bambini.
L’avvento del digraph
D’altro canto, però, la presenza della parola book in “eBook” provoca spesso reazioni forti, al limite della indignazione, perché di libro in realtà c’è ben poco. Il “libro” è di carta, come dice anche il dizionario. Piuttosto, tutti d’accordo a parlare di opere multimediali riferendoci a questi oggetti che si leggono su tablet. Cose diverse, molto diverse da un libro. E allora perché non chiamarle con un altro nome, che non evochi più la parte “book”. Li chiameremo digitalgraphy, o digraph in breve.
Il digraph è dunque un’opera multimediale narrativa o didattica che incorpora testo, voce, immagine e suono, con forti possibilità di interazione col lettore. Può simulare una qualsiasi opera su carta, come una rivista o un libro, ma può avvicinarsi al film o alla televisione.
Il digraph viene letto sul telefono o sul tablet da un’app, che è un lettore (una sorta di micro browser Web), e al momento ha una miriade di formati diversi che lentamente stanno convergendo verso uno standard, magari basato sul già diffusissimo ePub 3.0, formato open source, gratis per tutti.
Tornando al problema del “che succede?”, abbiamo un mondo editoriale in cui si affacciano nuovi supporti di lettura (tablet multimediali), nuovi lettori (screenager) e nuovi oggetti di espressione artistica (digraph). Tutto ciò accade mentre la vecchia filiera non ha più motivo di esistere perché gli autori sono oggi a stretto contatto (virtuale) con i propri lettori, tramite il web e i social network.
Quindi nessuno stupore che l’editoria sia in crisi. Sfido io, è una vera e propria rivoluzione tecnologica! Tale e quale quella che ebbe protagonista Gutenberg, che se tornasse ai nostri giorni, vorrebbe essere al posto del defunto Steve Jobs: Gutenberg era un maker industrial designer innovativo al servizio della cultura, mica un parruccone oligopolista! ln ogni crisi strutturale di mercato come l’attuale, chi apre gli occhi e si organizza può avere successo, un successo mondiale. La prima condizione è aprire gli occhi. Questo vale per tutti coloro che hanno qualcosa da dire: autori, aziende, comunicatori, giornalisti, fotografi e naturalmente, editori. Occorre chiedersi: nella realtà che si va delineando, chi saranno i protagonisti? La risposta dovrebbe essere ovvia: autori e lettori. In mezzo ci potranno essere le piattaforme di distribuzione virtuale, con tre o quattro colossi multinazionali, tra cui Amazon e Apple già presenti a svolgere il proprio ruolo. Gli editori non sembra abbiano ancora fatto una mossa decisa dentro la nuova arena.
Dobbiamo guardare alle due parti che sono in giuoco. Dalla parte dei lettori, potranno svilupparsi community di genere artistico (romanzi d’amore, thriller, …) che vivranno con la pubblicità. ln ogni caso però, i fondamentali sono sempre sul prodotto: il dígraph. I lettori, d’altro canto, abituati a secoli di perfette impaginazioni e trattamento tipografico ai massimi livelli pretenderanno analoga qualità.
Gli scrittori, i fotografi, i giornalisti, i filmaker hanno avuto alle spalle, per cinque secoli, chi si preoccupava di formattare, impaginare e distribuire. Adesso non più. Gli autori sono spiazzati, non sanno come fare: oltre ad essere creativi, a fare buone storie e scriverle bene, devono diventare editor, direttori della fotografia, tecnici informatici, …, tutte le funzioni professionali che stanno attualmente dentro alle case editrici, alle case di produzione cinematografiche, televisive e alle web agency.
Troppo, e troppo in una volta.
Per questo noi ci siamo inventati Bookenbergl.

Bookenberg
Bookenberg è un programma, che si usa on line, nato per aiutare gli autori a realizzare facilmente il design multimediale delle loro opere, attraverso l’uso di template (modalità di impaginazione) appositamente studiati.
L’autore non deve scaricare alcun programma e non deve avere alcuna conoscenza tecnica; deve solo entrare nel sito web di Bookenberg col manoscritto sul desktop, scegliere il template che più si avvicina ai suoi desideri e che trasformerà la sua opera attribuendogli il fantastico visual design che merita. Successivamente la scaricherà sul suo computer, pagando per questo una cifra ridicola.
Americani, italiani, tedeschi e francesi, cinesi e coreani, giapponesi e australiani, lo potranno fare ognuno nella propria lingua con la speranza che la propria opera abbia un grande successo mondiale.
Bookenberg non tratta copyright, diritti o distribuzione, tutto resta all’autore, che opererà come vuole. Bookenberg ha il solo scopo di aiutare qualsiasi creativo o insegnante, che abbia qualcosa da raccontare, a entrare in questo nuovo mondo.
È anche uno strumento perfetto per gli editori. ln questo caso, gli editori possono chiedere di inserire un proprio template personalizzato su Bookenberg, a pagamento, e pubblicare tutti i libri che vogliono evitando le spese connesse all’impaginazione.
Lo faranno? Pensiamo di no. Già molte aziende offrono prodotti simili e nessuna ha un successo planetario. Nessun editore guarda al futuro con occhi e mente aperta. Ritengono di poter sostituire il tipografo con una web agency e che poi tutto rimanga come prima, magari meglio di prima.
Miopia? Semplicemente non vedono, forse perché non vogliono vedere.
Noi cli Bookenberg faremo ogni sforzo per dialogare con gli autori e i creativi di tutto il mondo, narratori e designer, per proporre il miglior strumento possibile per realizzare le loro creazioni e farne l’uso che vogliono. Ogni sforzo sarà fatto per rendere il prodotto facile, immediato, capace di realizzare digraph dal design emozionale, belli e intensi, per rendere felici gli autori e numerosi i loro lettori.

Altro che eBook
Non ci sono molti autori nel mondo? Noi pensiamo l’esatto contrario.
Provate a sommare tutti i blogger, i twitter writer, gli scrittori, i fotografi, i giornalisti, gli sceneggiatori, i filmaker, gli screenplayers televisivi, i fotografi dilettanti, i poeti, i professori e gli studenti di ogni ordine e grado, i politici e gli amministratori pubblici, aggiungete tutti quelli che, per lavoro o passione, scrivono più di tre cartelle per comunicare qualcosa, e per finire estendete questo numero a tutti i continenti. Diciamo qualche centinaio di milioni? Se non ci credete, andate a vedere quello che è successo quando fu inventata quella modalità di comunicazione del proprio diario personale che è chiamata Blog. C’è persino chi ci ha fondato un movimento politico.
Bookenberg ha quest’ambizione: aiutare qualche centinaio di milioni di creativi a comunicare con il proprio pubblico, aiutandoli a realizzare bellissimi e interessantissimi digraph.
Altro che eBook!

Trasformare il libro
Rotolo, codice, incunabolo, libro a stampa, eBook
La costruzione della civiltà occidentale ha il suo pilastro portante nella scrittura e nella trasmissione del sapere utilizzando specifici supporti comunicativi. Rotolo, codice, incunabolo, libro a stampa ed E-book costituiscono le tappe tecnologiche di un plurisecolare processo che ha garantito la diffusione della conoscenza usando il miglior su porto disponibile in quel particolare momento temporale coniugando funzionalità di lettura e compressione dei costi per la riproduzione in più copie dello stesso testo.
Il rotolo, realizzato con carta di papiro, supporta la crescita e il consolidamento dell’impero romano e ne accompagna il declino. Il nuovo formato del codice e l’uso della per amena come supporto scrittorio se nano il cambiamento collegato a? consolidarsi della nuova realtà o l’implosione dell’impero romano. La nascita del codice incise profondamente sulla storia del libro e sulla trasmissione dei testi. Un cambiamento che matura nell’ambito dell’area mediterranea a partire dal l secolo d.C.: il codice affianca il rotolo fino a sostituirlo del tutto nel IV secolo.
Fu un processo lento, non già una rivoluzione, che matura in un lungo arco di tempo legata anche alla difficoltà di reperire carta ricavata al papiro. La nuova forma di libro nasce a Roma dove si cominciano ad utilizzare tavolette singole legate insieme in modo da formare una unità scrittoria in rado di contenere un testo omogeneo. Dopo poco tempo, le tavolette furono sostituite da fogli di pergamena cuciti insieme e protetti da un supporto ligneo. Sembra che in un primo momento la nuova moda non ebbe fortuna stentando a imporsi nella letteratura pagana, trovò invece largo consenso in ambiente cristiano poiché, si suppone, la nuova forma libraria assicurasse la circolazione unitaria dei quattro vangeli. Certamente la progressiva sostituzione del rotolo fu agevolata da una serie di fattori pratici che favorirono il codice in quanto a pergamena costava di meno e, soprattutto, si scriveva e si leggeva molto meglio del rotolo. Non bisogna dimenticare che le pagine (E un codice potevano essere utilizzate su entrambe le facciate ed erano, poiché generalmente racchiuse da una rilegatura, ben protette.
La richiesta di codici aumenta in maniera esponenziale con l’espansione dell’occidente, con lo sviluppo delle università e con l’affermarsi delle nuove realtà statuali quali a Spagna o la Francia. L’introduzione di un nuovo supporto qual è la carta apre nuove prospettive e moltiplica a costi molti più bassi l’offerta di codici sul mercato. La remora per una maggiore diffusione del codice e per l’abbattimento dei costi è costituito dal collo di bottiglia rappresentato dai co isti necessari a riprodurre in più copie lo stesso testo. L’introduzione ella stampa permette di superare questo limite e inizia una rivoluzione quantitativa e qualitativa che fa del libro riprodotto meccanicamente il punto di forza della nuova rivoluzione culturale che fa del Rinascimento il punto di forza della nuova realtà europea. La tipografia diventa l’officina nella quale si consuma questa rivoluzione e il suo unto di forza è costituito al compositore in grado di mettere insieme a pagina da mettere sotto i torchi e che sostituisce il copista.
La composizione del libro veniva affidata, dunque, alla tipografia, equiparata, con le dovute oculatezze per non imbattersi in spiacevoli anacronismi, quasi ad una struttura proto industriale.
Come in ogni momento di transizione alegšia sui contemporanei una grande confusione nelle professioni impiega ili all’interno della struttura. Alcune professioni, seppur lentamente, scompaiono dalla scena, altre, invece trovano nuovo impiego.
Se oggi la questione risulterà scontata così non era ai contemporanei di Gutenberg, anzi interessati a mantenere fedelmente, il più possibile, gli standard del manoscritto. Questo fenomeno, come vedremo, per altro è riscontrabile anche nel passaggio dalla stampa al di itale. Un libro oggi si compone di una serie di elementi preliminari quasi la copertina, l’occhiello, il frontespizio e il colophon. Ognuno di questi elementi ha uno specifico compito, mostrare cioè i dati utili per identificare il titolo, l’autore, la casa editrice, l’anno di produzione e così via.
Così come era avvenuto nel assaggio tra codice e rotolo, laddove l’uno non sostituì, almeno non immediatamente, l’altro, neppure la circolazione del manoscritto si esaurì con l’avvento della stampa, continuò anzi la sua diffusione come prodotto di una certa nicchia e di lusso per coloro che, nostalgici, non erano pronti, almeno non del tutto, al cambiamento.

La “non stampa” digitale
La nuova tipografia
Cosa lega dunque quella stamperia nata nel cuore della Germania medievale con l’insieme di metodi e tecnologie che, grazie all’intervento del computer, permette di realizzare, a chiunque e comodamente da casa, qualsiasi tipo di pubblicazione?
Abbiamo osservato i mutamenti che accompagnano il passaggio dal rotolo al codice e dal manoscritto alla stampa. Risulteranno poco chiari, invece, gli elementi che, in qualche misura, appaiono persistenti.
A propendere verso il cambiamento è solitamente una ristretta cerchia di persone che, individuati i benefici, ne pro one l’utilizzo nell’ambiente d’appartenenza. Questo ambiente norma mente è piuttosto reticente al mutamento e per ingentilirne gli animi si ricorre primariamente ad alcuni espedienti. Il rotolo, cosi come il manoscritto, era destinato, ad esempio, ad un pubblico di studiosi a cui, in definitiva, poco importava il basso costo dei materiali. Più convincente doveva sembrare ai loro occhi la maneggevolezza che il formato codice portava con sè. Diversa cosa era, invece, l’amalgama degli intellettuali che ruotava intorno alla stamperia, cerchia sensibilmente più estesa rispetto al passato, più interessata probabilmente agli aspetti quantitativi, oltre c e qualitativi, ed economici della produzione dei testi. Tuttavia, come già visto, non bastò elogiarne gli aspetti salienti ad assicurarne il primato come strumento di produzione culturale. Si è notato a questo proposito che il lettore, come ieri ancora oggi, tende ad “affezionarsi” al a struttura grafica della pagina. Per far fronte a questo problema le stamperie proposero, almeno in un primo momento, la stessa composizione grafica che uno studioso abitualmente riconosceva nella lettura di una pagina manoscritta, strategia che alla lunga si rilevò vincente.
Oggi, passando alla scrittura digitale, ci troviamo davanti ad un nuovo snodo e probabilmente, per rispondere alla prima domanda, è proprio questo che rende il presente cosi aderente alla realtà delle rime stamperie quattrocentesche, dovendo risolvere le stesse incertezza c e in fin dei conti nella loro lunga storia stampa e scrittura hanno dovuto far fronte.
L’editoria elettronica sembrerebbe essere giunta in una fase in cui, teoricamente, la riproduzione fisica su supporti cartacei potrebbe diventare presto obsoleta. Probabilmente non era questo lo scenario immaginato, a metà degli anni ottanta, dai progettisti della Apple quando lanciarono sul mercato il primo Macintosh, accompagnato da una stampante laser, etichettando il tutto come l’editoria da tavolo” rendendo, a ragione, la tecnologia “Gutemberghiana” un relitto di archeologia industriale. Il progetto era rivolto prevalentemente ad un campo d’utenza limitato a alcune professionalità, come i ricercatori universitari ad esempio, non certo ai compositori professionisti che avevano già largamente ostracizzato il tutto adducendo la scarsa elasticità dei software presenti sul mercato.
Antonio Gentile, sposato, padre di due meravigliosi bambini, è startupper e professore associato di Sistemi di elaborazione delle informazioni all’Università di Palermo. Dal 2009 guida Inform Amuse S.r.l., spin-off dell’Università di Palermo votata alla fruizione intelligente e coinvolgente dei beni culturali. Dal 2012 si occupa di Bookenberg. Si interessa di interazione uomo macchina e architetture digitali ed è coautore di oltre un centinaio di pubblicazioni scientifiche. Per informazioni: gentile.a@gmail.com.
Antonino Giuffrida è Associato di Storia moderna presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Palermo è tra i fondatori della rivista «Mediterranea Ricerche storiche» della quale è direttore responsabile. Ha studiato la storia della Sicilia in un’ottica mediterranea, utilizzando i temi di storia economica e sociale come chiave di lettura dell’evoluzione delle strutture dello Stato Moderno nell’isola. Oltre al volume La finanza pubblica nella Sicilia del l500 ha pubblicato le monografie La Sicilia e l’Ordine di Malta (1529-1580) La centralità della periferia mediterranea, e Le reti di credito nella Sicilia dell’Età Moderna dedicato all’evoluzione dei banchi pubblici nella realtà politica, sociale ed economica della Sicilia.
Antonio Massara è marketing manager, scrittore, fotografo, designer e startupper. Si dedica con passione alla scoperta del nuovo mondo dell’editoria, digitale e non, con tutte le sue implicazioni. E non sono poche. Lo trovate su www.antoniomassara.it

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ENERGIE CREATIVE.
UNIVERSITÀ EUROPEE.
LA GRANDE FUGA

Cristina Morrocchi
 
Il problema
La decisione di seguire il percorso universitario proposto dallo stato italiano è diventata problematica e per gli studenti e per le loro famiglie Occorre pensarci per tempo e prepararsi al di fuori dei normali studi scolastici, prima di affrontare i test legati al numero chiuso. Occorre immaginare, al di là delle proprie scelte, soluzioni alternative e di indirizzo e di sede. Occorre vedere quanto costa e se ne vale la pena. Perché, se l’offerta formativa non è qualificata e qualificante, garanzia di lavoro certo e prestigioso, forse si possono fare altre scelte. Scelte che oscillano tra la rinuncia a questo tipo di studi e la ricerca di università e sedi che offrano più garanzie di quanto possano fare le nostre università statali.
EI il boom quindi delle Università private che offrono maggiori servizi, è il boom delle Università all’estero perché comunque si impara una lingua, e si è sostenuti dalla speranza di un lavoro in realtà che, anche se non sono più ricche, appaiono certamente più meritocratiche e più aperte alle innovazioni.
La fruizione però di queste opportunità richiede che le famiglie abbiano la possibilità economica di investire sul futuro dei propri giovani e non tutte le famiglie possono farlo.
Certo il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali ed inalienabili della persona, e la nostra Costituzione afferma che: “l capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” specificando che “la Repubblica renderà effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie, ed altre provvidenze che devono essere attribuite per concorso.” Purtroppo non è così, o per lo meno non ci sono risorse per tutti gli aventi diritto. A questo si aggiunge, per genitori e studenti, la convinzione diffusa che le nostre università statali abbiano complessivamente qualità carenti da un punto di vista strutturale, organizzativo e umano e offrano quindi un modello obsoleto di scelte formative, a cui si aggiungono procedure di accesso farraginose e dall’esito incerto.
Infatti, se l’articolazione del corso di studi è stata, per quasi tutti gli indirizzi, modulata in tre anni più due, per allinearsi ai percorsi di studio degli altri paesi europei, la incertezza e le continue variazioni della struttura organizzativa, nonché delle modalità di accesso confondono, fuorviano e complessivamente risultano incomprensibili. Si pensi, per intenderci, alla sentenza del Tar che ha dichiarato illegittimo il corso di laurea in inglese del Politecnico di Milano o alla vicenda della valutazione dei titoli per l’accesso alle facoltà a numero chiuso.
Ora, la legge dell’agosto del 1999 afferma che “il numero chiuso è giustificato dalla duplice esigenza di avere corsi di laurea di maggiore qualità perché meno numerosi, e dall’esigenza di contenere il numero di nuovi professionisti immessi ogni anno nel mercato del lavoro, per garantire a tutti possibilità occupazionali e un reddito adeguato.” Ottimo intento ma, finora, pessimo risultato soprattutto per l’assenza di una reale programmazione di sviluppo del nostro paese. Questo, come vedremo meglio, impedisce di prevedere in quale direzione andrà lo sviluppo italiano e di valutare di conseguenza le possibilità di occupazione. Di capire cioè se il nostro paese può offrire a un determinato laureato un lavoro consono a uno stile di vita che sia almeno dignitoso.

I dati
C’è, quindi, in molti, studenti e genitori, una rinuncia a priori del percorso universitario che è confermata da un’indagine del Ministero dell’Istruzione la quale denuncia il crollo, in questi ultimi dieci anni, del tasso di passaggio dalla scuola secondaria all’università. Si tratta di ben venti punti percentuali, dal 73%, al 52%, il che, in alcuni casi significa rendere inutile il numero chiuso 0 addirittura riaprire l’accesso per non dover chiudere un determinato corso.
Ma c’è anche un consistente abbandono in itinere del percorso universitario e le ricerche dell’OCSE sui tassi di abbandono nelle università europee, ci forniscono la chiara consapevolezza di quanto i dati italiani siano negativi. Infatti, il 60 % dei nostri studenti lascia gli studi, percentuale doppia rispetto a quella degli altri paesi. E questo avviene mentre l’Europa progetta e lavora per avere fra i trentenni, nel 2020, il 40% dei laureati. Noi, secondo i dati Istat del 2012, siamo fermi al 20%.
Anche chi consegue una laurea va incontro purtroppo a grandi difficoltà. Uno studio della Banca d’Italia, che parte dai dati fin qui riportati, affronta infatti il tema dell’interdipendenza che esiste tra il conseguimento di una laurea e le possibilità di lavoro e di guadagno offerte dal mercato italiano. Questa ricerca afferma infatti che, se avere una laurea è ritenuto complessivamente auspicabile perla propria crescita personale, si imputa però a questo percorso di studi di essere eccessivamente teorico e di non far conseguire competenze professionali veramente spendibili nel lavoro.
Denuncia inoltre, sempre la Banca d’Italia, come il possesso della laurea non faccia crescere, qui da noi, le possibilità di reddito e non le faccia crescere né rispetto al possesso del solo diploma di scuola secondaria superiore né come progressione di carriera. Lo studio sottolinea come venga così a mancare uno dei principali incentivi per il proseguimento degli studi, viene, cioè, a mancare ogni prospettiva di miglioramento di status sociale e di guadagno. L’indagine porta un esempio concreto confrontando il salario netto di un laureato ad un anno dalla laurea (943 €) con quello di un diplomato impiegato a tempo pieno ad un anno dal diploma (925 €): è chiaro che la differenza è praticamente inesistente. Nel tempo, forse, potrà esser recuperata, ma in quanto tempo?

Le conseguenze
“Ai laureati non conviene rimanere in Italia”, dichiara in un’indagine sul lavoro giovanile il Ministero dell’Istruzione. ”Quei cinquecento euro in più guadagnati da chi si laurea e va via”, titola un articolo del Corriere della Sera. “La fuga dei Laureati” è una delle ultime copertine dell’Espresso. E di nuovo i dati Istat confermano: in quattro anni chi è andato all’estero prende quasi 1.800 euro netti al mese (1.783, per l’esattezza), mentre chi è rimasto in Italia ne guadagna 1.300. Ecco perché, come fotografa sempre l’Istat, 14mila laureati hanno spostato nel 2012 la loro residenza al di là delle Alpi.
Inoltre, secondo Almalaurea, il consorzio di 64 atenei italiani, che certifica i dati sull’occupazione dei laureati, sono ormai cinquemila i giovani che, ogni anno, al conseguimento della laurea, si immettono direttamente sui mercati esteri. EI l’effetto degli stipendi italiani che sono molto inferiori, a confronto di quelli europei, e lo sono perché sono ancora pochi i posti qualificati che offre il nostro mercato del lavoro: quando non sono stati persi, i posti di lavoro sono restati gli stessi e anche le qualifiche sono le stesse di 30 anni fa. Così i laureati italiani si trovano a fare gli educatori nelle cooperative o gli operatori nei call center. Il nuovo Ikea di Pisa, ad esempio, si gloria di avere solo commessi laureati.
E’ ovvio quindi che i migliori partano. Sono ingegneri, medici, conoscitori di più lingue, esperti di ambito politico e sociale e, ormai da qualche anno, anche medici. L’80% di loro resta in Europa, soprattutto in Inghilterra e Germania, ma anche in Irlanda o in Svezia. Gli altri vanno negli Stati Uniti, in Australia o in Cina. Rappresentano un capitale umano inestimabile per la crescita di quei paesi. Un capitale che noi, invece, perdiamo.
Come si vede, allora, l’Europa, nonostante la crisi assume. E, l’Italia che sembra non essere in grado di offrire lavoro, di promuovere imprenditorialità, in particolare al Sud. Eures, il portale europeo per il lavoro, offre migliaia di occasioni. E molte aziende straniere offrono opportunità facendole pervenire direttamente all’ interno delle poche università statali italiane qualificate, alla ricerca dei talenti più brillanti. Il nostro mercato, invece, è piatto, fermo, anzi perde pezzi consistenti del proprio patrimonio dal settore alimentare a quello della moda.
Non dipende dai nostri giovani la mancata occupazione: non ci sono “bamboccioni”, anzi. Secondo Universum, società per la ricerca di professionalità legata a Procter & Gamble, i nostri giovani pongono tra i vantaggi più importanti che un lavoro può offrire, quello di una carriera internazionale. Anche quei pochi laureati che restano, verrebbe da dire riescono a restare, danno di sé l’immagine di una generazione capace di intraprendenza, che ha la passione e l’impegno necessari per riuscire a creare il proprio futuro. Una generazione che merita di avere sostegno e opportunità per lavorare nel proprio paese.
Lo testimonia ad esempio il 7° Rapporto su “Sussidiarietà, neo laureati e lavoro”, riportato dall’Agenzia di Stampa dell’Università di Palermo, che intervista, a quattro anni dalla laurea, 6.000 laureati, occupati nel nostro paese in diverse attività e li analizza con il parametro delle diverse tipologie di capacità relazionali che sono necessarie nel lavoro. Competenze che, secondo lo studio della Banca d’Italia, l’Università stessa dovrebbe promuovere esperienze concrete da svolgersi nell’ambito del volontariato, degli stage, dell’impegno sociale. Esperienze che facilitino quell’integrazione tra società, accademia e mondo del lavoro che potrà essere una immensa risorsa per il futuro dei giovani laureati.

Le responsabilità
Riassumendo: solo il 50% dei nostri diplomati accede all’università, e di questi, il 60% abbandona mentre il 40% si laurea. Di questi, più del 7% trova occupazione all’estero. Quindi, dei cento possibili laureati iniziali, solo 20 si laureano effettivamente e, alla fine, solo 6 restano in Italia. Cose già sentite e dette, ma quantificarle risulta decisamente sconfortante. Rischiamo di diventare un paese di poveri e di ignoranti mentre un patrimonio di intelligenze ed energie umane va disperso. Pochi, pochissimi, rientrano e riportano in Italia le esperienze e le competenze acquisite.
Di chi sono allora le responsabilità? Certamente non solo della crisi, che coinvolge tutta l’Europa: gli stipendi così bassi a diversi anni dalla laurea non si possono spiegare solo con la crisi. Il problema è che, nel nostro paese, non viene valorizzato il capitale umano: invece di investire sui giovani, sulle loro idee e sulle loro capacità, il nostro sistema produttivo, nel suo complesso, preferisce pagare poco le persone e contare sulla garanzia di un ricambio continuo. Questo grazie anche a una legislazione che tutela i curricula professionali più forti senza promuovere veramente esperienze, retribuite, di crescita per i giovani.
La conseguenza di ciò, non è solo la fuga dei cervelli, con la parallela mancanza di innovazione e ricerca, ma, la ripresa economica stessa del paese. Si dice che l’Italia non valorizza i giovani perché non cresce, ma se non cresce è anche perché non punta su di loro: invece di considerarli una ricchezza li riduce ad essere un costo sociale. Un giovane che guadagna troppo poco o che non lavora, pesa sia sulla famiglia sia sulla collettività. Gli esperti di risorse umane, i cosiddetti cacciatori di teste che vengono a fare acquisti di talenti nel nostro paese, insistono sul valore del capitale umano, perché tutti sanno che la differenza nella qualità delle cose è data dalla qualità delle persone ed è quindi su di loro che occorre scommettere. Nel mondo, i paesi in espansione investono moltissimo nelle politiche per i giovani. Noi dovremmo fare altrettanto.
Un giovane all’università costa all’Italia circa 7000 euro l’anno.
Soldi sprecati, se non se ne ha un ritorno di produttività, di innovazione, di vantaggio per il paese. La Francia spende 11000 euro, la Spagna quasi 10000, ma sono molto più bravi a non sperperare i frutti dei loro investimenti.
Alle nostre Università manca molto di quanto è necessario per sanare la discrasia che in Italia si è creata tra i gli studi universitari e il mondo del lavoro, soprattutto in quelle del Sud, più povere, peggio organizzate, spesso tagliate fuori dagli ambienti produttivi e culturali del Paese. Sulla carta, i nostri atenei potrebbero competere con gli atenei privati ed esteri, ma poi, alla prova dei fatti, quei 50 studenti su 100 che rischiano l’investimento di tempo e denaro in un percorso di studi lungo e costoso, incontrano mille difficoltà sia economiche sia organizzative. Si potrebbe dire che le nostre università non sono “friendly”: conoscere i tempi, i luoghi, le modalità dei corsi, non è immediato: trovare aiuto e sostegno didattico, pur essendo possibile non è semplice. Essere accolti, integrati socialmente e accademicamente, è solo frutto di iniziativa personale. Le strutture sono spesso inadeguate e i laboratori spesso mancano di attrezzature. La disponibilità dei professori non è sempre garantita. Quello che i giovani studenti auspicano, è un’università confortevolmente organizzata, in cui si impari sperimentando, facendo, innovando; dove si intessano relazioni produttive con la realtà accademica e il mondo del lavoro, conducendo, anche in itinere, esperienze concrete.
Neanche negli altri paesi l’accesso alle facoltà universitarie è facile.
Vi è un criterio meritocratico fortemente radicato: più alti sono i punteggi, più prestigiosa e competitiva è l’università che si frequenta. Ci sono però regole e programmi certi; la scrematura spesso viene fatta quando non si siano sostenuti un certo numeri di esami o non si sia ottenuta una certa media ma, in itinere, a sostegno dello studente che vacilla, sono previsti percorsi didattici particolarmente virtuosi e diverse forme di “bonus” economici. Le università degli altri paesi pubblicano e aggiornano continuamente i dati sui tempi e la qualità delle occupazioni raggiunte dai propri laureati. Basta fare, in internet, un giro delle varie università europee per comparare i costi, i servizi offerti, le proposte didattiche, il successo negli studi e i tempi di accesso al lavoro dopo la laurea e confrontare il tutto con le esperienze di figli e nipoti in Italia.
In questo ambito ha fatto moltissimo la Comunità Europea con il progetto Erasmus che permette ad alcuni dei nostri studenti di passare un periodo di studio in una università di un altro paese. Perché, di nuovo, le università estere, sia grandi che piccole, accolgono con efficienza e calore i nostri giovani, li sostengono singolarmente, li tutelano e li sponsorizzano. Per il giovane poi trascorrere un periodo all’estero significa emanciparsi più velocemente. Significa incontrare culture diverse, modalità di vita differenti. Significa acquisire Conoscenze, flessibilità e tolleranza. E spesso, l’esperienza condotta in quel periodo, fa venir voglia, ai nostri giovani studenti, di scegliere il paese che li ha ospitati come luogo dove lavorare. Noi, in Italia, invece stiamo perdendo credibilità anche in questo. La richiesta di svolgere l’Erasmus da noi, come del resto di frequentare i nostri corsi, non è mai stata così bassa.
Le nostre università devono consolidarsi, rinnovarsi e soprattutto, perché questo è quello che può fare la differenza per gli studenti, “far scoprire finalmente che non tutti i sistemi sono male organizzati, che non con tutti i professori bisogna discutere e sperare che rispondano alla email, che non tutti i professori vanno rincorsi per l’università, che non sempre bisogna far dipendere il mese di laurea dal professore perché, in molti altri paesi (Germania, Regno Unito, America, Francia), sono gli studenti ad essere al centro dell’Università e sono i loro bisogni ad essere più importanti.
Occorre recuperare un’ottica di promozione e di servizio per lo studente che faccia di esso il fulcro dell’attività universitaria.
In questo senso il mondo universitario ha certamente delle responsabilità: la responsabilità di progettare strategie formative perché i nostri ragazzi non abbandonino: accogliendoli, tutelandoli, insegnando loro a pensare in grande, in modo aperto e innovativo; la responsabilità, in quanto bacino di intelligenze e competenze, di far intendere alla politica e al mondo produttivo la necessità di usare di tutte di quelle risorse umane che “regaliamo” agli altri paesi.
Le responsabilità complessive, però, di questo quadro cosi penalizzante per il nostro paese, sono soprattutto del mondo politico e del mondo economico e produttivo.
È del mondo politico la responsabilità di “non” investire abbastanza, non secondo un progetto a lungo termine, nella formazione culturale dei giovani, quei giovani di cui ogni governante dichiara di preoccuparsi, come fossero l’unica risorsa per un futuro migliore del nostro paese.
È del mondo politico la responsabilità di trovare risorse per l’avvenire dei nostri giovani, di pianificare perché il mercato italiano, libero dalle infinite pastoie burocratiche che lo soffocano e sgravato dall’eccessivo peso fiscale che ne impedisce gli investimenti, torni a quella creatività e capacità di innovazione che il mondo riconosce come la specificità del talento italiano.
È forte anche la responsabilità delle forze economiche e produttive, nel condizionare le scelte politiche, nel non puntare sui giovani sfruttando l’istituto del precariato, nel non rinnovare il nostro paese internazionalizzandolo e valorizzandolo. L’ Italia era un paese manifatturiero; oggi, in una realtà globalizzata, dove le produzioni si sono spostate nei paesi a basso costo, non sappiamo se tornerà ad esserlo e con che modalità, ma è chiaro che l’unica strada da percorrere per incrementare la ripresa è valorizzare le nostre risorse umane, naturali e artistiche, e questo si può concretizzare solo attraverso azioni e norme che aprano nuovi campi di produzione e di servizi, capaci anche di acquisire investimenti dagli altri paesi.
Occorre recuperare un’azione di governo che metta i giovani e il paese al centro della politica e dell’economia e abbia come criteri guida quelli della equità e della meritocrazia.
È infine del mondo politico e del mondo economico, la responsabilità etica dei quotidiani esempi di arrogante malcostume, nepotismo, bieco favoritismo e corruzione cosi diffusi nel nostro paese e che rendono spesso così difficile viverci e così facile andarsene.

E il Rotary International?
Naturalmente, condurre analisi, auspicare soluzioni, è sempre più facile che provare a trovare percorsi motivanti per uscire dallo status quo.
Il Rotary International, con i suoi programmi specifici per le Nuove Generazioni offre, a latere degli studi curriculari, molte opportunità.
La possibilità di imparare a relazionarsi, di promuovere progetti di servizio all’interno dell’Interact e del Rotaract; di fare Scambi di Studio; di sperimentare e affinare le proprie qualità di leadership e conoscere i nuovi modelli di Imprenditoria attraverso i seminari Ryla; di seguire soggiorni di qualificazione all’estero con delle Borse di Studio che permettano di approfondire i temi privilegiati dall’azione rotariana.
II nostro Club, a Palermo, in Sicilia, sta provando da tempo con il progetto Formare i giovani dell’Albergheria, a portare alcuni studenti tra i più meritevoli alla laurea. In 10 anni, quasi cento giovani di quel quartiere difficile sono giunti, con l’aiuto del Club, al diploma della secondaria superiore e dieci sono stati inseriti nel percorso universitario. Di questi ultimi dieci studenti, cinque si sono persi dopo i primi esami, due studentesse si sono appena iscritte, altri due hanno forse qualche probabilità di farcela visto che hanno già sostenuto la metà degli esami, uno studente è in dirittura di arrivo: ha chiesto la tesi e deve sostenere l’ultimo esame. Si tocca con mano la realtà dei dati Istat.
Quest’anno, però, il nostro Club si lancia in un nuovo ambizioso progetto di sensibilizzazione ai temi fin qui delineati, rivolto alla città intera. “Sviluppo contro” è il titolo provocatorio di questo ciclo di incontri: sviluppo contro la fuga delle nostre risorse più giovani, sviluppo contro la ripresa dell’emigrazione intellettuale e non solo, sviluppo contro l’abbandono della Sicilia da parte delle sue forze migliori.
La commissione che organizza l’iniziativa, presieduta dal Prof. Michele Masellis ha elaborato, in vista del primo appuntamento, un documento di cui mi pare importante riportare, a conclusione di questo articolo, due passi. Il primo attiene all’obbiettivo degli incontri che si propongono di “condurre una riflessione approfondita e a più voci sulla necessità di invertire la pericolosa tendenza all’impoverimento intellettuale e sociale della città di Palermo e più in generale della nostra Regione”. La seconda esprime un giudizio storico e innesca la speranza di un futuro migliore “La Sicilia non vive una condizione di sottosviluppo per la propria posizione geografica di marginalità o per l’assenza di infrastrutture… La Sicilia vive una condizione di sotto sviluppo per il suo mantenersi ai margini di un processo che sta rivoluzionando il mondo, per il non saper mettere a frutto le proprie intelligenze, per il viversi – oggi come ieri – in una condizione di irredimibilità. Servono idee nuove. Serve ascoltare la Sicilia che, contro la burocrazia e la politica, contro vecchie consuetudini e vecchi atteggiamenti, dialoga con il Sud e il Nord del mondo, progetta e realizza modernità.” E’ un azione importante quella che ci si propone di svolgere perché, come scrive Giuseppe Savagnone, “non siamo tutti innocenti di quanto è accaduto e sta accadendo in Italia”; abbiamo certamente peccato di omissione: omissione di interesse e di comprensione; omissione di impegno.

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ENERGIE PULITE. LE F.E.R. (FONTI ENERGETICHE RINNOVABILI) E IL SISTEMA ELETTRICO SICILIANO
Cristiano Quaciari
esperto di gestione di sistemi elettrici in alta ed altissima tensione e di dispacciamento di produzione da fonti energetiche rinnovabili

 
Negli ultimi anni si è assistito ad un significativo sviluppo della capacità di produzione di energia elettrica da Fonti Energetiche Rinnovabili su tutto il territorio nazionale. In particolare, tale sviluppo ha riguardato gli impianti eolici, prevalentemente connessi alla Rete di Trasmissione Nazionale in alta tensione (in maggior parte sul livello di tensione a 150.000 Volt), che hanno visto superare quota 8.500 milioni di Watt di capacità installata. Analogamente gli impianti fotovoltaici, prevalentemente connessi alle reti di distribuzione in media (20.000 Volt) e bassa (380 Volt e 220 Volt) tensione, hanno avuto uno sviluppo ancora maggiore, con una totale capacità installata di oltre 18.500 milioni di Watt.
Oltre all’elevato incremento della capacità di generazione da fonte rinnovabile, sono intervenuti significativi cambiamenti che hanno modificato lo scenario in cui gli Operatori del settore elettrico si trovano a competere quali, ad esempio: la riduzione del fabbisogno energetico, il miglior rendimento del parco di produzione termoelettrico, l’evoluzione dei criteri di gestione ed esercizio degli assetti della Rete Trasmissione Nazionale e delle reti di Distribuzione nonché le modifiche strutturali introdotte nel funzionamento del Mercato Elettrico dell’energia.
All’interno di questo contesto evolutivo, la Sicilia, nel giro di pochi anni, e in particolare dal 2008 al 2013, ha visto crescere in maniera esponenziale la capacità installata di impianti eolici e solari nel proprio territorio. l primi hanno avuto una crescita media annua del 25% e, oggi, si contano alcune decine di impianti per un totale di 1.750 milioni di Watt di potenza installata (di cui oltre il 95% connessa alla Rete di Trasmissione Nazionale – 52 unità – e la rimanente alla rete di distribuzione). Per quanto riguarda gli impianti fotovoltaici invece, si è osservata nello steso periodo (2008-2013) una crescita media annua del 190%, con oltre 32.000 impianti per un totale di oltre 1.250 milioni di Watt di potenza installata (di cui oltre il 95% connessa alla rete di distribuzione e la rimanente alla Rete di Trasmissione Nazionale).

Ripercussioni sulla sicurezza e continuità del servizio elettrico
Una espansione così rapida degli impianti di produzione da fonti rinnovabili non programmabili nel sistema elettrico siciliano, unitamente alla riduzione della domanda elettrica e alla non trascurabile rigidità (e scarsa flessibilità) degli impianti termoelettrici siciliani in termini di modulazione della produzione, ha comportato il manifestarsi di problematiche tecniche nella gestione del sistema elettrico attribuibili, in larga parte, all’aleatorietà e difficoltà di previsione della produzione da fonti rinnovabili non programmabili.
In particolare, la non programmabilità di tali fonti determina un incremento dell’errore di previsione del carico residuo da bilanciare e la riduzione della porzione di carico soddisfatta da unità di produzione dotate di capacità di regolazione della potenza generata.
II notevole incremento nel territorio siciliano di impianti eolici e fotovoltaici ha introdotto benefici a livello ambientale-economico energetico, riducendo la produzione di energia elettrica da fonti tradizionali (termoelettrico) e consentendo la diminuzione in Sicilia del prezzo dell’energia nelle ore diurne; ha d’altro canto causato un deterioramento dell’efficienza e della sicurezza del sistema elettrico siciliano.
In questo senso, quale provvedimento si inseriscono due Deliberazioni dell’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas (AEEG), in base alle quali è stato previsto nei confronti dei proprietari degli impianti di produzione da fonte eolica di potenza installata uguale o superiore a 10 milioni di Watt, l’obbligo di fornire servizi per la regolazione della potenza e della tensione e di disporre di sistemi di protezione tarati in maniera tale da assicurare la connessione alla rete solo nell’intervallo di frequenza 47.5 Hz + 51.5 Hz (è intervallo “più largo possibile” previsto dal Codice di Rete per tutte le centrali connesse direttamente alla Rete di Trasmissione Nazionale, compatibile con la sicurezza d’esercizio e con il piano di difesa del sistema elettrico primario).
Tali disposizioni, fino a qualche tempo fa, non venivano applicate né agli altri impianti “rilevanti” (cioè gli impianti connessi alla Rete di Trasmissione Nazionale con potenza installata maggiore o uguale a 10 milioni di Watt) alimentati da fonti rinnovabili non programmabili, né agli impianti “non rilevanti” connessi alle reti di distribuzione in media e bassa tensione.
Pertanto, gli impianti di generazione connessi alle reti di distribuzione di energia elettrica (in larga misura i fotovoltaici), presentavano sistemi di protezione tarati in modo da prevederne la disconnessione automatica ogniqualvolta la frequenza di rete non rientrasse nell’intervallo “stretto” 49.7 Hz + 50.3 Hz e, quindi, da non garantirne un funzionamento continuativo nell’intervallo di frequenza da 47.5 Hz a 51.5 Hz.
Con una ulteriore Deliberazione l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas ha previsto l’obbligo di estendere la modifica delle tarature dei sistemi di protezione anche agli impianti di generazione connessi alle reti di distribuzione di energia elettrica, alimentati da fonti rinnovabili non programmabili, con potenza superiore a 50 mila Watt. Tale disposizione si applica in particolare agli impianti fotovoltaici connessi alle reti di distribuzione ed è associata, principalmente, all’esigenza di prevenire il distacco improvviso di una notevole quantità di impianti di generazione (cd Generazione Distribuita) a seguito di una minima variazione di frequenza (cioè pari a 0,3 Hz: differenza tra 50.3 e 50.0 Hz ovvero tra 50.0 e 49,7 Hz) dovuta a un grave incidente di rete (ad es.
il distacco improvviso di produzione termoelettrica dalla rete primaria), che introdurrebbe un effetto domino che porterebbe all’instabilità del sistema elettrico siciliano se tali impianti non fossero opportunamente adeguati.
Infatti, oltre alla perdita di generazione dovuta alla contingenza (guasto) iniziale, il mancato adeguamento delle tarature dei sistemi di protezione coma sopra indicato comporterebbe l’ulteriore incremento del deficit di potenza causato proprio dal distacco degli impianti fotovoltaici non adeguati. Come conseguenza si potrebbe attivare il sistema di difesa (automatico o manuale) del sistema elettrico siciliano, che prevede anche l’alleggerimento del carico di utenza.
Si consideri che una criticità di questo tipo si è già registrata, per la prima volta in Italia, il 18 maggio 2011 proprio in Sicilia quando, a causa di un minimo calo di frequenza dovuto alla perdita di un gruppo termoelettrico da 150 milioni di Watt, si è verificata la perdita di 80 milioni di Watt di generazione fotovoltaica distribuita inducendo il distacco di circa 230 mila Utenti, limitato dal corretto intervento del sistema di difesa del sistema primario.

Impatto delle Fonti Energetiche Rinnovabili sul Mercato Elettrico
La connessione elettrica tra la rete Siciliana e quella della Penisola Italiana è assicurata da un unico collegamento in cavo a 380 mila Volt in corrente alternata che attraversa lo stretto di Messina. Tale situazione strutturale ha storicamente imposto il ricorso per lo più a risorse di generazione interne all’isola, per avere condizioni stabili di funzionamento.
La limitazione della capacità massima di importazione per motivi di sicurezza è la causa della formazione di un prezzo dell’energia in Sicilia significativamente e costantemente più alto rispetto al Prezzo Unico Nazionale (PUN) del mercato elettrico, in quanto si devono tenere in servizio i costosi impianti termoelettrici tradizionali.
Lo scostamento medio negli ultimi anni tra il Prezzo Unico Nazionale e quello della Sicilia è sempre stato dell’ordine dei 30 €/megawattora, con valori in Sicilia regolarmente oltre i 150 €/megawattora, fino all’evento estremo verificatosi la sera del 21 agosto 2012 quando il prezzo del megawattora ha toccato l’incredibile punta di 3.000 €/megawattora, che, mediato sul mercato elettrico nazionale, ha portato alla formazione di un Prezzo Unico Nazionale di 324 €/megawattora Il Prezzo Unico Nazionale è il prezzo di acquisto dell’energia elettrica che si forma nel mercato elettrico italiano (gestito dal Gestore del Mercato Elettrico – GME), precisamente nella sessione chiamata Mercato del Giorno Prima (MGP), che è organizzato secondo un modello di asta implicita, dove produttori, grossisti e i clienti finali idonei possono vendere e acquistare energia elettrica per ogni ora del giorno successivo.
Quando la selezione di impianti che risulta dall’asta è incompatibile con la capacità di trasporto della rete, il Gestore del Mercato Elettrico scompone l’asta principale in subaste zonali, al fine di determinare una selezione di impianti compatibile con la capacità di trasporto tra le attuali n. 6 Zone di Mercato (Zona Nord costituita dalle regioni Valle D’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna; Zona Centro Nord costituita dalle regioni Toscana, Umbria e Marche; Zona Centro Sud costituita dalle regioni Lazio, Abruzzo e Campania; Zona Sud costituita dalle regioni Molise, Puglia, Basilicata e Calabria, Zona Sicilia; Zona Sardegna). Si formano in tal caso prezzi zonali differenziati, la cui media ponderata con le quantità acquistate in tali zone forma il Prezzo Unico Nazionale.
Nel Mercato del Giorno Prima si accettano prima le offerte più economiche e “via-via” quelle più care, secondo il principio di merito economico, fino a coprire tutto il fabbisogno energetico previsto nelle varie ore del giorno successivo.
A determinare il prezzo orario che viene corrisposto a tutti gli impianti chiamati in servizio, e quindi a produrre in quell’ora, è la fonte più costosa selezionata, che per questo prende il nome di “marginale”. ln tale contesto la produzione da fonti rinnovabili non programmabili, come solare ed eolico, viene offerta a prezzo zero così da non rischiare di non essere selezionate, in virtù dei costi variabili nulli e della consapevolezza che molto difficilmente potrebbe essere remunerata se venisse offerta al corretto valore comprendente tutti i costi riferiti a tale produzione.
In modo ancor più significativo l’incremento del numero e della potenza degli impianti fotovoltaici ed eolici in Sicilia ha modificato profondamente la struttura del parco di generazione elettrica.
Infatti, si evince che l’energia prodotta da fonti rinnovabili trovando nel Mercato del Giorno Prima la sua via preferenziale per mezzo del dispacciamento di merito economico, determina di conseguenza la diminuzione della produzione di energia elettrica delle tradizionali centrali termoelettriche almeno in alcune ore della giornata.
Si è già verificato di fatto che, nei giorni festivi caratterizzati da ridotto fabbisogno energetico e con consistenti livelli di energia prodotta da fonti energetiche rinnovabili, il prezzo zonale siciliano (che come già detto si forma nel Mercato del Giorno Prima), nelle ore centrali della giornata, abbia assunto valore pari a zero euro. Si consideri che la prima volta che in Italia il prezzo dell’energia è “andato a zero (0 €/megawattora)” è stato proprio in Sicilia, Lunedi 19 Aprile 2012 (giorno di Pasquetta), quando le rinnovabili hanno coperto il 100% della domanda.
Pertanto, nelle ore in cui si ha la formazione di un prezzo pari a zero, l’energia prodotta dagli impianti eolici e fotovoltaici si è avvicinata, o ha addirittura superato, nelle sessioni del Mercato del Giorno Prima, la migliore previsione dell’intero fabbisogno energetico dell’isola.
Poiché la produzione da fonti energetiche rinnovabili non programmabili non è sempre disponibile e non presenta caratteristiche costanti nel tempo, può succedere che si passi da momenti in cui la stessa copre integralmente tutta la richiesta di potenza ed energia (la domanda) ad altri momenti in cui si rende necessario far intervenire prontamente le centrali termoelettriche. Queste centrali hanno però tempi di attivazione e di connessione alla rete lunghi. Da qui la necessità di mantenere in servizio un certo numero di centrali al carico minimo per esigenze di pronta riserva e questo determina l’aumento del costo dell’energia immessa in rete.
Il problema del prezzo zonale Siciliano significativamente più alto del Prezzo Unico Nazionale continua a presentarsi, purtroppo in modo spesso ancor più rilevante, nelle ore serali caratterizzate da scarsa ventosità e quando viene concretamente a mancare con una certa rapidità il contributo del fotovoltaico che, come detto, deve essere sostituito da fonti tradizionali. Quando il sole tramonta, il sistema si trova ad affrontare tre distinti fenomeni: la mancanza del contributo della produzione da fonte eolica (proprio a causa della scarsa ventosità), l’innalzamento serale dei consumi, caratterizzato da un gradiente di carico significativo seppure inferiore a quello che si verifica al mattino con la ripresa delle attività, e la riduzione progressiva della generazione da fonte solare. Per coprire il deficit di potenza che si determina si ricorre necessariamente al parco tradizionale termoelettrico disponibile in Sicilia, che non è particolarmente ampio, e ciò è causa dell’innalzamento dei prezzi (in media circa 130 €/megawattora nelle ore serali rispetto ai 75 €/megawattora nelle ore diurne).
Nonostante il notevole contributo fornito dagli impianti di produzione alimentati da fonti rinnovabili non programmabili, che come detto hanno determinato un radicale riassestamento del prezzo zonale siciliano in esito nel Mercato del Giorno Prima, il prezzo zonale siciliano rimane più elevato rispetto alle altre zone di mercato dell’Italia continentale (mediamente 95 €/megawattora rispetto ai circa 75 €/megawattora delle altre zone di mercato nel 2012) principalmente a causa del costoso e poco efficiente parco di generazione tradizionale e, ancor di più, a causa della ridotta capacità di interconnessione con il Continente.
Vi sono poi alcuni periodi in cui, per la manutenzione del collegamento a 380 mila Volt che collega la Sicilia con la Penisola Italiana, il sistema elettrico siciliano si trova a funzionare in isola di frequenza.
In queste condizioni il sistema elettrico siciliano perde il sincronismo con il sistema elettrico europeo e deve provvedere al soddisfacimento del fabbisogno isolano, nonché alle sue variazioni, ricorrendo esclusivamente a risorse interne. La rete elettrica della Sicilia deve quindi disporre di adeguate capacità di regolazione per mantenere la frequenza di funzionamento entro i limiti contrattuali anche in condizioni perturbate per guasti di elementi di rete e centrali di produzione.
Nel funzionamento in isola di frequenza la produzione dell’energia elettrica non può essere affidata a pochi grandi impianti di produzione tradizionale ma deve essere parzializzata su più impianti (tra questi anche quelli meno efficienti e meno competitivi), in modo tale da sopperire all’eventuale avaria accidentale di un gruppo di generazione od elemento di rete e garantire in ogni caso la copertura del carico e la continuità di alimentazione dei Clienti. Tali vincoli riducono lo spazio che in condizioni standard può essere riservato alla produzione da fonti energetiche rinnovabili.
Nel funzionamento in isola di frequenza, l’elevata disponibilità di energia prodotta da fonti energetiche rinnovabili non programmabili può creare problemi nella regolazione della frequenza. Infatti, gli impianti eolici e fotovoltaici in condizioni meteorologiche favorevoli immettono in rete tutta la loro produzione istantanea anche se non completamente offerta sul mercato poiché non facilmente prevedibile il giorno precedente. Se in determinate ore questa immissione di potenza supera la richiesta del carico si riscontra l’aumento della frequenza di funzionamento del sistema isolato, aumento rischioso per il funzionamento in sicurezza del sistema elettrico e la continuità di alimentazione per l’utenza. Analoghe considerazioni valgono nei casi in cui in real time si riscontrano immissioni di potenza da fonti eolica e fotovoltaica significativamente minori delle previsioni.
Per mantenere in sicurezza il sistema elettrico nazionale nei momenti di criticità, il 1 Agosto 2012 l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas ha emesso la Deliberazione 344/2012/R/eel, in base alla quale il Gestore della RTN può, con il dovuto preavviso, a far ridurre la produzione degli impianti eolici e fotovoltaici di potenza superiore a 100 mila Watt connessi alle reti di distribuzione di energia elettrica.
Le situazioni di criticità maggiormente frequenti si collocano nei periodi in cui è presente cospicua produzione da fonti rinnovabili unita al basso fabbisogno energetico (soprattutto nelle ore centrali dei giorni festivi), che limita la disponibilità in rete degli impianti tradizionali, i quali attualmente sono gli unici in grado di offrire i servizi di regolazione necessari a mantenere il sistema in sicurezza.
Il ricorso alla sopra citata procedura RLGEDI. potrebbe rendersi necessario soprattutto in Sicilia, dove alcune criticità nascono principalmente per la scarsa magliatura della rete di trasmissione e per la rigidità del parco termoelettrico, acquistando una rilevanza estrema nel caso di sistema elettrico in isola di frequenza.
La gestione del sistema elettrico siciliano in isola di frequenza rappresenta quindi una sfida unica nel panorama mondiale: basti pensare, infatti, che per trovare il più vicino sistema elettrico isolato paragonabile per dimensioni a quello siciliano, bisogna arrivare fino in Islanda.
La mancanza del collegamento a 380 mila Volt con rete europea inevitabilmente concorre all’incremento del prezzo zonale siciliano, a causa delle limitazioni imposte agli impianti termoelettrici più competitivi e sulla produzione di energia da fonti energetiche rinnovabili non programmabili (in particolare eolica), ma soprattutto a causa dell’aumento dello spazio di mercato che si deve riservare, forzatamente, agli impianti da fonti tradizionali meno competitivi.
L’indisponibilità programmata dell’attuale collegamento in cavo a 380 kV tra l’Isola e la Penisola Italiana, occorsa dal l al 13 Ottobre 2013 per consentire gli interventi di mantenimento in efficienza degli asset esistenti e l’implementazione di lavori correlati al nuovo collegamento (ponte elettrico) “Sorgente – Rizziconi”, ha determinato l’aumento del prezzo zonale siciliano, con picchi che hanno raggiunto il valore di 164,98 €/megawattora. Di conseguenza, la Sicilia ha fatto registrare un aumento del prezzo zonale del 39% rispetto alle settimane precedenti e del 60% in più rispetto alle settimane successive.

Conclusioni
L’entrata in servizio del nuovo collegamento con il Continente, prevista per il 2015, consentirà di esportare una maggiore quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili verso il continente; ma allo stesso tempo consentirà di importare energia a basso costo, in modo da permettere il riallineamento del prezzo dell’energia elettrica della Zona di Mercato Sicilia con i prezzi di mercato che si formano per le altre regioni italiane, risolvendo definitivamente il problema della ridotta concorrenzialità presente nell’Isola e portando ad una significativa riduzione del Prezzo Zonale siciliano e, di conseguenza, del Prezzo Unico Nazionale.

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ENERGIE ROTARIANE.
UNA SEDE PER IL ROTARY

Michele Crapitti
 
“Politica è uscire insieme dai problemi, uscirne da soli è solo avarizia” (Don Lorenzo Milani).
Siamo tutti consapevoli del fatto che la nostra società stia vivendo diversi livelli di crisi. Oltre alla evidente crisi economica, con un capitalismo che sembra sempre meno propenso a investire sul lungo periodo, a differenza del capitalismo originario, sviluppatosi a partire dalla seconda guerra mondiale, in cui il profitto veniva invece usato per investire ed aumentare il ciclo economico, la crisi che oggi viviamo è allo stesso tempo crisi di valori politici, sociali, etici, culturali, spirituali, in una parola crisi di valori umani.
Consideriamo, inoltre, che l’attuale crisi non si connota solo come “crisi transitoria”, ma soprattutto come “crisi di discontinuità”, che impone una lucidità ed una capacità di analisi nel rispondere con realismo ad un nuovo stato sociale. La globalizzazione ha fatto tramontare il modello di “Stato centrale”, così come fino ad oggi lo abbiamo conosciuto, ed impone un decentramento della macchina amministrativa non solo e non tanto a livello nazionale, bensì in un contesto europeo.
Questa dovuta premessa, riletta attraverso i principi etici e di servizio che caratterizzano lo spirito e le finalità del Rotary, ci impone di essere sempre più sensibili ed attenti nelle nostre capacità di incidere sul cambiamento della società, nella direzione di un sistema che miri alla qualità della vita, delle relazioni e ad un futuro sostenibile nel nostro Paese.
Ritengo che proprio la crisi ci obblighi a raccogliere quelle “Energie” necessarie al suo superamento. Ciò può avvenire, anche e soprattutto, attraverso la valorizzazione del senso della collettività e della relazione, come condizione per la crescita e lo sviluppo degli individui, in primis delle “Energie Rotariane”, che devono inventarsi delle capacità nuove per creare scenari nuovi . Ed è proprio la valorizzazione della relazione, intesa come accrescimento della sua qualità, che può favorire lo scambio di informazioni e di idee, la valutazione del loro significato, in un particolare contesto, e l’influenza sociale che incoraggia o addirittura costringe determinate azioni. EI in questi termini che la relazione va “curata” e non “contata”.
Il miglioramento della qualità delle relazioni è una motivazione potente che spinge gli individui a prendere parte a processi di costruzione collettiva. Questo mette in moto riconoscimenti, sentimenti di affetto, reciproci affidamenti, a partire dai quali uno pensa che l’insieme si può fare”. E’ proprio dalla qualità delle relazioni, che gli individui stringono fra loro, che dipende poi la qualità dell’agire.
Ecco che le “Energie Rotariane” per esprimersi al meglio non possono prescindere, da un assetto organizzativo ben definito in tutte le sue componenti, sia riguardo alla struttura, ai ruoli, ai servizi, alle procedure, ma anche riguardo alla cultura, ai sentimenti, alle competenze ed ai valori.
l nostri soci, oggi in numero di 88, e quanti in futuro potranno entrare a fare parte del Rotary Club Palermo Est, possono essersi avvicinati, o potranno avvicinarsi, alla nostra Associazione attratti dalla sua storia, dal suo fascino e magari alcuni, sull’onda di ragionamenti un pò più pragmatici, potranno essere spinti da aspirazioni di crescita personale e professionale. ln ogni caso, qualunque sia la motivazione che abbia spinto un soggetto a diventare socio del Rotary, dopo questo primo passo, deve sentirsi parte di un progetto di portata globale, che racchiuda in se tutti gli obiettivi e le finalità del nostro statuto. E’ proprio il succitato assetto organizzativo che potrà permettere a tutti i nostri associati di sperimentarsi in tutte le connessioni del nostro operare e di coltivare tutti insieme gli ideali che ci accomunano.
Tutto ciò potrà contribuire, indubbiamente, ad un incremento qualitativo delle relazioni all’interno della nostra Associazione, rafforzando il livello morale e l’intensità del senso di appartenenza e di affezione di ognuno di noi.
L’incremento delle relazioni, ovviamente, non può non passare dalla contaminazione con il territorio, insieme al quale, ossia alla rete degli attori locali, bisogna intraprendere un viaggio comune, per dare luogo a quel cambio culturale di cui la nostra società ha bisogno e in cui noi crediamo. Dobbiamo, in altri termini, fare rete con il territorio per contaminarci ed arricchirci reciprocamente.
F. Governa, professore associato di Geografia Politica ed Economica, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Torino, in una sua pubblicazione, riprendendo delle situazioni caratterizzate da modalità differenti di interazione tra soggetti sociali, sottolinea come effettivamente si possa parlare di “rete locale” solo nel caso in cui gli attori intreccino relazioni finalizzate allo scambio di informazioni e si mobilitino in vista di un obiettivo comune.
Nello specifico, questo scenario deve rappresentare la situazione che le “Energie Rotariane’l debbono perseguire per cercare di raggiungere traguardi operativi non fini a se stessi, ma che siano in grado di diffondere conoscenze ed accrescere competenze, ossia fare rete per essere da pungolo nei confronti di chi governa a tutti i livelli, dal locale al sovranazionale.
l problemi di cui oggi la nostra società ci chiede il conto sono molteplici e di una certa rilevanza, come il problema del lavoro, con le conseguenze di disordine sociale ad esso purtroppo correlate, della sanità pubblica, con i sui disavanzi, dell’ambiente, solo per citare i più importanti.
Si tratta, come si può ben capire, di spostare enormi macigni e per farlo è necessario tessere sempre nuove alleanze. l componenti del nostro Club, ossia le “Energie Rotariane”, con le competenze di cui dispongono, possono certamente svolgere un ruolo di guida in questo difficile compito, ma al contempo devono avere l’umiltà di riconoscere che da soli sono certamente troppo piccoli.
Per questo motivo è importante incrementare anche la qualità delle relazioni esterne alla nostra organizzazione, tessendo sempre nuove alleanze, sia con i singoli che con le Istituzioni pubbliche o private, al fine di provare, tutti insieme, a spostare i succitati macigni, che rappresentano un freno allo sviluppo di una società civile e vivibile.
Quindi intraprendere un percorso comune con le risorse vitali del territorio, finalizzandolo ad un concreto impegno nel partecipare attivamente ed attraverso un agire associativo, alla progettazione del futuro della nostra città e della nostra regione.
Credo, pertanto, che il nostro Club possa e debba fungere da incubatore per un incremento delle relazioni di qualità, al tempo stesso interne, “Energie Rotariane”, ed esterne, risorse vitali del territorio.
Ciò può infatti rappresentare una delle chiavi di volta per un coinvolgimento sempre più ampio e partecipativo dei nostri associati e di nuove risorse esterne, a supporto della possibilità di definire strategie e piani di lavoro, che pongano i nostri ideali di servizio nei confronti della società in un’ottica di sempre maggiore concretezza e realismo.
Come ho già avuto modo di precisare, la possibilità di incrementare le relazioni passa necessariamente attraverso un assetto organizzativo più strutturato, in primis una sede operativa che ci connoti anche come luogo fisico e come agire operativo di qualità.
Mi auguro, quindi, che il nostro Club possa disporre al più presto di uno spazio fisico permanente, che rappresenti per i nostri associati, ma anche per qualunque altra forza vitale del territorio, un costante punto di riferimento, dove accogliere le idee e lavorare insieme per trasformarle in progetti.

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ENERGIE ROTARIANE.
IL ROTARY CHE VORREI

Giuseppe Gerbino
 
L’obiettivo dal quale partire per fare in modo che un Club sia ed appaia coerente con i principi del Rotary (e anche con quelli del buon senso comune) deve essere – a mio avviso – la forza intrinseca, l’energia che promana dal suo interno, l’armonia che si deve e si può creare fra i Soci.
L’ideale dell’amicizia è un fine (per l’appunto) ideale, giacchè il valore che ho sempre tributato al concetto di Amicizia è forse eccessivamente elevato per renderlo principio effettivo di vita rotariana; ma la realizzazione di un gruppo di uomini e donne che si piacciono (o, quantomeno, non si dispiacciono), che hanno piacere di stare insieme, che vivono l’appuntamento periodico come un momento gradevole, come un’oasi nel deserto della propria giornata, che trovano e cercano nei soci del Club condivisione, reciproco conforto, calore umano, cordialità e un sorriso (secondo quanto predica anche il Governatore Giovanni Vaccaro): questo è un obiettivo a portata di mano, al netto del carattere e delle inclinazioni di ciascuno di noi, che vanno rispettate e – se del caso – tollerate.
Sarebbe assai gratificante che ciascuno di noi potesse diventare un punto di riferimento per gli altri: niente altro che quello per cui Paul Harris pensò di costituire un gruppo di uomini che potessero colmare la sua solitudine e i disagi di quel tempo.
Dopo tanti di anni di militanza nel nostro meraviglioso Club posso dire che in diversi casi ciò è successo: io stesso ho intessuto diversi rapporti di profonda consuetudine con persone enormemente diverse e distanti da me (penso ad Alfredo Spatafora, ad Elio Balsamo, a Ciccio Mistretta, che mi hanno onorato della loro amicizia).
Solo nel Rotary ciò poteva realizzarsi. L’ho sempre considerato la “magia” del Rotary.
Se il rotariano non può e non deve sentirsi solo nel mondo, a maggior ragione ciò non può e deve succedere (anche se spesso succede) all’interno di uno stesso Club.
Ciascuno di noi non deve dimenticare che i Club sono organizzati per classifiche professionali: ciò significa che all’aspetto umano e sociale non può non giustapporsi (a maggior ragione in questo difficile momento storico ed economico) un altro determinante cemento, la valorizzazione delle singole professionalità, che ciascuno di noi deve avere ben presente e deve veder valorizzato in quell’ottica del divenire ~ per quanto possibile – punto di riferimento gli uni degli altri.
Se non riusciremo, da qui e per i prossimi anni (approfittando anche di un non indolore cambio generazionale), a realizzare ciò, sarà vano perseguire altri obiettivi estranei ed esterni alla stessa vita e natura del Club, perchè saranno espressione solo di singole iniziative, buone magari a scopi nobili, ma che avranno trascurato ed ignorato cosa è UN CLUB.
Il Rotary non è uno show, non è una fabbrica di eventi, nulla vende, nulla deve mostrare e dimostrare.
l Soci devono avere il gusto di incontrarsi periodicamente, senza curarsi di chi sarà il relatore della serata o il tema da trattare: mi piacerebbe che molti incontri potessero persino non avere temi o relatori, che fossero destinati solo ed esclusivamente al piacere di stare insieme, di parlare, di godere gli uni degli altri, di confrontarsi, di scambiare le proprie opinioni. Solo così si può pensare a rendere veri ed autentici rapporti che altrimenti rimarranno confinati ai margini della vita del sodalizio.
La creazione e il consolidamento del gruppo è stato il segreto che (in tempi ormai lontani) ha reso il Rotary Club Palermo Est un modello di forza inimitabile ed ineguagliato, che ancora oggi costituisce onore e vanto per tutti noi, e non solo.
Le mie energie di rotariano di Palermo Est saranno impegnate in modo assoluto allo sviluppo e al rafforzamento dei rapporti fra i Soci, che hanno le qualità per far si che il Club divenga ancor di più un rassicurante e confortevole albergo umano da vivere con gioia ed entusiasmo. Per avere ogni giorno la consapevolezza di non essere soli.

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NUOVI SICILIANI CRESCONO?
Davide Camarrone, Antonio La Spina
 
“Sviluppo contro” è il tema di una serie di conferenze promosse dal Rotary Club Palermo Est per condurre una riflessione approfondita e a più voci sulla necessità di invertire una pericolosa tendenza all’impoverimento intellettuale e sociale della città di Palermo e più in generale della nostra Regione.
E ripresa l’emigrazione. Fuggono i nostri giovani. interi condomini si svuotano. Non consideriamo pregiudizialmente negativa l’aspirazione dei nostri giovani a trovare altre opportunità di studio e di lavoro all’estero. Il dato della necessità ci preoccupa, certo. Ma allo stesso tempo, riteniamo di dover operare affinché anche questo processo possa in tempi brevi determinare positive conseguenze anche sulla nostra Isola: affinché i nostri figli possano utilizzare cognizioni e culture per il rinnovamento della Sicilia.
Occorre anche guardare ai processi migratori in entrata. L’arrivo di giovani e di giovani famiglie è una buona notizia perla Sicilia. Non solo per la possibilità di riempire i vuoti creati dalla nostra migrazione verso altri luoghi d’Europa e del mondo, ma anche per la modernizzazione indotta dal dialogo interculturale, dal ritorno – non solo simbolico ~ della nostra città e della nostra Isola al periodo aureo che precedette il buio dell’Inquisizione, della reductio ad unum operata con la cancellazione di culture e religioni differenti: periodo aureo che ebbe positive conseguenze per secoli, economicamente e culturalmente.
Come è noto, la situazione del mercato del lavoro attraversa un momento molto difficile. La tendenza è poi più grave al Sud, e ancor più grave tra le fasce giovanili. Ciò è in parte conseguenza della crisi esplosa negli Stati Uniti e poi propagatasi in Europa (cui si sono poi aggiunte crisi locali, come quella greca e irlandese). È possibile che nel 2014 il Pil italiano ricomincia crescere, sia pure in misura modesta. Ma è assai improbabile che ciò avvenga in Sicilia, e anche alcune proiezioni ottimiste ritengono che, seppure ciò avvenisse, non porterebbe con sé una veloce ripresa dell’occupazione. Anzi gli occupati continuerebbero a calare.
A parte la crisi, vi sono altri fattori che operavano e opereranno a prescindere da essa: la ridefinizione dei rapporti di forza tra le grandi potenze nell’economia mondiale; l’esodo verso paesi a più basso costo del lavoro di molte possibilità occupazionali; la scarsa capacità innovativa del sistema economico italiano; la tendenza di molti giovani a scegliere percorsi formativi e di vita che rinviano molto in là la scelta lavorativa, o fanno perdere di vista la necessità di avvalersi della formazione per migliorare la propria occupabilità; la sovrabbondanza di laureati; la carente capacità di molte università di calibrare la loro offerta formativa sui fabbisogni del mercato del lavoro.
A tutto ciò si aggiunge lo specifico meridionale e siciliano: la pletoricità del settore pubblico; le distorsioni continue della domanda e dell’offerta di posti di lavoro; il peso dell’intermediazione politicoclientelare; un tessuto produttivo asfittico, spesso tradizionale, poco capace sia di creare nuova occupazione che di assorbire manodopera qualificata; enormi sprechi di opportunità (quali i fondi comunitari) che altrove hanno creato sviluppo; altre distorsioni legate a vari tipi di fenomeni illegali e criminali.
Occorre ipotizzare una strategia di sviluppo, ma è bene anche dirsi con franchezza che allo stato attuale lo sviluppo e i suoi protagonisti si trovano a dover fronteggiare numerosi ostacoli. A parte quelli suddetti, vanno ricordati in particolare l’arretratezza di un sistema amministrativo incapace di far fronte alle richieste che vengono dalla società civile, e sempre più filtro e accentratore di risorse per la propria stessa sopravvivenza; un sistema politico spesso subalterno alla burocrazia e legato spesso ad interessi di pochi; ma anche l’inadeguatezza di un ceto politico che continua a pensare di restare ancora centrale distribuendo in modo clientelare risorse pubbliche che oggi invece sono sempre più scarse (anche a seguito degli eccessi passati).
La Sicilia non vive una condizione di sottosviluppo per la propria posizione geografica di marginalità o per l’assenza di infrastrutture viarie o comunque pesanti: queste condizioni sono state modificate in profondità dalle rivoluzioni indotte dalla comunicazione telematica e dai nuovi sistemi di trasporto, e dunque, pesano meno e potrebbero esser modificate con investimenti meno gravosi che in passato.
La Sicilia vive una condizione di sotto sviluppo per il suo mantenersi ai margini di un processo che sta rivoluzionando il mondo, per il non saper mettere a frutto le proprie intelligenze, per il viversi – oggi come ieri – in una condizione di irredimibilità. Servono idee nuove.
Serve ascoltare la Sicilia che, contro la burocrazia e la politica, contro vecchie consuetudini e vecchi atteggiamenti, dialoga con il Sud e il Nord del mondo, progetta e realizza modernità.
La prima conferenza ha avuto come titolo “Nuovi siciliani crescono?”, con un punto interrogativo finale che è servito da stimolo al dibattito. l nuovi siciliani sono i nativi che guardano ad orizzonti più ampi quanto i migranti che scelgono di vivere la loro vita in Sicilia.
A Palermo sono 125 oramai le comunità e 100 le lingue che ordinariamente si parlano. Consideriamo questo una grande ricchezza.
Abbiamo, nelle riunioni del gruppo di lavoro coordinato dal Prof. Michele Masellis, raggiunto un comune sentire su questi temi e deciso insieme di escludere forme di dibattito che possano costituire passerelle per politici e rappresentanti di categorie le più diverse.
Abbiamo scelto che ad intervenire, in forma dinamica, in dibattiti coordinati da esperti, siano protagonisti di storie concrete. E in questo primo incontro, abbiamo ospitato un imprenditore di successo, due giovani editori, un medico che ha scelto di tornare al lavoro della terra (autore di un progetto di successo), una pubblicitaria di ritorno da Milano, un migrante imprenditore a Palermo, e il Sindaco di Palermo, Prof. Leoluca Orlando, per la sua formazione multiculturale e per il suo progetto multiculturale di governo della città. Sono intervenuti anche gli autori di questo articolo, Davide Camarrone e Antonio La Spina, il presidente del Rotary Club Palermo Est Giacomo Fanale e il presidente della commissione Michele Masellis.
Sono stati invitati a sedere in platea esponenti delle diverse associazioni professionali e imprenditoriali, nonché dei sindacati, dell’Università e delle istituzioni. Il pubblico presente ha potuto brevemente prender la parola alla fine del dibattito, e tra gli intervenuti vi sono stati anche il nostro consocio Nino Salerno, imprenditore ed esponente di Confindustria, ed i segretari regionali di CGIL, CISL e UIL.
La conferenza è stata ospitata presso la Camera di Commercio, e alla comunicazione degli eventi, ha lavorato un esperto, individuato grazie alla collaborazione e all’esperienza del nostro consocio Rino Alessi.
Proponiamo la costituzione di una commissione permanente interna al Club che possa affrontare con costanza questi temi, e rivolgersi alla città in modo critico e con un approccio contemporaneo.
Tale commissione permanente erediterebbe il lavoro svolto dalla Commissione per l’orientamento professionale, espandendone l’ambito. L’orientamento nei vari sensi del termine resterebbe comunque centrale. Esso dovrebbe esplicarsi in diversi momenti della vita della persona, facilitando l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.
Ciò che un potenziale lavoratore offre, peraltro, è un’entità dinamica, soggetta a continue e talora profonde trasformazioni. Ad esempio, vi sono soggetti che si offrono di lavorare come camerieri, collaboratori domestici, badanti, baby sitter, ritenendo che, vista la loro qualificazione e/o la loro disponibilità, occupazioni del genere corrispondono alle proprie aspettative. Ovvero possono esservi, poniamo, studenti universitari i quali, per mantenersi agli studi, ricercano tali occupazioni, aspirando ovviamente ad occupazioni differenti una volta conseguita la laurea. O ancora può darsi il caso di un lavoratore qualificato (come ad esempio un medico, o un ingegnere) il quale accetti, per convenienza o per necessità, un impiego assai meno qualificato di quello cui potrebbe in teoria aspirare. Ad esempio, un immigrato laureato può trovare conveniente fare il collaboratore domestico, perché nel proprio paese non troverebbe un’occupazione conforme o al proprio titolo, o anche perché, ove la trovasse, guadagnerebbe significativamente meno di quanto guadagna in Italia da collaboratore domestico, Oppure un laureato italiano potrebbe accettare un posto di operatore ecologico (perché magari una singolare normativa, di stampo medievale, prevede che questo possa trasmettersi di padre in figlio), preferendo uno stipendio sicuro in un settore sostanzialmente pubblico (al di là della natura giuridica formale dell’azienda che si occupa di rifiuti) all’alea di una libera professione.
Quando un potenziale lavoratore aspira ad una certa occupazione e un potenziale datore di lavoro è in cerca di chi possa svolgere certe mansioni, l’orientamento serve a favorire il contatto. Ma quando vi sono potenziali lavoratori che si accingono a spendere tempo e risorse in percorsi formativi che presumibilmente non daranno uno sbocco lavorativo adeguato, oppure esistono datori di lavoro che cercano figure professionali che non riescono a trovare, l’orientamento è ancora più importante, perché dovrebbe aiutare i potenziali lavoratori (specie se giovani), prima che essi si caccino un vicoli ciechi, a individuare vie che sfocino in occupazioni quanto meno soddisfacenti (se non totalmente gratificanti). Occorre quindi sia orientare il soggetto nella ricerca del lavoro, sia orientarlo nella valutazione critica dei percorsi formativi (scolastici, di formazione professionale, universitari, post-laurea, on the job) che potrebbe intraprendere, sia coinvolgere le imprese, le professioni, le pubbliche amministrazioni competenti.
Tra le azioni ipotizzabili si possono menzionare le seguenti:
• l’analisi e la pubblicizzazione nelle sedi opportune dei dati relativi ai fabbisogni professionali dei datori di lavoro (avvalendosi di fonti quali Excelsior, Isfol, Istat);
• l’analisi e la pubblicizzazione dei dati relativi alle difficoltà di inserimento e ai flussi migratori riguardanti i giovani meridionali, specie laureati (avvalendosi di fonti quali Svimez e Istat);
• iniziative, del tipo di quella sullo “Sviluppo contro” delineata prima, che riguardino il delicato e attuale tema della fuga e del rientro dei cervelli, da inquadrare nella specifica prospettiva dell’orientamento professionale (tenendo presente che a monte di tale fuga potrebbero esservi state, in parte, scelte sbagliate da parte delle istituzioni formative, dei discenti, delle politiche del lavoro, delle politiche volte alla promozione dello sviluppo);
• iniziative che vedano coinvolte le istituzioni pubbliche o sostenute dalla mano pubblica, quali l’amministrazione regionale nelle sue varie articolazioni e i comuni;
• iniziative rivolte ai giovani (attraverso la collaborazione con le istituzioni scolastiche), volte a diffondere la capacità di valutazione preventiva e realistica degli sbocchi lavorativi dei diversi percorsi formativi;
• iniziative che illustrino la configurazione e gli andamenti del mercato del lavoro europeo.

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