Democrazie
EDITORIALE ANTONINO SALERNO Presidente Rotary Club Palermo Est
Scriviamo in questo numero di Democrazia e di Pace. Un binomio che infonde speranza e serenità per il futuro dei popoli e che, nell’epoca che stiamo vivendo, è messo a dura prova dagli eventi.
Vorrei volgere il mio pensiero al popolo tunisino, così poco distante dalla nostra Isola e dall’Europa: popolo che sta faticosamente cercando di coniugare Pace e Democrazia affrontando ostacoli e sacrifici enormi.
Il popolo Tunisino è insorto appena due anni fa, e in modo meno cruento rispetto ad altri territori, per intraprendere coraggiosamente un difficile cammino democratico.
L’omicidio politico di Chockri Belaid, il leader dell’opposizione, è un fatto gravissimo. La transizione si è rilevata più difficile del previsto ed esiste il pericolo di una deriva autoritaria. Si rischia che il Paese possa entrare in una fase molto pericolosa, resa più grave dalla difficile situazione economica.
L’Occidente ha delle responsabilità: per anni, ha confuso la stabilità con la democrazia, fingendo di non accorgersi che in Tunisia si erano susseguite delle dittature.
Era possibile esercitare legittimamente una pressione per indurre a riforme democratiche, non solo attraverso la cooperazione economica ma anche attraverso una cooperazione politica.
Oggi, l’Europa può e deve avere un ruolo di primo piano nell’accompagnare questi popoli al raggiungimento di obiettivi di integrazione economica e politica con realtà più avanzate.
Anche l’informazione e la comunicazione rivestono un ruolo di primo piano, ed oggi sono chiamate a svolgere un ruolo educativo, non solo diffondendo notizie di cronaca ma anche approfondendo le questioni vitali di ogni Paese.
Anche il Rotary può avere un ruolo e dare un contributo, diffondendo sempre di più i valori che da sempre animano il nostro sodalizio: l’amicizia, la fratellanza, la cooperazione.
EDITORIALE DAVIDE CAMARRONE Coordinatore editoriale
Cari amici, torniamo tra le vostre mani dopo un lungo periodo di sosta. Tempo che ci auguriamo sia stato fruttuoso per quel che scriviamo e per la vostra lettura.
Serve però qualche parola per dire di questo che chiameremo intervallo.
Una rivista, per un club service come il nostro, non è un cadeau natalizio, un fiore all’occhiello, un obbligo di cui far vanto. È un’opportunità offerta al Rotary, al nostro club, a ciascuno di noi, per mettere alla prova la nostra reale volontà di partecipare al cambiamento che si chiama Presente.
Ora, crediamo che ciascuno di noi avverta il Tempo presente nel modo più opportuno: come un tempo tumultuoso e affascinante, ricco di pericoli così come di buone opportunità.
Il far parte di un club service mette ciascuno di noi nella condizione invidiabile di godere di un punto di vista interessante, e di poter far tesoro della propria e delle altrui esperienze allo scopo di contribuire, nel modo migliore, al cambiamento.
La nostra rivista è al suo quarto numero. Ambienti, Burocrazie, Culture, Democrazie. Il quinto sarà dedicato alle Energie. Temi che, declinati al plurale, possono costituire delle utili chiavi di lettura del nostro tempo.
Il numero dedicato alle Democrazie dice della partecipazione dei cittadini e dei sistemi normativi, della loro adeguatezza ai tempi nuovi e alle mutate condizioni sociali, del passato e del futuro, e dunque del presente. Non si limita ad astratte considerazioni ma affonda la lama fin nella stretta attualità. Speriamo di aver fatto bene.
Le difficoltà che hanno accompagnato il venire al mondo di questo numero ci insegnano due cose: questa rivista ha senso se tutti noi la sentiamo nostra e contribuiamo a pensarla e a realizzarla; questa rivista ha senso se il suo farsi è occasione, per tutti noi, di dibattito di idee.
Tutti noi crediamo che il Rotary possa e debba rinnovarsi, differenziando i suoi temi e gli approcci al confronto.
ln questo numero, il nostro consocio Rino Alessi espone le sue idee al riguardo.
Tutti noi crediamo che il Rotary sia un luogo d’eccellenza: e lo dimostra la conversazione tra Mario Fasino e Antonio La Spina, così come lo dimostrano le acute riflessioni di Silvano Bigazzi e Guglielmo Serio.
Sugli interventi dell’autore di questo editoriale (che qui sintetizza il dibattito avvenuto in redazione), non dico ovviamente nulla.
Aggiungo solo che una nuova redazione si è costituita, e confidiamo sia il miglior auspicio per questa avventura editoriale, che conferma il progetto iniziale di un’enciclopedia della modernità e riparte dall’appello a tutto il club, a considerarla propria.
DEMOCRAZIA E SISTEMI GIURIDICI SILVANO Bigazzi
L’art. 1 della nostra Costituzione Ci dice che “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” e che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
È stato osservato (Barile) “che una definizione giuridica della democrazia non esiste, e che la parola esprime (_..) un concetto esclusivamente politico” (1).
Ma di tale termine può darsi il senso giuridico, facendo riferimento ad una data concezione politica “condizionata nel tempo e nello spazio, storicamente delimitata”.
Certamente il lavoro dei nostri Costituenti, dal 1946 al 1948, non poteva che risentire della situazione politica che si era determinata: l’Assemblea Costituente era composta in gran parte dai partiti del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) l. Dato che 556 deputati erano ovviamente troppi, fu costituita la “Commissione dei 75”, che dopo mesi di intenso lavoro portò il progetto all’Assemblea costituente, che in 173 sedute lo discusse, approvandolo, come è noto, il 22 dicembre 1947.
La Costituzione entrò in vigore il primo gennaio 1948.
Le linee guida che si confrontarono furono quella del Partito d’Azione, che avrebbe voluto una riforma integrale dello Stato, con
“L’Assemblea costituente, eletta il 2 giugno 1946, “(…) risultò formata per tre quarti dei suoi 556 membri da rappresentanti dei tre maggiori partiti del Cln: la Democrazia Cristiana (35,2% dei voti, 207 seggi); il Partito socialista italiano (20,7% dei voti, 115 seggi); il partito comunista italiano (18,9% dei voti, 104 seggi).
Più esigua la rappresentanza dei gruppi di matrice liberale (Unione democratica nazionale e Blocco Nazionale della libertà…del Partito Repubblicano…e del Partito d’Azione; 30 seggi ebbe la destra dell’Uomo Qualunque, avversa alla politica dei partiti antifascisti” (Onida) (4).
la eliminazione di norme oligarchiche o autoritarie (A. Garosci; Guido Calogero) (2, 2bis); e quella dei c.d. partiti di massa, democristiano e comunista, che, “anche a costo di una certa continuità istituzionale, ritenevano che si dovesse dare la precedenza ai problemi della ricostruzione…”; ma, in sostanza, il risultato finale fu positivo, “sia perché venne sancito innanzitutto il principio fondamentale della tradizione democratica, che è la separazione dei poteri, e assicurato il loro reciproco equilibrio, sia perché vennero garantiti sotto ogni profilo le libertà e i diritti individuali” (Castronovo) (3).
È importante peraltro notare come, nonostante la preponderanza dei tre partiti principali, il prodotto costituzionale ha risentito, positivamente, di un altro compromesso, in cui vi è stato l’influsso “(…) di gruppi numericamente più limitati, ma portatori di tradizioni cospicue” (Onida) (4), con personalità quali Calamandrei, Einaudi e Ruini.
Tuttavia quel lavoro, intenso e proficuo, fatto da persone di indubbio spessore culturale, oltre che politico, ha retto – egregiamente a mio avviso – nelle sue strutture portanti, al decorso del tempo ed ai mutamenti – ideologici, politici, economici – intervenuti a livello globale.
La difesa dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali (libertà civili e libertà politiche); la tutela delle minoranze, della libertà ed eguaglianza dei cittadini, sono concetti che fanno ormai parte del comune sentire, ma sono il risultato di concezioni storiche e politiche che hanno avuto evoluzioni profonde, a partire dall’antichità sino ai tempi più recenti. Molte trovano la comune matrice nella Rivoluzione francese; ma a sua volta questa può affondare le radici in quelle, sovente incrociantesi, del giusnaturalismo di Grozio e del “prudente sensismo” (Piovani) (5) di Locke, del costituzionalismo di Montesquieu e del contrattualismo sociale di Rousseau. In sintesi, nell’esprit du siècle, il XVlll, imbevuto di razionalismo e di naturalismo, che spezza il matrimonio mistico tra Re e Nazione, ripudia la gerarchia degli ordini e delle corporazioni (Chevalier) (6), introduce una libertà “democratica” al posto di quella, individualistica ed aristocratica, che era privilegio di pochi.
L’attuazione e la regolamentazione, in concreto, di tali concetti, hanno peraltro temperato il sogno di un “universalismo” (Calasso) (7) realizzato attraverso formulazioni codicistiche (in particolare, quella napoleonica); ma hanno al contempo indotto i legislatori dei vari Stati quanto meno ad una valutazione comparatistica delle norme costituzionali; e se la creazione di un diritto comune legislativo, la unificazione internazionale del diritto, dopo la seconda guerra mondiale, hanno incontrato difficoltà realizzative, quanto meno la ricerca costante di una “armonizzazione dei diritti’I rappresenta il frutto ed il merito di una impostazione comparatistica delle legislazioni nazionali, per una migliore reciproca comprensione tra gli stati.
È stato detto che il valore giuridico dei “principi fondamentali”, e dei “diritti e doveri dei cittadini”, ove positivizzati, “è massimo sotto il profilo della caratterizzazione del regime: si tratta infatti di principi che determinano i fini fondamentali dello Stato e quindi del legislatore, cioè il modo di essere di un regime e la sua linea di sviluppo”.
Nel caso della nostra Costituzione, il fatto nuovo che la caratterizza, come in genere “tutte le costituzioni contemporanee, a partire da quelle del primo dopoguerra, è il seguente: accanto ai tradizionali diritti di libertà vediamo comparire i c.d. diritti sociali, (…) definiti come diritti di agglomerati sociali viventi nello Stato a partecipare alla formazione dell’ordinamento giuridico” (Barile) (8).
Sempre secondo Barile, l’inserimento di queste norme nella nostra Costituzione fu dovuto, da una parte, alla forte percentuale di costituenti che i partiti di sinistra usciti dalla guerra mandarono all’assemblea del 1946, dall’altra alla forte influenza che ebbero i discorsi di Roosvelt ”…e soprattutto (il) discorso detto del 7 gennaio 7947”, dove per la prima volta comparivano negli ordinamenti giuridici occidentali ”le libertà da qualche cosa, libertà dal bisogno per esempio. ” (Le altre erano la libertà di espressione, di religione, dalla paura).
Si sono così create, sotto il profilo dei sistemi giuridici contemporanei (almeno a partire dal dopoguerra), delle “famiglie ” in cui gli ordinamenti giuridici delle varie nazioni possono raggrupparsi, anche tendenzialmente.
ln sintesi, e per grandissime linee, si possono individuare (David) (9), nel mondo occidentale, una prima famiglia, romano-germanica formatasi sulla base del diritto romano, ed avente la culla in Europa – in cui le norme giuridiche sono il portato di regole di condotta legate ad esigenze di giustizia e di morale; una seconda famiglia, quella della”common law”, fondata sul diritto inglese e degli stati americani, in particolare, ma con notevoli differenziazioni sia in Europa che fuori. ln questa famiglia è prevalente la formazione giudiziale delle regole, che mirano prevalentemente alla soluzione del caso concreto. Nate dal potere regio nelle corti inglesi, negli Stati Uniti sono state viste favorevolmente come strumento di bilanciamento dello strapotere del legislativo (c.d. “checks and balances’ü, mentre hanno suscitato critiche nella dottrina francese, figlia della Rivoluzione, che voleva invece abbattere “gli abusi dell’esecutivo e dell’autorità giudiziaria” (Cappelletti) (10).
Ovviamente, nel tempo, e per esigenze politiche e di “armonizzazione”, come si è detto, i confini delle due famiglie si sono allargati e confusi, sino a pervenire a situazioni “miste” specie fuori dei confini europei, sia sotto il profilo della struttura costituzionale degli Stati che del controllo di costituzionalità delle leggi, volto alla tutela delle libertà politiche e civili.
Si può poi far riferimento, specie nel secolo precedente, alla famiglia “socialista” in cui le regole di diritto erano esclusivo appannaggio del legislatore che esprimeva” una volontà popolare strettamente guidata dal partito” (David).
Altri sistemi a carattere filosofico-religioso – si direbbe oggi “teocratico” – possono individuarsi nel sistema giuridico musulmano, così come nel diritto indu, in quello ebraico, etc. In essi le prescrizioni giuridiche investono Ilil campo religioso, quello morale, quello delle convenienze, persino quello igienico personale… Tipico il caso dell’antica Cina, chiamata il paese dei riti e dell’etichetta, quasiché essa ignorasse del tutto il diritto. Tutte queste regole sono state dettate per motivi o con giustificazioni religiose o morali, ma al tempo stesso fanno legittimamente parte del sistema giuridico perché in quelle civiltà il bisogno di socialità richiedeva (…) una coesione assai (…) profonda” (Cotta) (1 1 l.
Ma sembra di scorgere, almeno nella famiglia ” occidentale ” lato sensu, una sempre maggiore esigenza di armonizzazione, per l’attuazione concreta dei valori fondanti, ad esempio, la Unione Europea.
Quest’ultima – art. 2 del Trattato di Lisbona – “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, delle libertà, della democrazia, delI’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”: valori comuni agli Stati membri in una società che dovrebbe caratterizzarsi come pluralista, non discriminante, tollerante, giusta.
Valori che comporterebbero sempre maggiori rinunzie, o contemperamenti, degli egoismi nazionali, pur giustificabili in base alle esigenze, economiche e politiche dei singoli Stati – e la situazione attuale delle economie occidentali lo testimonia ampiamente e quotidianamente _ almeno per quelli membri della Comunità europea, ma non solo.
Da qui l’approntamento dei mezzi e delle strutture, sia in sede nazionale che comunitaria, per rendere effettivi i diritti fondamentali, specie nei rapporti tra singoli e Stato, realizzando efficaci strumenti di “equilibrio dei poteri” (Cappelletti ) (12) tra il soggetto privato ed il soggetto pubblico.
ln sede comunitaria, il cammino verso il riconoscimento da parte degli stati aderenti di un diritto “eurounitario” rivolto in specie alla salvaguardia di diritti costituzionalmente protetti quali quelli sopra indicati, passa attraverso la progressiva applicazione dei principi espressi dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) da parte degli Stati aderenti.
Nel nostro caso, la limitazione di sovranità passa attraverso gli artt.
11 e 117, 1° comma, della carta costituzionale. In particolare, si è rilevato, tale norma “…guarda, per così dire, avanti: mentre in genere le Costituzioni nazionali esprimono la rivendicazione e la pienezza di esercizio della sovranità statale, la nostra Costituzione, con l’art. 1 7, rende la vita costituzionale dello stato italiano aperta e, per così dire, permeabile ai poteri sovranazionali, rappresentando un’espressione singolarmente avanzata dell’ispirazione universalistica del costituzionalismo contemporaneo” (Onida) (13).
È stato osservato al riguardo che ciò può far pervenire ad un mutamento nella tradizionale rigida tripartizione dei poteri sul sindacato accentrato della Corte Costituzionale, ponendo il Giudice in un ruolo di preminenza rispetto al legislatore nazionale (Conti) (16). La Consulta ha più volte precisato che nella definizione dei rapporti tra ordinamento nazionale e diritto comunitario il sicuro fondamento è individuabile nell’art.11 Cost., (14) (15) e con esso il riconoscimento della portata e delle diverse implicazioni “della prevalenza del diritto comunitario anche rispetto a norme costituzionali….individuandone il solo limite nel contrasto con i principi fondamentali delI’assetto costituzionale dello stato ovvero nei diritti inalienabili della persona… ” (Conti) (16).
“La Comunità economica europea e l’Unione Europea sono comunità di diritto. La priorità accordata al diritto rispetto ai rapporti di forza, incoraggiata dalla giurisprudenza molto innovativa della Corte di giustizia è una delle caratteristiche specifiche nonché uno dei risutati più notevoli della Comunità europea ” (Goulard-Monti) (17).
Ma appare chiaro che solo in sede di progressiva attuazione”politica” dell’Europa comunitaria e delle sue istituzioni si potrà pervenire ad una definizione di democrazia che superi anche la classica tripartizione dei poteri, “garantendo che, in ogni circostanza, I’interesse generale europeo (prevalga) sull’interesse nazionale”; che superi, in sostanza la pericolosa permanenza di virus nazionalisti (GoulardMonti) (i 8) che appesantiscono il cammino verso un “ordinamento” (politico, giuridico, sociale) europeo.
Il tema è assai vasto ed esula dalle competenze _ e dalle forze – di chi scrive. Ma pare di poter concludere che il progressivo accostamento, la progressiva “armonizzazione” che una sempre più convinta adesione – politica, economica, culturale – degli Stati all’ideale “Europa” possa, almeno tendenzialmente, fornire una risposta a quella tendenza all’“universalismo” che ha costituito nei secoli precedenti il sogno di una regolamentazione di libertà “democratiche”.
Riferimenti bibliografici:
(1) BARILE, PAOLO, Corso di diritto costituzionale, Padova, CEDAM, 1964, pagg. 42-54.
(2) CAROSCI, ALDO, Verso una società liberalsocialista, Quaderni del Partito d’Azione – n. 15 – 1943-1944.
(2 bis) CALOGERO GUIDO, La Giustizia e la libertà, Saggio sul liberalsocialismo del Partito d’Azione, Quaderni Liberi, Roma 20 febbraio 1944.
(3) CASTRONOvO VALERIO, I cinquant’anni della Repubblica italiana, in: Economia italiana – Storia Economia e Società in Italia – 1947-1997, Banca di Roma, 1997 nn. 1/2, pagg. 35-41.
(4) ONIDA VALERIO, La Costituzione, Bologna, Il Mulino, 2004, pagg. 30-31.
(5) PIovANI PIETRO, Linee di una filosofia del diritto – Padova, CEDAM,1958, pagg. 104-105.
(6) – CHEvALIER J. J., Histoire des insititutions et des regimes politiques de la France Moderne (1789-1958), Paris, Dalloz, 1967, pagg. 8 ss.
(7) CALAssO FRANCESCO, Medio Evo del diritto, 1°, Le fonti, Milano, Giuffré, 1954, pagg. 367-391.
(8) BARILE PAOLO, Le libertà nella costituzione, Padova, CEDAM, 1966, pagg. 18-23 (9) DAVID RENÉ, I grandi sistemi giuridici contemporanei, Padova, CEDAM, 1967, pagg. 15-23.
(10) CAPPELLETTI MAURO, Il controllo di costituzionalità delle leggi nel diritto comparato, Milano, Giuffré, 1968, pag. 86.
(1 1) COTTA SERGIO, Primi orientamenti di filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 1966, pagg. 124-127.
(12) CAPPELLETTI MAURO, La giurisdizione costituzionale delle libertà, Milano, Giuffré, 1955- pagg. 134-135.
(13) ONIDA VALERIO – La Costituzione, cit., pag. 117.
(14) Art. 11 Costituzione Italiana: ”L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
(15) Art. 117, 1o comma, Costituzione Italiana: l(La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali . (Articolo nella stesura sostitutiva dell’art. 3 L. cost.18 ottobre 2001, n. 3).
(16) CONTl ROBERTO, La Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, Il ruolo del Giudice, Roma, Aracne editrice – l ed., marzo 2011.
(17) GOULARD SYLviE – MONTI MARIO, La democrazia in Europa – Guardare lontano – Milano, Flammarion – Rizzoli, 2012, pag. 175.
(18) GOULARD-MONTI, cit., pag. 23.
QUANTO PEsA IL cITTADINO: LE DIVERSE vIE DELLA PARTECIPAZIONE IN DEMOCRAZIA ANTONIO LA SPINA
La partecipazione elettorale In democrazia vi sono diverse modalità e diversi luoghi della partecipazione. Dal momento che tutti i regimi democratici Oggi esistenti sOnO democrazie rappresentative, Ia prima forma di partecipazione che va menzionata riguarda la procedura di scelta dei rappresentanti del popolo, vale a dire la partecipazione elettorale. Si tratta di un tema che meriterebbe da solo un’estesa trattazione, mentre in questa sede mi limiterò (volendo dedicarmi anche e soprattutto agli altri canali di partecipazione) alla differenza tra sistemi elettorali proporzionali e maggioritari, nonché al significato dell’astensionismo.
Il sistema proporzionale sembra a prima vista quello meglio in grado di attrarre la partecipazione. Infatti, se vi sOnO tanti partiti o comunque liste per quanti sono gli Orientamenti presenti nell’elettorato, a eccezione di chi è del tutto disinteressato O apatico, moltissimi cittadini andranno a votare, poiché ciascuno di essi si riconoscerà fortemente in una delle formazioni politiche in campo. Infatti nella prima Repubblica italiana l’affluenza alle urne era massiccia. Ciò in misura minOre se vengono introdotti correttivi quali ad esempio una clausola di sbarramento (alla tedesca) al 5%. Ma anche in tale ipotesi, l’elettore troverebbe comunque il più delle volte sulla scheda simboli nei quali potrà identificarsi: certe sigle si apparenteranno tra lOrO per superare lo sbarramento e comunque, anche quelle che non arriveranno alla soglia, avranno sollecitato una partecipazione.
D’altro canto, partecipare non è soltanto riconoscersi in una linea, in un simbolo, in una personalità. È (o può essere) anche pesare nelle scelte che poi i rappresentanti andranno a compiere. Ecco dunque che il proporzionale puro o con il solo correttivo dello sbarramento dà sì largo spazio al voto simbolico o espressivo (che cioè esprime certe appartenenze, sensibilità, inclinazioni), ma purtroppo lo fa pesare pochissimo. Saranno gli eletti, infatti, ex post facto a fare e disfare maggioranze e programmi di governo. L’elettore ha partecipato, ma chi è stato designato grazie al suo voto avrà poi le mani alquanto libere.
lnvece i sistemi maggioritari, nelle loro varie forme, sacrificano in qualche misura (sebbene non sempre) il voto identificato, ma danno un peso assai maggiore alla scelta del singolo elettore. Le alternative politiche tendono a semplificarsi, e dalle urne esce (se il sistema non è pasticciato) una chiara indicazione, coerente con la volontà della maggioranza del corpo elettorale. Lasciamo da parte il maggioritario secco, che può condurre in certi casi a far governare chi ha preso più seggi pur avendo preso meno voti, il che si è verificato anche in altre forme di maggioritario. Le forme più interessanti di maggioritario, o di mix tra maggioritario e proporzionale, sono quelle che tutelano la diversità delle forze in campo: il maggioritario a doppio turno, nel quale l’elettore al primo turno vota la lista cui si sente più vicino, e al successivo comunque una coalizione che la include, ovvero il proporzionale con un ragionevole premio di maggioranza. Solo in ltalia si poteva riuscire ad optare per tale seconda soluzione con riguardo alla camera dei deputati, sconfessandola nella medesima legge (nota come “porcellum”) per l’elezione del senato, ove il premio di maggioranza è su base regionale, anziché nazionale. Sicché, come è noto, diviene altamente probabile – anzi, la legge fu escogitata proprio in tale prospettiva – che una coalizione consegua una buona maggioranza alla camera dei deputati (talora peraltro eccessiva rispetto ai voti effettivamente ottenuti), ma non al senato.
Pertanto, se questa eventualità si verifica, il voto del nostro elettore desideroso di pesare un po’ (come è suo diritto) nella vita del paese torna a essere assai poco pesante. lnoltre, l’attribuzione distorsiva dei premi di maggioranza tipica del porcellum ne contraddice la funzione aggregatrice. Anziché produrre due grandi coalizioni che si fronteggiano, produce anche reazioni di ribellione alla casta e ai nominati, come quella di M55, nonché nuove iniziative politiche che trovano un proprio spazio, come Scelta civica.
l sistemi maggioritari “secchi,I del tipo di quello statunitense si associavano in passato (ma meno in tempi più recenti, come dico tra poco) a una scarsa affluenza alle urne. ln parte perché se vi sono in sostanza solo Democratici e Repubblicani a giocarsi la partita, chi non si riconosce né negli uni né negli altri non andrà a votare, con ciò manifestando il suo dissenso verso il sistema. Può però anche esservi una forma di astensionismo non di protesta, bensì apatico.
Molti elettori non votano (o non votavano), pur riconoscendosi nel sistema rappresentativo statunitense, non essendo fortemente motivati e anche perché convinti che il sistema stesso andrà comunque avanti in modo soddisfacente, chiunque vinca. Come dicevo, nel XXI secolo ciò vale molto meno che nel Novecento, poiché vi sono contrapposizioni assai nette tra le diverse idee del bene comune e dell’interesse nazionale (si pensi ai duelli Gore/Bush o a quelli Obama/McCain e Obama/Romney), le quali infatti hanno prodotto una netta diminuzione degli astenuti.
Nel nostro paese, invece, succede esattamente il contrario: l’astensione, che era minima nella prima Repubblica, ora talvolta cresce fino al livello allarmante del 53% (56% se contiamo anche le schede bianche e nulle) nelle ultime elezioni regionali siciliane. ln Italia certamente non siamo di fronte ad un astensionismo apatico. O è una manifestazione di dissenso verso il sistema dei partiti (un dissenso che peraltro per una quota ormai non trascurabile di elettori può anche prendere la strada del Movimento 5 stelle), ovvero è un segno di disorientamento: certe fasce di elettorato erano abituate a votare certi raggruppamenti in cui si identificavano, ma oggi non si riconoscono nelle proposte politiche e nei candidati degli eredi di tali raggruppamenti, dunque si astengono. Detto questo, parlare di un “partito degli astenuti” è erroneo: all’interno di chi fa questa scelta vi sono caso mai svariati “partiti”, perché le ragioni dell’astensione sono molto diverse da un elettore all’altro (tratto più estesamente il punto in “Le dinamiche del voto siciliano”, A Sud d’Europa, Vl, 40, 2012).
Altri canali di partecipazione: collegi, concertazione, neocorporativismo, negoziazione inclusiva Da tempo si sente dire che il canale di partecipazione tradizionale di cui al paragrafo precedente è, se non in crisi, quanto meno meritevole di essere integrato da altri canali. Ad esempio, negli anni settanta alla grande esplosione di partecipazione che si era avuta con il sessantotto e poi con l’autunno caldo, si volle dare risposta sia prevedendo rappresentanze elettive in varie sedi (come la scuola o l’università), sia esaltando il ruolo del sindacato (e delle rappresentanze sindacali) nei luoghi di lavoro. Si diede finalmente attuazione alle norme costituzionali sulle regioni a statuto ordinario. Si crearono, nelle città di una certa dimensione, i consigli di quartiere.
Oppure, si ritenne (con la riforma del 1978) di assegnare la gestione delle Unità Sanitarie Locali a comitati composti non da tecnici bensì da soggetti designati dai comuni interessati.
Il bilancio di quegli anni, caratterizzati appunto da tanti slogan sulla partecipazione, non è certo entusiasmante. ln alcuni casi si trattò di riconoscimenti solo esteriori di istanze partecipative, poi poco incisivi nella vita reale delle istituzioni. Nel caso della sanità, in particolare, la scelta fu decisamente perniciosa, tant’è che dopo qualche tempo si dovette riformare la riforma.
Veniamo, più specificamente, al mondo del lavoro. ln molti paesi europei è emerso (ed è stato poi analizzato dai teorici del “neocorporativismo”) un secondo canale di rappresentanza, diverso e parallelo rispetto a quello classico che si esplica al momento delle elezioni. Mi riferisco ai tavoli di concertazione tra organi pubblici, sindacati dei lavoratori e organizzazioni dei datori di lavoro, che hanno preso (formalmente o sostanzialmente) decisioni rilevantisime in tema di salari, mercato del lavoro, previdenza, ammortizzatori sociali, politica economica (si pensi per tutti all’accordo sulla scala mobile). Secondo i fautori del predetto neocorporativismo, tali negoziati hanno avuto il pregio di rendere più governabili le democrazie, ottenendo una certa moderazione salariale dai sindacati come contropartita di politiche pubbliche favorevoli ai lavoratori. Secondo altri così facendo si è spesso scaricato sull’erario pubblico e sulle generazioni future il costo di quegli accordi. Al di là di tali valutazioni, è indubbio che mentre nel primo e autentico canale di rappresentanza tutti i cittadini sono chiamati a partecipare e una testa vale un voto, nel secondo canale solo alcuni partecipano, tramite le loro rappresentanze organizzate: i lavoratori dipendenti sindacalizzati, gli operatori economici iscritti a istanze associative. lntere e sempre più cospicue fasce della popolazione risultano tagliate fuori: i giovani non occupati o precari, il “popolo delle partite Iva”, chi non figura nella popolazione attiva (come la tradizionale casalinga o il più recente Neet, cioè chi non lavora, non studia e non fa tirocinio), e così via. ln definitiva, la concertazione (specie se si esplica in triangoli neocorporativi) fa pesare gli interessi di chi si siede al tavolo, ma al contempo fa sparire, o comunque fa pesare molto meno, gli altri interessi di chi non è previsto che si sieda.
Nelle politiche di sviluppo, sociali o urbane vi sono poi state altre esperienze di programmazione concertata (o negoziata che dir si voglia), come i patti territoriali o i piani di zona oi bilanci sociali. ln questo caso chi partecipa ai “tavoli” non sono soltanto le parti sociali, ma di volta in volta anche gli enti locali, gli organismi del terzo settore, le associazioni professionali, talora le associazioni dei consumatori, quindi anche il “territorio” e la “società civile”. Si parla, al riguardo, di processi decisionali inclusivi. Infatti, essi dovrebbero includere anche quelle categorie di soggetti che restano tagliate fuori dai triangoli neocorporativi. In concreto, non sempre le cose vanno così. Anzitutto, vi sono interessi (come quelli dei poveri, dei giovani, dei soggetti deboli con partita lva o delle generazioni future) che non hanno o non possono avere rappresentanze organizzate, e che quindi non possono sedersi ad alcun tavolo. Inoltre, la dinamica di tali processi decisionali è inclusiva in teoria ma spesso escludente in pratica, giacché solo chi ha le informazioni, la determinazione e le risorse necessarie parteciperà a tali processi, facendo pesare il proprio punto di vista. Molti altri non sono informati, o si sfiancano cammin facendo.
Se poi guardiamo ad alcuni indicatori “duri” di risultato (come lo sviluppo delle aree depresse o il miglioramento delle condizioni di chi è socialmente marginale, o la qualità della vita urbana), vediamo che, soprattutto nel Mezzogiorno, dopo l’impiego di certe negoziazioni lo sviluppo non solo non è decollato, ma poi è andato a regredire, e al contempo la povertà è aumentata.
Democrazia diretta e telematica, reti civiche Accanto alla democrazia rappresentativa resistono in molti paesi, compreso il nostro, alcuni istituti di democrazia diretta, come il referendum o le leggi di iniziativa popolare. Vi sono, come è noto, paesi in cui il ricorso a tali strumenti è frequente e rilevante, soprattutto a livello locale. ln ltalia presumibilmente tutti i comuni e gli altri enti territoriali hanno previsto forme di consultazione referendaria, che tuttavia in concreto sono scarsamente utilizzate. Il referendum nazionale è stato anch’esso tardivamente introdotto (solo quando fu necessario per consentire il voto sulla legge sul divorzio), in forme che non ne favoriscono l’uso e scoraggiano la partecipazione, ed è stato talora inflazionato. Eppure, alcuni punti di svolta nella storia del paese – appunto dalla scelta in tema di divorzio alla scelta a favore del maggioritario che costrinse al passaggio, tutt’ora incompiuto, verso la cosiddetta seconda Repubblica – furono scanditi da referendum. D’altro canto, vi sono stati temi (per tutti, il finanziamento pubblico ai partiti o il servizio pubblico radiotelevisivo; ma l’elenco è lungo) su cui l’esito dei referendum è stato clamorosamente e senza vergogna disatteso.
Si potrebbe credere che, vista l’odierna velocissima diffusione delle nuove tecnologie di informazione e comunicazione, la democrazia diretta sia oggi molto più alla portata di quanto non sia stata in passato. ln effetti, si potrebbe votare frequentemente e con facilità (abbattendo enormemente i costi di seggi, scrutatori, schede cartacee e così via) dal nostro computer o meglio ancora dal nostro telefono cellulare. Che tali nuove forme di comunicazione oggi in politica siano rilevantissime ce lo insegna il successo di figure come Barack Obama che nel secolo scorso avrebbero avuto assai meno speranze di successo. Gli adolescenti (ma anche gli adulti-giovani) certamente guardano assai poco la Tv, mentre frequentano sempre di più Facebook, Twitter, Youtube, i Blog. Ma di adolescenti e giovani ve ne sono sempre di meno (visto il crollo demografico in certi paesi, come I’ltalia), mentre di anziani ve n’è sempre di più (visto l’allungamento della vita media). Di conseguenza ancora per un po’ nel nostro paese la Tv resterà cruciale (come sa chi se ne intende …).
Ma torniamo al tema generale della democrazia “telematica”. La diffusione delle nuove forme di comunicazione non basta, di per sé, a creare nuovi spazi autenticamente democratici. Se si dà la mera possibilità di interagire via Internet, in genere solo in pochi lo faranno.
Lo dimostra il recente andamento delle “parlamentarie’I di M55, cui hanno partecipato pochissime persone, mentre alle primarie del centro-sinistra, pur nuove per l’ltalia, ma più classiche quanto alle modalità organizzative con seggi/gazebi e schede cartacee, hanno partecipato milioni di cittadini.
Se la partecipazione è libera e informale, il mezzo telematico la rende più facile, ma non sistematica. Partecipa comunque chi vuole.
Se invece la partecipazione è richiesta a tutti ed è formalizzata, come in un referendum comunale via rete, allora certamente gli strumenti telematici potrebbero renderla più facile e meno costosa, facendo peraltro attenzione agli specifici rischi di pirateria e di brogli, ma comunque occorre aggregare le preferenze (ad esempio sottoponendo ai cittadini un quesito cui rispondere si o no), il che non è affatto semplice, e pone problemi che vanno ben al di là del mezzo di comunicazione.
Un’esperienza importante è quella delle reti civiche, che da qualche anno va diffondendosi anche in Italia (con qualche caso anche al Sud, tra cui Salerno). Tali reti sono sistemi informativi telematici riferiti ad un’area circoscritta (come un comune, un consorzio di comuni, un’area metropolitiana) ai quali accedono sia i cittadini sia le amministrazioni sia organizzazioni di interessi, associazioni, imprese, tanto per ricevere servizi quanto per fornire informazioni ed interagire, partecipando a dibattiti e processi decisionali. Si tratta quindi di una concretizzazione – o, meglio, di una precondizione – della cosiddetta E-democracy. un concetto accattivante, ma che può rivelarsi molto confuso, se non si pone attenzione nel precisarne il contenuto e i contorni. Tale cosiddetta E-democracy si può esplicare tramite il voto, come ho appena detto ed entro i limiti cui ho accennato, ma anche attraverso altre e più innovative forme, di cui riferisco nel paragrafo successivo.
Democrazia deliberatíva, democrazia consultiva Una tematica molto recente, ma al contempo antica (giacché si riallaccia a esperienze come quella della Polis ateniese) è quella della democrazia deliberativa. Per un verso, ci si riferisce a procedure decisionali aperte ai diretti interessati, quindi tali da superare, in parte, la democrazia rappresentativa (vedremo tra poco che non si tratta di intere popolazioni, ma di “campioni” di esse, e che non si adottano decisioni vincolanti, bensì suggerimenti). Per altro verso, si sottolinea il fatto che le scelte si fondano più sul confronto tra argomenti che sulla logica (talora schematica, se non brutale) della maggioranza che si impone sulla minoranza. Si pone poi il problema dei rapporti tra ciò che si determina in sede l’deliberativa”, da un lato, e le istituzioni rappresentative e i loro atti, dall’altro.
Esempi di democrazia deliberativa sono le citizens’juries (o panels), le citizens’ assemblies, le consensus conferences, i deliberatíve pollings o i town meetings. Vediamoli nell’ordine. Le “giurie di cittadini” sono piccoli gruppi di cittadini estratti a sorte che ascoltano, su questioni specifiche di interesse collettivo (ad esempio su incarico di un’amministrazione comunale), dei testimoni privilegiati. La giuria poi discute al proprio interno e perviene a una sintesi. Vengono chiamati in causa anche degli esperti della materia, che non interferiscono sui lavori della giuria, ma possono interloquire sul report di sintesi. Le “assemblee di cittadini” invece sono fatte di componenti estratti a sorte, che dibattono tra loro un tema di interesse pubblico (come ad esempio il sistema elettorale). l “dibattiti volti a raggiungere un consenso’I invece sono serie di riunioni tra un gruppo autoselezionato di cittadini su un tema nuovo e controverso di interesse pubblico, che quindi non partecipano perche estratti, ma perché sono interessati all’argomento. l “sondaggi deliberativi” si svolgono invece attraverso questionari somministrati a campioni casuali rappresentativi di una popolazione. Tali soggetti sono poi riuniti in piccoli gruppi e si chiede loro discutere i problemi sul tappeto, sulla base di materiali che vengono loro forniti. Le “riunioni cittadine”, infine, sono forme di vera a propria democrazia diretta, e si sono avute per secoli nei paesini del New England.
Tali differenti forme di democrazia deliberativa tentano in vario modo di raccogliere e far pesare le opinioni di gruppi di cittadini indotti a confrontarsi tra loro argomentando. Ad eccezione dei town meetings, si tratta peraltro sempre di procedure che non si concludono con provvedimenti collettivamente vincolanti, bensì con pareri/suggerimenti rivolti agli organi pubblici, che potranno recepirli, anche se non necessariamente. La democrazia deliberativa, resa certamente più agevole nel suo svolgimento concreto dalle nuove tecnologie, è dunque in genere un complemento della democrazia rappresentativa, non un suo sostituto. Quasi sempre, pertanto, quella deliberativa è anche una democrazia consultiva, che quindi consiglia, indica, ma non decide. Va anche detto che i processi argomentativi sono congegnati in modo da pervenire ad un’indicazione univoca. Ma non va nascosto che molto spesso possono esservi opinioni fortemente divergenti tra loro, che tali rimangono.
Vi sono poi altre forme di democrazia consultiva (in cui l’elemento deliberativo è meno pronunciato), che si hanno quando un’autorità pubblica, che potrebbe essere un’assemblea legislativa, un ministero, un ente territoriale, un’autorità indipendente e così via, adotta linee strategiche e/o vuole valutare il proprio funzionamento, e nel far ciò consulta i propri utenti, i destinatari potenziali o attuali delle proprie decisioni, gli stakeholders in genere, per conoscere il loro punto di vista su quello che potrebbe essere o, a seconda dei casi, è già stato l’impatto di tali decisioni. Tale consultazione può avvenire in molti modi, dalle interviste ai focus groups, alle inchieste campionarie, alla creazione di panel di esperti, alla pubblicizzazione di documenti d’intenti sul sito dell’amministrazione unitamente alla richiesta di far pervenire osservazioni entro un dato termine. Quanto più e meglio si fanno consultazioni del genere, tanto più informata, efficace e rispettosa dei punti di vista dei cittadini sarà l’azione pubblica. Va d’altro canto ribadito – per tali esempi ancor più che con riguardo alle procedure deliberative – che consultazioni siffatte (dalle quali emergeranno di norma posizioni eterogenee e spesso confliggenti dei vari portatori di interesse) non producono esiti vincolanti per le autorità pubbliche, alle quali resta la prerogativa e la responsabilità di decidere. D’altro canto, certamente esse aumentano la trasparenza, la capacità di rendere conto del proprio operato, la lungimiranza dell’attività dei pubblici poteri. Ciò è stato ben capito in molti paesi europei, da quelli di lingua inglese a quelli nordici, alla Francia e più di recente anche ad alcuni Stati mediterranei, nonché dalle istituzioni comunitarie, che da diversi anni puntano molto sulla democrazia consultiva.
ln definitiva, la partecipazione può prendere molte forme e molte strade, alcune aperte o rese più agevoli dalle nuove tecnologie. Non bisogna però pensare che ciò cambi la natura della democrazia.
Alcune tendenze apparentemente nuove e alla moda si riallacciano in effetti alle radici greche e ai classici del pensiero politico. È però vero che, se le buone intenzioni sono genuine (e non solo proclamate), un uso corretto, aperto e innovativo di certe nuove possibilità può fornire ai cittadini l’opportunità di pesare molto di più che in passato nella gestione della cosa pubblica. Se le intenzioni sono genuine, lo ribadisco, e se si fa sul serio.
OLTRE Lo STATUTO, uNA NUOVA SICILIA DAVIDE CAMARRONE
Dicono che il mancato sviluppo della Sicilia dipenda da una certa sua attitudine all’immobilità. Da una storia che, ad esser sinceri, è fatta di pochi rivolgimenti e di molte conquiste; fatta dall’alto più che dal basso: dalle classe dirigenti più che dal popolo.
Dicono che questa mollezza etica sia stata cullata dal falso Mito di una Grande Sicilia: con vecchie consulte mascherate da Parlamenti, Costituzioni esibite e subito riposte nei cassetti, grandi leggi di riforma svuotate dall’interno: dalle enfiteusi alla suddivisione dei feudi.
Dicono che questa attitudine all’apparenza, alla recitazione, sia il seme della pianta carnivora che ha divorato la democrazia in Italia: dalla Sicilia all’ltalia, per la profezia della linea della Palma, che sarebbe risalita lungo la Penisola.
Ora, bisogna attingere ad un maestro del sospetto razionale per definire meglio l’oggetto della controversia: se sia vero che ci meritiamo il nostro destino, o se questo sia colpa del tiranno di turno: iI Nord, ad oggi.
Un romanzo di Leonardo Sciascia, il Consiglio d’Egitto, racconta del coraggio del Viceré Domenico Caracciolo, che abolì la Santa lnquisizione, e del compromesso che fu alla base di quell’abolizione: la solenne distruzione delle carte inquisitoriali che avrebbero potuto ricostruire la storia delle appropriazioni indebite messe a segno dal sistema inquisitoriale, progenitore del sistema mafioso per quella catena che va dalla delazione al processo ingiusto alla spartizione delle spoglie tra accusatori e giudicanti, tutti parte di un reticolo di impunibili famigli.
Ricordate “Abate Vella, autentico protagonista di quel romanzo? Il mascalzone giustiziere. Spacciava per vero un falso di suo pugno, il Consiglio d’Egitto, che avrebbe potuto, nei peggiori incubi del baronato siciliano, ricondurre interi feudi agli eredi dei legittimi proprietari.
Sciascia usa questa truffa, che fu smascherata dall’austriaco Joseph Hager, per dire di un’altra e più fortunata: quella messa a segno dall’lnquisizione contro gli ebrei (che furono tra 40.000 e 80.000 in un’lsola che contava 400.000 abitanti) e contro gli avversari di turno e molte minoranze. E dunque, il Potere: ideologia e violenza.
Noi, naturalmente, stiamo dalla parte dell’illuminista Francesco Paolo Di Blasi, sacrificato sull’altare della reazione. E contro i ladri così come contro i mascalzoni giustizieri.
Premessa indispensabile, la distinzione tra realtà e finzione nella nostra storia, per dire della nascita dello Statuto Speciale siciliano.
Di quel che lo precedette e che lo accompagno.
La prima opposizione alla mafia si ebbe dal Fascismo, con il Prefetto Cesare Mori, artefice dell’assedio di Gangi, dell’ergastolo al boss Vito Cascio Ferro (l’assassino di Joe Petrosino), e dello scontro con quella parte del PNF legata ai boss, scontro dal quale Mori uscì sconfitto e senatore.
Nel 1943, la mafia fu chiamata a nuovi compiti: favorire lo sbarco americano e la transizione verso un regime anticomunista. A questo compito, Cosa Nostra si dedicò egregiamente e per moltissimi anni.
Uno degli strumenti fu il separatismo. Il comune banditismo mafioso fu vestito di nuovi indumenti. Di ideologie che non possedeva.
Gli strumenti, ovviamente, restarono gli stessi di sempre. Le armi, le intimidazioni. Si aggiunsero le bombe, le stragi: Portella della Ginestra fu una sorta di test di laboratorio, per una tecnica da ripetere poi su larga scala. Tritolo e inchiostro: evento e comunicazione.
Nel 1946, nel mezzo di quella strategia della tensione che avrebbe impedito ogni riforma agraria e l’ascesa al governo delle sinistre, la Sicilia ebbe il suo Statuto Speciale.
L’autonomismo, moderato in economia ed estremo in politica, sostituì il separatismo. Il Patto tra i siciliani e gli italiani ebbe la meglio sulla finzione di uno staterello federato agli Usa. Tertium non datur.
Non un sistema istituzionale snello ed efficiente, non un sistema solidale e tuttavia a prova di clientele.
La peculiare funzione della Sicilia nel Mediterraneo valeva, a giudizio delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, il sacrificio del suo benessere, della sua libertà e di alcuni dei suoi uomini migliori.
Cosa seguì a questa storia e a questo Statuto speciale? Le promesse, contenute in quell’atto che era a prima vista progressivo e che anticipava, della successiva Costituzione italiana, alcuni tratti riformistici, non furono mantenute, né potevano esserlo, a ben vedere.
Non la promessa di un’autodeterminazione politica ed economica, non la promessa di un uso locale delle risorse naturali, non la promessa di una giustizia e di una polizia locali.
Ad oggi, la Regione siciliana è, tecnicamente, al verde. Zero investimenti e creditori in crisi. A Catania, i bus, qualche mese fa, rimasero senza benzina e i passeggeri aggredirono gli autisti: un casuale preludio di guerra civile, tra poveri. Per tacere delle condizioni in cui versano interi settori economici, della mancata programmazione economica e dello spreco delle risorse europee.
Da cosa dipende, questo disastro? Da un’autonomia ancora ridotta rispetto alle necessità? Sostengo Ia tesi esattamente contraria.
Occorrerebbe abolire l’autonomia speciale e fare a meno di gran parte dei compiti assegnati alla Regione, per restituire potere allo Stato centrale e ai Comuni. Tornare al modello napoleonico, guardare ad un disegno istituzionale che preveda |”ascesa dei migliori: il funzionariato formato alI’Ena, la scuola francese d’alta amministra zione.
È proprio l’autonomia speciale, a mio parere, il problema.
Disponiamo di un Parlamento che costa moltissimo e che è responsabile di una lunga serie di impedimenti allo sviluppo.
Leggi farraginose e paralizzanti.
Un bilancio monstre che mantiene una macchina ammistrativa elefantiaca, pensata per uno Stato ricco e non per una Regione povera.
lmpossibilità di controlli e surroghe da parte di un’autorità centrale, in caso di inattività, incapacità o peggio delle autorità periferiche.
Sovrapposizioni amministrative e giurisdizionali.
Mortificazione delle autonomie comunali, quelle sì davvero importanti.
Con lo stesso spirito dei progressisti che sinceramente videro nell’autonomia uno strumento di riscatto, oggi dobbiamo chiedere, nell’interesse della Sicilia, la soppressione di ogni autonomia e la riduzione ai termini minimi indispensabili della macchina e dei poteri della Regione. Sapendo che presto potremmo anche fare a meno della stessa Regione.
Serve uno Stato minimo, regolatore e non proprietario, se non naturalmente delle risorse naturali e della sua necessaria dotazione patrimoniale e culturale; capace di difendersi, di istruire, di curare, di giudicare, di consentire i trasporti e le comunicazioni.
Questi compiti essenziali non possono esser delegati dallo Stato ad una pluralità di enti discendenti che, per loro istinto, secondo le scienze sociali, sono portati a gestire l’intero processo e non la sola porzione assegnatagli, e a costruirgli intorno un sistema di burocrazie e benefici. Gli uffici periferici, per conseguenza, devono esser parte dello Stato.
Vanno mantenute invece le autonomie locali. Vanno anzi rafforzate.
Abolendo le province e favorendo le unioni comunali: le grandi aree metropolitane e i consorzi tra i Comuni, come forma transitoria, in un processo dai tempi certi, verso Comuni territorialmente più estesi.
Prendiamo il caso di Palermo, intendendo ovviamente riferirci, cambiati i termini, alle tre grandi aree metropolitane siciliane e ai futuri possibili grandi consorzi comunali.
L’assetto istituzionale cittadino va profondamente rivisto.
Occorre guardare ad un sistema metropolitano, che si fondi su municipalità differenti: su un sistema a più cuori pulsanti, costituito da un numero contenuto di arondissements (tra cinque e dieci, per intenderci) che guardino alle questioni amministrative essenziali.
La questione dell’organizzazione e della semplificazione istituzionale e dei servizi, decentrando le forme di partecipazione decisionale e legando ad esse il coordinamento con le esigenze locali dei sistemi ambientale, manutentivo, scolastico, sanitario, dell’assistenza e della sicurezza.
La questione dei trasporti e delle comunicazioni, riducendone il fabbisogno e modificandone le modalità, con: i centri di stoccaggio e il trasporto notturno delle merci; la creazione di un ente unico per il trasporto, che comprenda il sistema dei parcheggi, del trasporto delle persone e della gestione delle aree pedonali.
La questione dell’infrastrutturazione della città, dal punto di vista energetico, dei servizi a rete e delle comunicazioni dati.
Si tratta di un modello amministrativo che guarda alla partecipazione, all’inclusione sociale, all’efficienza ambientale ed economica (al centro della nuova economia non c’è più il denaro pubblico ma l’interesse pubblico: ciò che può motivare il capitale privato, anche nella prospettiva di motivare nuove strategie di cofinanziamento pubco) Questo modello dovrebbe ispirare il nuovo Piano Regolatore Generale e il modello che ne deriverà di riuso del territorio, sia nell’opera di demolizione/ricostruzione (secondo criteri di contemporaneità: sostenibilità, fruibilità, sicurezza), sia nel recupero ambientale e architettonico monumentale: ciò che ha valore, oggi non è utilizzato ed è negato ai soggetti privati.
Questo nuovo modello amministrativo, decentrato, partecipativo ed inclusivo, si pone in netto contrasto e discontinuità con l’attuale organizzazione delle istituzioni culturali: scollegate tra di loro, non disposte ad ospitare nuove iniziative (il vuoto di produzioni è un indizio), slegate dalla contemporaneità, sganciate dai territori e dai popoli della città. Parlo dei teatri, delle biblioteche, dei musei e delle gallerie ma anche di quelle altre strutture minori o sulla via di una progressiva perdita d’importanza (per l’inadeguatezza al futuro che si materializza con nuove diffuse esigenze).
L’Università dovrebbe potersi costituire come officina del cambiamento, e porsi al centro di questo progetto, finalizzando la didattica e motivando gli studenti alla partecipazione e alla reinvenzione della città (Palermo non invertirebbe quindi il flusso dell’emigrazione intellettuale ma si porrebbe più proficuamente tra le città d’arrivo e ripartenza di quest’emigrazione).
Serve anche un diverso modo di guardare alla città, alla sua storia e alla sua funzione.
Palermo è stata ed è la città del mare ma anche del suo entroterra.
Le vie d’accesso a Palermo, da parte dei diversi popoli che la conquistarono e la vissero, furono per lo più terrestri. E lungo le vie delle migrazioni, si costituirono poli agricoli, commerciali e culturali, che con Palermo hanno nel tempo smarrito ogni relazione significativa.
Rimettere Palermo al suo posto – nella geografia e nell’immaginario
contemporaneo ~ significa restituirle una capacità di relazione con il mare e con l’entroterra. E dunque, occorrerà analizzare e risolvere alcune delicate questioni riguardanti Palermo e il suo circondario con riferimento all’economia e all’ambiente, alla residenzialità e ai trasporti, al turismo e alla produzione intellettuale.
Più in generale, la Sicilia deve rovesciare alcune parole d’ordine.
Penso all’accoglienza e all’orientamento, e non più al respingimento e alla detenzione. All’informazione e non più alla segregazione.
Al coinvolgimento dell’Europa e non più alla nostra subordinazione ad una visione diffusa che guarda alle migrazione come ad un problema e non ad una risorsa: nella storia della Sicilia, la fine delle migrazioni coincide con il suo declino.
Esistono, a mio parere, delle concrete opportunità, per tradurre in realtà queste aspirazioni astratte.
Penso alla rivalutazione delle secolari tradizioni religiose della Sicilia, per 1.422 faticosissimi anni sede della più grande comunità ebraica d’Europa e, per quasi quattro secoli, laboratorio di convivenza fra cristiani, ebrei e musulmani. Penso all’importanza della cultura araba per la Sicilia, anche dal punto di vista delle arti, della scrittura, dell’architettura, dell’ingegneria, dell’agricoltura.
Vorrei che a Palermo nascessero contemporaneamente una sinagoga ed una moschea, un museo dell’ebraismo e un museo dei musulmani di Sicilia.
Penso a quel che ancora accade in Africa, alla cortina di piombo che impedisce a noi di sapere cosa accade nel Maghreb, nel Medio Oriente e nel cuore dell’Africa, e di prender parte ad un processo di pacificazione e di sviluppo: all’esistenza di solidi interessi che cospirano contro la conoscenza e la partecipazione.
Penso all’incredibile non cooperazione economica tra la nostra lsola e quei territori (non cooperazione s’intenda anche per ridottissima, insufficiente, per dimensioni e qualità).
Vorrei che a Palermo nascessero – per iniziativa dei privati, favorendo accordi a lunga scadenza – delle camere di cooperazione economica internazionale.
Tutto ciò avrebbe un’indubbia rilevanza economica, oltre che culturale. Darebbe alla Sicilia e alla sua capitale, Palermo, la centralità che le spettano di diritto nel rapporto tra l’AfrlCa, l’Orlenle e l’Occidente.
Credo che il vecchio modo d’atteggiarsi della Sicilia l’abbia resa prigioniera di se stessa, che lo Statuto speciale, con il suo inattuale carico ideologico, sia ancora in grado d’ingabbiarla e di indebolire le sue forze migliori.
Alleggerire il peso burocratico dell’lsola, ridurre l’influenza negativa di norme e istituzioni, potrebbe consentirle di guardare al futuro e di rinnovare il proprio ruolo nel Mediterraneo.
LA vITA DEMOCRATICA NELLA REGIONE sIcILIANA. INTERVISTA A MARIO FASINO a cura di ANTONIO LA SPINA
Rispetto alle altre regioni, la regione siciliana ha goduto di prerogative vastissime, per un arco di tempo assai lungo. Lo Statuto delineava una Regione incaricata di promuovere lo sviluppo e l’industrializzazione dell’isola. Sarebbe forse stato possibile generare un’economia e una società non dipendenti dai trasferimenti pubblici. Il che non avrebbe rilevato soltanto sul piano dell’economia, ma anche su quello della democrazia e della vita civile. Cittadini che non ricevono le risorse per il loro sostentamento attraverso canali polico-clientelari possono essere elettori liberi, in grado di scegliere meglio governanti adeguati. Se invece gran parte della popolazione vive di elargizioni da parte della regione, la qualità della democrazia si abbassa.
Inoltre, la regione siciliana fu dotata di poteri legislativi molto ampi e di autonomia impositiva. Un uso accorto e appropriato di tali strumenti avrebbe potuto anch’esso migliorare la vita democratica dell’isola.
Abbiamo intervistato il nostro socio Mario Fasino, Past President del Rotary Club Palermo Est, che è stato testimone diretto della nascita della Regione Siciliana, e ne è stato poi, fra il 1969 e il 1972, Presidente. Mario Fasino ha anche presieduto, fra il 1974 e il 1976, l’Assemblea Regionale Siciliana.
Nel 1946 esisteva un movimento separatista. Per altro verso, Luigi Sturzo era stato in precedenza fautore del federalismo, per poi aderire all’autonomismo. Tali posizioni ebbero in modo differente un ‘influenza sulle origini della regione. Qual è il suo ricordo al riguardo? Una grande parte dei politici (ma non solo dei politici) ed in particolare della Democrazia Cristiana, tra il 1943 e il 1946, riteneva che la soluzione dei problemi storici, economici e politici dell’isola potesse e quindi dovesse conseguirsi con un patto di autonomia regionale da stipularsi con lo Stato nato dalla resistenza, del quale si andavano costituendo i nuovi organi, in una più ampia, organica, Comune e solidale collaborazione per la indiscutibile necessità dell’unità della Nazione.
La maggioranza più che assoluta della classe dirigente siciliana era convinta di questa soluzione. Fu così che, dopo l’arrivo degli alleati, venne nominato un alto commissario per la Sicilia e successivamente, dall’On. Aldisio, una Consulta regionale per la stesura di uno statuto speciale da approvarsi con decreto legislativo dello Stato e da coordinarsi poi con la Costituzione della Repubblica.
L’approvazione dello statuto, appagando l’aspirazione pluricentenaria dei siciliani all’autogoverno, consolidò l’unità della nazione, smorzò gli impulsi dei separatisti e divenne fattore di rottura con il passato, richiesta di rinnovamento delle istituzioni e degli ordinamenti statali, strumento di iniziale rimozione del nostro assoluto sottosviluppo e assunzione di responsabilità dei siciliani rispetto al proprio destino.
La Regione fu dotata di ampi poteri legislativi, spesso con competenza esclusíva. Quanto e come ha esercitato tali poteri? Ad esempio, vi sono state conseguenze in materia di personale? Alcune competenze, come quella sui beni culturali, furono in concreto attribuite con molto ritardo, stante la resistenza del governo nazionale alla formulazione di norme di attuazione in alcuni importanti settori di competenza della Regione. l passaggi delle competenze e la necessaria riorganizzazione amministrativa in campi come, appunto, quello dei beni culturali si verificarono con grande lentezza. La Regione dovette cominciare da zero: prima con personale statale comandato, poi con assunzioni dirette e finalmente con i concorsi e l’organizzazione definitiva degli assessorati competenti nella varie materie. Furono affrontati e risolti importanti problemi relativi a comuni e province, o alla materia elettorale, del lavoro etc.
Vi è stato in effetti un aumento del personale, dovuto spesso anche all’aggiramento di norme relative alle cooperative e alle società a partecipazione regionale. Queste ultime prescindevano dall’obbligo dei concorsi. Di conseguenza si ebbe personale assolutamente impreparato a gestire molte nuove funzioni, alcune delle quali poi sarebbero state attribuite anche dall’Unione Europea. ln particolare, grande è l’impreparazione in materia di fondi comunitari. La cattiva organizzazione burocratica talora confusa e incoerente fa sì che si stenti a spendere correttamente e rapidamente le risorse messe a disposizione dalle istituzioni europee o dal nostro governo nazionale.
Enti politicizzati, gestione del consenso attraverso le risorse e gli apparati regionali: vi sono differenze al riguardo tra la fase della prima e quelIa della cosiddetta seconda Repubblica? Alla fase dell’abbondanza dell’attività contributiva della regione è seguita un’insufficienza complessiva delle entrate a fronte di spese sempre crescenti, fino al punto che ancor oggi la Regione è assolutamente carente di basi finanziarie idonee a reggere il costo della sua gestione. Vengono erogate enormi somme in stipendi per l’eccessivo precariato (ad esempio: manodopera nel settore forestale, ovvero, sebbene oggi meno di prima, in quello della cooperazione) e per le società partecipate.
Che valutazione possiamo dare delle vicende degli anni più recenti? Le vicende dei precedenti governi regionali nell’ultimo ventennio hanno aggravato la situazione generale dell’isola, oltre al fatto che vi è una crisi economica generale. Tutto ciò sta inducendo la classe dirigente a contrastare con decisione molte situazioni degenerative, che si tenta gradualmente di eliminare, con la conseguenza immediata di un ulteriore peggioramento delle possibilità di trovare lavoro adeguato, specialmente per i giovani. È assolutamente necessario rivedere tutto il complesso della legislazione attuale, adeguando molte norme non solo alle esigenze dell’utilizzazione delle somme comunitarie, ma anche alle nuove e diverse situazioni insorte nella società odierna. Va sistemata attraverso opportune iniziative legislative la stessa situazione normativa di tutto il personale dipendente, rivedendo l’organizzazione degli uffici, così come la situazione contributiva.
Rimane del tutto aperto, nei confronti della società siciliana, il problema della modernizzazione del suo tessuto culturale, produttivo, economico e sociale e quello dello scarto da colmare tra disegno politico, mutamenti sociali e processi reali. È la sfida che ci attende.
Superarla, oggi, è quasi un rifondare la Regione. Non sono certo che vi si riuscirà, ma non per questo demorde la mia ferma speranza.
LIMITI DEL SISTEMA DEI CONTROLLI NEL FUNZIONAMENTO DELL’ISTITUZIONE AUTONOMISTICA GUGLIELMO SER/o
Con la Costituzione del 27 dicembre 1947 lo Stato italiano è stato costruito come “Stato regionale”. Giova però al riguardo precisare che con tale configurazione si è inteso dar vita, non già ad una netta separazione tra le competenze di un ente sovrano e quello dotato di autonomia politica, ma si è voluto piuttosto creare un rapporto di reciproca cooperazione tra i due enti, specie in vista di una eventuale interdipendenza degli interessi regionali rispetto a quelli nazionali.
Tuttavia l’articolo 17 della legge 16 maggio 1970 n. 281 ha riservato allo Stato una funzione in un certo senso di supremazia, quale quella di indirizzo e coordinamento sulle attività regionali. Tale funzione ha trovato la sua giustificazione in una esigenza unitaria che avrebbe potuto essere compromessa se non vi fosse stato un potere di controllo da parte dello Stato volto ad armonizzare le attività amministrative su tutto il territorio nazionale.
Una vibrata protesta però delle Regioni pose in evidenza la sopravvivenza del tradizionale centralismo dell’ordine statale, sopravvivenza che poi implicitamente trovò conferma nella legge n. 371 del 2003 con la quale fu stabilito che gli atti di indirizzo e di coordinamento non potevano essere più adottati in materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva o concorrente delle Regioni.
Occorre al riguardo precisare che con la legge costituzionale n. 3 del 2001 di riforma del titolo V parte Il della Costituzione, è stato previsto il trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, trasferimento che conseguentemente ha reso necessaria l’introduzione di una serie di raccordi al fine di raggiungere una maggiore efficienza nella cura degli interessi pubblici.
Nelle grandi linee questo è il modello del cosiddetto “regionalismo cooperativo’I che tuttavia non ha avuto a tutt’oggi una soddisfacente applicazione.
Il trasferimento delle funzioni amministrative corrispondenti a quelle legislative ha subito remore e rallentamenti dovuti alla riluttanza dello Stato centrale a cedere poteri e controlli, i quali pur tuttavia hanno ricevuto una certa attenuazione sia per il riparto delle competenze a seguito della riforma del titolo V della Costituzione, sia anche per l’introduzione di un principio (che ha assunto poi il rango di principio costituzionale) quale quello della sussidiarietà. Tale principio ammette il conferimento di funzioni a livello più elevato soltanto nel caso che sia impossibile curare in modo più adeguato certi interessi nei livelli più bassi. Tale principio, unitamente a quello di differenziazione diretto a tenere conto delle diverse caratteristiche demografiche, territoriali e strutturali, dovrebbe preservare vieppiù gli enti (comuni, provincie e regioni) dall’accentramento dello Stato.
*** L’autonomia regionale ha trovato la sua maggiore espressione nella potestà assegnata alle Regioni di emanare leggi in senso formale, leggi che, in quanto espressione della volontà di un singolo organo legislativo, differiscono da quelle statali (atti complessi), ma al pari di queste ultime leggi sono subordinate alla Costituzione sia nel loro contenuto (non potendo essere contrarie alle norme costituzionali sostantive) sia per il rispetto dei limiti che, dopo la riforma introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, si articolano nella potestà legislativa primaria (o esclusiva) e concorrente (o ripartita). Sotto il primo profilo, pur avendo la potestà legislativa regionale, nelle materie ad essa riservate, un potenziale espansivo non dissimile da quella dello Stato, non è tuttavia esente da limiti che, in un sistema pluralistico di fonti come il nostro, sono sottesi ad assicurare il principio costituzionale dell’unità e indivisibilità della Repubblica e quindi, in definitiva, la unitarietà dell’ordinamento giuridico.
Per converso anche dei limiti sono dalle norme costituzionali posti alle leggi statali. Queste ultime leggi non possono disciplinare materie attribuite alla competenza primaria delle regioni: non possono ad esempio nel dare attuazione agli accordi internazionali operare un invasione nella sfera della competenza regionale.
Anche le stesse leggi-cornice debbono tenere conto, nello stabilire i principi fondamentali, della legislazione regionale (statutaria e ordinaria) e comunque non discostarsi da essa.
ln questo sistema di limiti dunque il rapporto tra la legge statale e quella regionale non appare ordinata secondo un criterio gerarchico. La legge statale infatti non è sovraordinata rispetto a quella regionale, il che comporta che le eventuali antinomie tra le due fonti vanno risolte non invocando la maggiore “forza”I della fonte statale, ma secondo un rapporto che trova il suo punto di confluenza e di armonizzazione nella Costituzione.
Attraverso questo breve excursus di norme, di principi, di tendenze che si sono via via sviluppate specialmente dopo le modifiche costituzionali cui si è fatto riferimento, si può ben dire che l’autonomia regionale, se non si è vieppiù rafforzata, risulta tuttavia più protetta grazie ai limiti di ordine costituzionale che ne evitano l’invadenza.
*›i<* Accanto ai suddetti limiti posti alla legislazione tanto statale, quanto regionale (art. 118 – c. l Cost. – dopo la riforma del 2001) esistono anche dei limiti generali di legittimità propri delle stesse leggi regionali. Essi sono fissati da alcuni principi costituzionali assolutamente inderogabili da parte delle Regioni, quali il principio del decentramento che comporta il rispetto della autonomia degli enti infraregionali e il principio della tipicità delle forme, secondo il quale le Regioni non possono seguire nella formazione dei loro atti, procedimenti diversi da quelli prescritti dalla Costituzione e negli statuti speciali, e non possono dare agli atti medesimi un contenuto differente da quello tipico, ossia connaturato nella loro stessa funzione.
Per quanto invece concerne il limite delle materie, va rilevato che esso contiene in sé un elevato margine di indeterminatezza concettuale a causa della elasticità che caratterizza le disposizioni costituzionali. Peraltro questo limite non è sufficiente da solo a determinare la misura della competenza regionale, sicché nelle materie attribuite alla potestà legislativa delle Regioni, lo Stato può intervenire con le sue leggi, tranne che non si tratti di potestà legislativa primaria, per cui si renderebbe necessario integrare il riparto delle materie con una adeguata distribuzione della potestà legislativa su una stessa materia tra Stafo e Regione.
Altro limite a carattere generale è dato dalla natura territoriale dell’ente. Di regola la legge regionale deve esaurire la sua efficacia entro l’ambito del territorio regionale. Tale principio però non è assoluto. Quando infatti la Regione agisce come ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della propria comunità, la sua autonomia può essere esercitata anche in forme che si proiettano al di fuori del proprio territorio (così Sent. Cost. n. 389 del 1991). ln tal senso è l’art. 120 della Costituzione, laddove è previsto che la Regione non può istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni; non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la circolazione delle persone o delle cose fra le Regioni; non può, altresì, limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.
***
Particolare rilievo merita l’approvazione degli Statuti delle Regioni.
ln virtù dell’innovazione dell’art. 123 della Costituzione, introdotta con la legge costituzionale n. 1 del 1999, l’approvazione degli Statuti delle Regione di diritto comune è stata sottratta al controllo central istico con la soppressione del “visto” da parte del Commissario del Governo, anche se tale soppressione in un certo senso è stata bilanciata con la facoltà conferita al Governo della Repubblica di promuovere, entro trenta giorni dalla pubblicazione degli Statuti, questione di legittimità costituzionale.
Gli Statuti invece ad autonomia differenziata (come quella della Sicilia) sono adottati con legge costituzionale a norma dell’art. 116 della Costituzione e possono essere modificati solo con una particolare procedura di revisione costituzionale (cosiddetta procedura aggravata).
L’approvazione degli Statuti, oltre al controllo “giuridico” può essere sottoposto a quello l’democratico”: un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti il Consiglio Regionale possono chiedere di sottoporre a Referendum popolare lo Statuto, il quale peraltro, non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei volti validi. Il sistema, come è facile constatare, non è dissimile da quello della procedura aggravata ex art. 138 della Costituzione, il che contribuisce a configurare lo Statuto come una piccola Costituzione fornita di rigidità garantita dall’aggravamento della procedura con esclusione di ogni controllo politico esterno affidato ad organi dello Stato.
*** Dalle considerazioni fin qui svolte appare chiaro che le Regioni sono dotate di un’ampia potestà normativa e politica. Possono adottare un loro indirizzo politico anche diverso da quello dello Stato, purché non sia contrastante con i principi dell’ordinamento costituzionale.
Consegue dunque che la Costituzione nell’ordinamento giuridico italiano è una fondamentale forza regolatrice e di controllo.
Alfine di effettuare tale controllo la stessa Costituzione ha creato un organo ad “hoc”, ossia la Corte Costituzionale, alla quale è affidato il giudizio sulle controversie relative alla legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge sia dello Stato che delle Regioni, ed un giudizio, altresì, sui conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, fra lo Stato e le Regioni e fra le Regioni stesse, sicchè la Corte garantisce l’osservanza della Costituzione da parte sia dello Stato, che delle Regioni nelle loro rispettive sfere di competenze costituzionalmente delimitate.
Ma anche sotto il profilo organizzatorio un sistema di controlli è agevolmente individuabile in ambito regionale. Ne è un puntuale esempio la Corte dei Conti nella sua duplice funzione di organo di controllo sotteso all’osservanza della legalità degli atti della pubblica amministrazione e del relativo rigore finanziario e al contempo di giudice col compito di accertare eventuali responsabilità di ordine patrimoniale in cui i funzionari, impiegati ed agenti civili e militari possono essere incorsi.
Tale attività si sono allargate in seguito al progredire del processo di decentramento estendendosi anche alle Regioni (in Sicilia dall’art.
23 dello Statuto sono previste apposite sezioni).
Le funzioni della Corte dei Conti, secondo quanto è stato affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 29 del 1995, vanno interpretate “in senso espansivo come organo posto al servizio dello Stato – comunità, e non già soltanto dello Stato – Governo, quale garante imparziale del settore pubblico e, in particolare, della corretta gestione delle risorse collettive sotto il profilo dell’efficacia, dell’efficienza e della economicità”.
Ma anche la giurisdizione nelle sue diverse forme implicitamente esercita un potere di controllo.
ln particolare la giustizia amministrativa (TAR – Consiglio di Stato) nel momento stesso in cui appresta una tutela in favore del singolo (ricorrente) che si ritenga leso da un atto della P.A., al contempo esercita un potere di controllo sulla legalità dell’atto stesso.
L’accertamento del Giudice amministrativo cioè è unico e bivalente: procura la soddisfazione dell’interesse dei singoli ed insieme la soddisfazione dell’interesse obiettivo della collettività (e anche della stessa amministrazione) realizzando così il controllo del rispetto della legalità ossia del corretto esercizio del potere amministrativo.
Questa operazione, che vale anche a indirizzare l’azione amministrativa, è in Sicilia assolta dal Consiglio di Giustizia Amministrativa, quale sezione (sia pure a composizione mista di Giudici togati e laici) del Consiglio di Stato, che dopo l’ingresso dei TAR ha assunto una posizione di giudice di appello sulle decisioni di primo grado.
Da quanto fin qui si è detto i controlli nei loro multiformi aspetti, sono prevalentemente di legittimità, più raramente di merito.
A quest’ultimo riguardo sono sottoposte a controllo, avente un certo margine di discrezionalità politica, gli organi delle Regioni (Consiglio, Giunta, Presidente della Giunta). Non si tratta di un controllo di legittimità (mancando un puntuale parametro dato dalla legge) ma di un controllo sul comportamento o su una attività dell’organo.
Le misure sanzionatorie che si sostariziano nel controllo su, indicato, comportano lo scioglimento del Consiglio Regionale o la rimozione del Presidente della Giunta quando a norma dell’art. 126 Cost.
(nel testo introdotto dalla legge costituzionale n. l del 1999) a) siano stati compiuti atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge; b) per ragioni di sicurezza nazionale; c) sia stata votata una mozione di sfiducia al Presidente della Giunta (ove eletto a suffragio universale e diretto; d) per dimissioni contestuali della maggioranza dei consiglieri.
ln Sicilia lo scioglimento dell’Assemblea regionale è disciplinato dall’art. 8 dello Statuto, a norma del quale esso è proposto al Governo dal Commissario dello Stato per persistente violazione dello Statuto.
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Conclusivamente si può ben dire che le Regioni nell’ordinamento costituzionale italiano, sono parte di una situazione giuridica attiva dello Stato, ma lna situazione che si articola in una serie di potestà giuridiche che si riconnettono all’autonomia regionale, la cui sfera di competenza trova tutela e al contempo limite nella giustizia costituzionale.
ln uno Stato unitario a decentramento regionale dei limiti debbono pur sussistere trai due enti. L’ordinamento statale si è auto limitato attribuendo a quello regionale potere e funzioni che, sebbene costituzionalmente garantiti, sono quelli che tradizionalmente erano propri dello Stato, sicché l’ordinamento regionale, essendo non originario, ma derivato da quello statale, ha il diritto a rivendicare la propria autonomia, ma pur sempre nei limiti segnati dalla Costituzione.
ln altri termini la Regione ha un vero e proprio diritto soggettivo alla intangibilità della sua sfera giuridica ed è legittimato ad agire contro lo Stato quando sia violata la sua competenza, ma una collaborazione paritaria di certo non è configurabile; non si armonizzerebbe con il disegno costituzionale.
La collaborazione paritaria si realizza negli ordinamenti federali tra Stato centrale e Stati membri. Ma nel rapporto tra Stato e Regione non può sussistere che il cosiddetto principio di “leale cooperazione”, che, se correttamente esercitato, può condurre ad una costruttiva unità nazionale.
Solo l’esperienza potrà dirci se tale cooperazione sarà effettivamente raggiunta e, in particolare, se le leggi statali non ricominceranno ad erodere il riparto di competenze che la nuova normativa ha introdotto, senza che la Corte costituzionale debba essere chiamata ad impedire da sola che quel processo di erosione si verifichi e a segnare quindi una netta linea di confine tra la competenza statale e quella regionale.
NoMADisMo E DEMocRAziA DAVIDE CAMARRONE
C’è una frase di un vecchio comunista che mi ha sempre incuriosito, e non per quel che significava, nel suo contesto, il discorso all’Assemblea Costituente: la rivendicazione della propria forza politica contro un avversario.
“Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano”.
A pronunciarla, per inciso, fu Palmiro Togliatti, contro Alcide De Gasperi.
Facciamo ora tabula rasa del contesto e limitiamoci alle otto parole di questa frase.
Ebbene, a colpirmi è quest’idea – allora impropria, per non dire inconscia, nella selezione linguistica del leader del PCI – del movimento di intere popolazioni, della certezza che questo immane spostamento sia cominciato altrove e in un’epoca lontana, e che esso debba proseguire, contro ogni ostacolo.
Questa frase mi suggerisce pure una certa idea del Tempo, dell’esser noi soggetto e insieme oggetto di cambiamenti straordinari, che travalicano lo spazio di una vita: e basterebbe pensare alle grandi migrazioni primitive, che diedero origine alle nostre diverse civiltà.
ln una frase del genere, ovviamente decontestualizzata, convivono umiltà e grandezza: percezione della nostra singola insufficienza e contemporaneamente del nostro esser parte di un processo straordinariamente importante.
Il tempo sottrae significati e ne attribuisce di nuovi ad ogni cosa, persino alle idee. Solo uno storico, un filologo o un testimone rintraccerebbero oggi, in quella frase, segni e tracce dell’appartenenza ad un movimento politico internazionale. Ma quella frase resta, come dire, potente.
Definisce benissimo la condizione del nomadismo. Una condizione contemporanea. La nostra.
Diciamo di noi. Abbiamo vissuto, noi siciliani, finora, nell’illusione di comunità chiuse. E non lo furono, le nostre, per una gran parte della storia dell’lsola: perla convivenza con tradizioni altre, almeno fino alla fine del Quattrocento.
Secoli dopo, le grandi migrazioni, iniziate a fine Ottocento e proseguite poi nel Novecento, hanno modificato strutturalmente e antropologicamente i centri più piccoli, in una progressione che dalla costa s’avvicinava all’entroterra della Sicilia.
Tra gli effetti delle grandi migrazioni, vi furono il reinvestimento delle rimesse e le nuove identità culturali di chi tornava.
Le nostre città si sono modificate, crescendo, e hanno modificato i centri più piccoli, svuotandoli; hanno creato relazioni nuove, con hinterland pronti ad ospitare residenze a basso costo, impianti industriali e grandi centri commerciali, e con luoghi destinati alle vacanze e alla ricreazione.
Una migrazione storica, dunque, ed una migrazione interna. Così abbiamo inteso finora lo spostamento. L’abbandono della propria città natale, fino ad un ritorno solo eventuale e comunque lontano nel tempo, o il trasferimento in un luogo non troppo distante dal proprio.
Una scelta, dunque, indotta da necessità economiche e generalmente sgradita.
Una sorta di pena accessoria dell’esser meridionali, e dunque incapaci di generare sviluppo autoctono.
Una condizione di passività.
llVeniamo da lontano e andiamo lontano” contiene invece una rivendicazione di volontà, di consapevolezza.
Leggo e ascolto di frequente di allarmi, anche autorevoli, sul numero crescente di “cervelli in fuga”. Questa la definizione più in voga di quel che si vorrebbe fosse un problema, e che invece è un fenomeno al quale guardare con interesse.
I nostri ragazzi che scelgono di proseguire gli studi lontano dalle nostre città, perché stimolati da nuove opportunità, sono l’altra faccia di questa condizione permanente, nella quale altri ragazzi scelgono di lasciare i loro Paesi per vivere nel nostro. Gli studi poi determinano il consolidamento di quello spostamento o ne determinano di nuovi. L’approdo ai nostri Paesi può esser definitivo o preludere a nuovi spostamenti, verso il Nord d’ltalia e d’Europa.
Nella percezione di ognuno, siamo tra di noi, indigeni e allogeni, meno differenti e più simili. Si è creata, negli ultimi decenni, per merito dei mass media, una tradizione comune: una lingua universale che attraversa tutte le lingue.
Un tempo, avrebbero usato un modo di dire oramai desueto Fusione degli orizzonti – per descrivere il clima culturale che si determina in questo singolare andirivieni, in quest’incrocio di culture che per la prima volta nella storia dell’uomo è frutto cli un inestricabile intreccio di singole migrazioni. Il filosofo che coniò quest’espressione, Hans Georg Gadamer, intendeva riferirsi ad altro: al rapporto che si costituisce tra lettore e autore di un testo, ciascuno portatore di un sapere specifico e riferito al proprio tempo. Ma il mio fraintendimento rende merito a questo potere di rinnovamento del significato del testo.
Nomadismo, in questo senso, è la sola condizione di comprensione del nostro presente: discernibile solo a patto di considerarne la pluralità interna, l’eterogeneità del suo processo formativo.
Le migrazioni e la ricerca di nuove opportunità connotano il nostro nomadismo come condizione stabile ed estesa ad ogni luogo.
Nomadismo, dunque, è la condizione in cui anche noi viviamo: noi che abbiamo scelto di non traslocare altrove i nostri corpi, ma restiamo qui e cogliamo le nuove opportunità offerteci dalle culture differenti che oramai ci attraversano e ci circondano.
Se osserviamo con attenzione le nostre città, ci accorgeremo non solo della presenza di catene commerciale nate a molte migliaia di chilometri di distanza, o della diffusione di prodotti creati recentemente altrove e per usi anche differenti dai nostri, di tutto ciò che abbiamo definito globalizzazione, ma anche del passo avanti fatto dal tempo della semplice temibile globalizzazione: anche noi partecipiamo oramai di questo processo.
Il nostro sistema formativo include e predispone alla diversità e ad un modello assai più competitivo di qualche anno fa, essendo venuta meno ogni certezza di una collocazione facile e ravvicinata.
Il sistema di selezione delle professionalità e di incontro di domanda e offerta per beni e servizi è istituzionalmente aperto a confini più ampi dei ristretti limiti nazionali: oggi all’Unione Europea, domani al mondo intero.
Il sistema normativo interno promuove la parificazione sostanziale dei diritti tra cittadini e non cittadini, e progressivamente questa residua differenza cederà il passo ad una parificazione anche formale.
La lingua dell’invenzione creativa è universale: lo sono i nostri progetti architettonici o ingegneristici, le terapie mediche, gli studi scientifici e umanistici. La cultura e le arti. La tecnologia e il sapere materiale.
La più forte resistenza al Nomadismo contemporaneo è di natura psicologica. Temiamo di perdere alcuni tra i nostri più saldi punti di riferimento. Come se questa fusione degli orizzonti potesse determinare d’incanto la saturazione del nostro vecchio sistema di valori e la sua sostituzione con un nuovo sistema eticamente blando, indifferente.
Su questo timore, si esercitano gruppi di pressione e forze politiche interessati al consenso immediato. Cedere alla paura, tuttavia, determinerebbe il manifestarsi del pericolo: il nostro sistema di valori prevede l’accoglienza e la solidarietà e predispone a ritrovare nell’altro valori analoghi. Sottrarre accoglienza e solidarietà, determinerebbe una reciproca chiusura.
Vi è un nesso strettissimo tra Nomadismo e Democrazia, capace di riverberarsi su ognuno dei due poli di questa contrapposizione dialettica, fondata su due assunti: che il Nomadismo sia incapace di autoregolarsi e che la Democrazia sia letteralmente il governo del (o di un solo) popolo: assunti oggi meno veri che in passato.
Il transito di cittadini universali da una forma democratica ad un’altra è cosa che può solo arricchire le nostre forme democratiche, e la maggior dinamicità delle nostre democrazie, invecchiate da un dibattito solo tecnico sui loro funzionamenti, potrebbe riflettersi su società multiculturali che talvolta stentano a sciogliere le diversità in comuni orizzonti.
Per noi siciliani, meticci di una ventina di popoli differenti, non dovrebbe esser difficile partecipare a questo cambiamento.
SERVIZIO PER LA DEMOCRAZIA IN UN CONTESTO DI SOFFERENZA ECONOMICA DIFFUSA RINO ALEssl
“Non pretendiamo che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi può essere una grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi.
La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E’ nella crisi che sorgono I’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi, supera sé stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e disagi, inibisce il proprio talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi è l’incompetenza. Il più grande inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita ai propri problemi.
Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia.
Senza crisi non c’è merito. E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro.
Finiamola una volta per tutte con l*unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla” Albert Einstein Il Rotary è servizio. Questa storica e ben nota vocazione istituzionale che connota da decenni i nostri club-service è ancora oggi, dopo oltre un secolo, capace di intercettare i bisogni e le esigenze di sistemi sociali ed economici sempre più complessi, sempre più dinamici, capaci di repentine trasformazioni, non sempre felici e con sviluppi di crescita spesso iniqua o sperequata con tutte le conseguenze distorte che stiamo vivendo in questi mesi drammatici per molte imprese, per i dipendenti e per tante famiglie.
Fenomeni che determinano criticità sociali, fattori squilibranti per le già precarie economie nazionali con tutti gli evidenti esiti, oggi avvenimenti di continua minaccia per le nostre famiglie.
La crisi, le sofferenze e le disomogeneità, l’impoverimento e la disperazione che essa genera nella società sono diventate una realtà quotidiana della nostra vita. ln questo periodo e negli anni prossimi questa sofferenza detterà l’emergenza dell’agenda della politica, della società e della vita reale di ogni cittadino, di ogni famiglia.
“Le crisi e le avversità, spesso diventano occasione di crescita interiore”, così scriveva la Allende in un articolo per L’Espresso nel 2002e questa idea di rendere un momento di vera difficoltà come il principio di una nuova stagione di riscoperta di nuovi modelli di organizzazione sociale, politica ed economica rende possibile un ruolo di servizio utile del nostro Rotary.
Nel famoso aforisma di Churchill “La democrazia è la peggiore forma di governo – eccetto che per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora”, si racchiude la vera criticità di questo momento di crisi che stiamo attraversando.
Non stiamo vivendo una mera crisi finanziaria, almeno, non solo quella. Stiamo attraversando un cambiamento epocale che ridisegnerà nuovi modelli sociali, economici, etici insieme a nuove ideologie e certamente un mondo diverso, speriamo migliore.
La Democrazia, intesa come idealizzata soluzione di governo capace potenzialmente di equilibrare e perequare tutte le disfunzioni e le contrapposizioni sociali ed economiche, appare in sofferenza davanti alla velocità devastante di questi nuovi modelli di sviluppo tumultuoso verso i quali appare lenta e spesso spiazzata oltre che incapace di produrre una reattiva e salutare tutela dei propri capisaldi. Globalizzazione, Finanza speculativa, produttività smodata e non regolamentata, mercati mondiali incontrollati, accelerazione verso svolte radicali che accorciano catene di distribuzione e proiettano una nuova generazione internet-dipendente, sono i nuovi fenomeni che stanno scuotendo istituzioni di consolidata credibilità oltre che gli inneschi pericolosi e non governati che hanno acceso la miccia di questa crisi senza fine e senza fondo.
ln ogni caso la crisi non è un evento totalmente negativo, ma un momento di transizione che può essere un’opportunità di crescita, in cui scegliamo e ci costruiamo un’altra identità, più ricca e matura.
La parola “crisi” deriva dal latino crisis e dal greco krisis, che rimanda a krino, cioè “separo/I e quindi lldecido”. Crisi dunque significa Hscelta”, “momento che separa una maniera di essere diversa da altra precedente”.
Nella lingua cinese la parola crisi è composta da due ideogrammi: “problema” (Weñ e Ifopportunità” (jí).
Siamo stati educati a cogliere immediatamente l’aspetto negativo di un evento “critico”, il suo potenziale di rottura degli equilibri, ma nessuno ci ha insegnato a vederne i lati positivi, l’opportunità e la necessità di un cambiamento.
La crisi quindi è il raro e prezioso momento in cui abbiamo l’opportunità di metterci in discussione, di pensare e ripensare noi stessi.
Siamo costretti a mettere in pausa la nostra vita frenetica, a farci delle domande e cercare soluzioni nuove, perchè le soluzioni che ci davamo prima della crisi non funzionano più.
Quindi uno scrigno di pensieri, riflessioni, risorse da sfruttare per valorizzare un nuovo corso politico e sociale.
Purtroppo, non possiamo confidare che questa nostra stanca e sfaldata idea di Europa Unita possa ancora resistere a lungo e neppure possiamo pensare credibilmente che l’Europa recuperi in breve la primazia economica e la leadership politica che probabilmente ora è nelle possibilità di altri attori performanti in altri emisferi, lontani e diversi da noi.
L’Europa scivola verso un declino lento ma inarrestabile, intravede un tramonto economico e finanziario che dopo 2500 anni redistribuisce molte delle ricchezze assorbite per secoli appannaggio di una comunità di soli 400 milioni di cittadini, verso nuove aree del pianeta.
È una perequazione della ricchezza che dovrebbe essere un dono ma che la nostra Europa vive ed assorbe male e con i contraccolpi della più grave crisi del dopoguerra.
Cosa può fare il Rotary davanti a scenari che dovrebbero riassegnare una strategia a noi Europei in lutto per l’agonia della nostra casa comune ed improponibili nella capacità collettiva di resistere e ricostruire una proposta allettante contro le devastanti avanzate della finanza speculativa e delle invasioni di produzioni sottocosto dal Far-East? Certo, nessuno di noi può pensare che il Rotary possa essere così ambizioso da delineare un programma per la rigenerazione di un modello politico-sociale adeguato ai nuovi tumultuosi tempi ed alle nuove esigenze delle generazioni che incalzano.
Però il Rotary ha tra i propri Soci molti trend-setter, autorevoli maitres-a-penser, ideologi, politologi, economisti, esperti, professori e uomini di buona volontà.
Il tema può essere applicato nelle forme di Democrazia verticale che ci vedono protagonisti spesso diretti nelle nostre piccole o medie comunità.
Capaci di incidere nella coscienza, nell’etica, nella nuova anima di ogni cittadino che cerca un nuovo modello di sviluppo sostenibile nel quale parole come profitto, ricchezza, benessere, vengano connesse ed armonizzate ad altre come: qualità della vita, servizi per la comunità, rispetto delle regole, solidarietà, benessere sociale, sicurezza, speranza, stabilità, futuro.
Il fallimento dello Stato e degli Enti Territoriali, la gestione fatiscente ed in default della “res publica”, i modelli deviati del parlamentarismo dispersivo ed improduttivo, il fallimento e l’inettitudine della classe politica, hanno manifestato segni chiari di usura del modello democratico che avrebbe bisogno di molte riforme oramai urgenti ed indifferibili.
Il nostro Rotary può e deve contribuire con un progetto leggero ma ricco di contenuti concreti ed innovativi.
Il linguaggio deve essere moderno e chiaro Ilno frills”: senza fronzoli e bizantinismi dai quali viene talvolta afflitto il nostro Rotary.
Cosa proporre quindi per non lasciare che il Rotary sia considerato anacronistico? Sono un imprenditore, rappresento l’associazione di categoria e reputo senza indugio che il valore dell’impresa è un fattore indispensabile ed uno dei volani più importanti se non obbligatori per ogni nostra speranza di rivalsa, di ripresa, di recupero.
Quindi, mutuando solo le valenze simboliche e positive dell’impresa, pensiamo simbolicamente ad una gestione del Rotary con le dinamiche di un’impresa etica, di un’impresa sociale.
Diamo un contributo ed offriamo un servizio ad una comunità che annaspa in balia di un’emergenza e di una sofferenza economica che devasta le imprese, impoverisce la nostra terra e soprattutto impegna le nostre migliori e più illuminate intelligenze ed energie mentali e culturali a vivere afflitti dall’emergenza del quotidiano piuttosto che pensare e progettare o discutere del futuro dei propri figli e della terra dove dovranno vivere.
La mia proposta è quindi per un Rotary al servizio di una democrazia malaticcia ed affranta oltre che minata dall’acidità della lotta per la sopravvivenza, della penosità dei licenziamenti, dalle faide sociali e dalla lotta dei nuovi poveri.
Rilanciamo quindi una proposta per un nuovo modello non politico ma sociale, etico, solidale che possa ridare speranza, fiducia e forza, e rilanciare lo spirito di appartenenza alla comunità, alla Nazione.
Se il Rotary simula le prestazioni di un’impresa sociale, il suo capitale sociale che poi saranno i soci dovranno “produrre” strumenti, idee, supporti, iniziative, proposte, misure fondamentali per la promozione dello sviluppo locale, per il rilancio e l’adozione di valori quali la giustizia sociale, la garanzia di democraticità dell’organizzazione, il coinvolgimento diretto dei lavoratori nella gestione, le pari opportunità e la riduzione delle diseguaglianze, il ricorso al micro credito con banche etiche, la stimolazione e la crescita di una nuova cultura d’impresa, il rilancio di speranze e sogni che i giovani delusi e disillusi devono riattivare attraverso le nostre parole e la nostra fiducia in essi e la costruzione di un humus territoriale e culturale affidabile e fertile dove poter far crescere ed applicare le loro aspirazioni i loro meriti, le loro capacità senza dover sempre e solo scappare da una terra matrigna.
Abbiamo le risorse intellettuali, le capacità relazionali, la determinazione ed il progetto per “incidere, influenzare e diventare un gruppo di pressione autorevole, competente ed accreditato”.
Attenzione. Fare politica è il rischio nel quale possiamo cadere e non voglio essere tacciato di mistificare il ruolo prestigioso e nobile del “servire” che il Rotary ha sempre offerto senza equivoci e strumentalizzazioni svilendolo in una squallida replica vista in tanti libri dei sogni.
Propongo un’altra cosa. Più ardua e coraggiosa: far dono di quella “politica alta” che la Democrazia utopistica distilla solo nelle carte costituzionali che poi vengono disattese e dimenticate e che spesso tutti gli ideologi professionisti della politica, dichiarano di voler mettere nei programmi e che poi evaporano tra risentimenti, inciuci ed altre chimere più appetibili e remunerative che corrodono i migliori animi, i migliori propositi.
Il Rotary propone la “politica che nessuno applica e propone e che mira come unico fine a costruire i nuovi valori morali, etici, deontologici” che poi sono l’ossatura, lo scafandro, l’anima, la sostanza e la linfa vitale che oggi tutti quanti vorrebbero ritrovare in se stessi e nei propri connazionali per ricostruire una nuovo spirito di unità nazionale e di riforma dei principi fondanti di una comunità salda e compatta sia essa nazione, cosi come un comune o un’organizzazioni no profit e sociale come il nostro club.
Disegniamo un nuovo percorso di rilancio di altri valori che non siano quelli che abbiamo subito e che i mass-media ci hanno subliminalmente e subdolamente inoculato negli ultimi degradanti anni cupi, generando le devianze, le aberrazioni, le squalificazioni e la sub-cultura che appaiono oramai il vero sconfortante modello formativo, educativo e relazionale sul quale crescono pericolosamente la nuova classe dirigente, i nuclei educativi della nuova famiglia, le nuove generazioni.
Essere portatori di un simulacro così importante non deve apparire esuberante rispetto alle nostre piccole strutture, alle nostre poche risorse.
Mi rendo conto che se la mia vecchia pretesa di avere “massa critica necessaria e sufficiente per incidere” coinvolgeva il gruppo Panormus per assurgere ad una pressione almeno minima e visibile, con il tempo e l’esperienza ho compreso che il Rotary è molto eterogeneo nei modelli di sviluppo delle proprie vocazioni e delle variegate anime e finalità che lo compongono. Pensare ad un’univocità di intenti mi pare dunque un’utopia, oltre che tempo perso.
Ad alcuni è sufficiente passare una serata conviviale con i propri amici, ad altri risulta gratificante intrattenersi in compagnia di un relatore che parla ed illustra fatti astrusi che seppur curiosi, riassumono temi specifici, specialistici ma lontani anni luce da noi, da tutti e dalla vita vera, dalle passioni, dai nostri doveri morali e sociali e forse dalle nostre finalità sociali.
Orbene, un Rotary vivo, credibile, serio, meno lezioso e più incisivo è ciò che serve alla nostra città oggi afflitta da mille piaghe, tra sofferenza e disperazione, tra disoccupazione e povertà sociale, economica e civica, tra fuga di cervelli e mancanza di progetto.
Senza nessuno o con pochi che si preoccupano del futuro perché assillati dal presente.
Questo è il Rotary che potrebbe tornare ad appassionare ed attrarre tra le proprie file i migliori figli di questa terra.
Questo serve al Rotary per rivitalizzare se stesso e rilanciare la sua nuova utilità di servizio. Al servizio di tutti e magari per dare una speranza agli I“ultimi”.
E’ un nostro dovere “servire” e chi più della nostra città, della nostra gente ha bisogno di noi.
Stiliamo quindi un elenco di pochi punti che di “politico’I abbiano il contesto ma che contengano e siano portatori di valori inequivocabili e ben distanti dalla zona delle lobbies e degli interessi economici.
Ne propongo alcuni piccoli e concreti: Perché i nostri figli vanno via e non tornano più impoverendo il nostro territorio ed il nostro futuro. Cosa fare per farli tornare.
Come sviluppare una cultura d’impresa nelle nuove generazioni affinché, tramontato il concetto del posto pubblico, si rilanci un modello semplice ed agile di sostegno, finanziamento ed aiuto ai giovani imprenditori senza blasone e senza azienda di famiglia che vogliono diventare imprenditori di prima generazione.
Come accedere al microcredito senza doversi piegare alle vessazioni ed ai ridicoli impieghi concessi dalle banche.
Quali settori e quali idee possono essere molto redditizie se incubate da giovani e sostenute con l’aiuto dell’Università, delle imprese e dei capitalisti finanziari speculativi ignobilmente conformati sui titoli di stato piuttosto che sul capitale di rischio.
I media, la cultura e la comunicazione sono responsabili del degrado culturale della città. Una proposta di recupero e di rilancio con nuovi simboli ed icone di significante valore sui quali fondare un nuovo modello di eroe sociale sul quale attivare nuove identificazioni ed emulazioni (insomma meno smutandati, calciatori e veline e più Biagi Conte e ragazzi di Addio Pizzo come idoli da ammirare).
Rispetto delle minoranze ed integrazione con gli extracomunitari.
E tanti altri che possiamo scegliere insieme.
Su questi pochi o altri temi che vanno distillati perche tutto non possiamo fare, generare un’istruttoria rapida effettuata con incontri concreti ed arricchiti da autorevoli competenze che esprimeranno tesi ed antitesi, criticità, esigenze, complicanze, difficoltà, soluzioni, obiettivi.
Alla fine un documento concreto e propositivo stilato da un relatore sarà il progetto che rappresenterà una tesi fondata da dati e sapienza che il Rotary offrirà alla nostra comunità ed ai rappresentanti istituzionali sotto forma di proposta articolata, con soluzioni, dati, percorsi, supporti, sponsor, interlocutori precisi e preparati.
Su questa tesi Iotteremo, innescheremo le nostre relazioni e faremo “gruppo di pressione”, concretamente e se necessario duramente.
Questo è ciò che possiamo fare senza scadere nelle faide della “politica bassa” e senza restare l’anacronismo marginale che oramai ci contraddistingue solo per le cene improduttive e spesso noiose nostro diffuso marchio di produttività sociale! Non vedo un ruolo apicale o assolutistico o isolato del Presidente del Rotary in questa azione di partecipazione emergenziale e passionale.
Parliamo di un servizio alla Democrazia in senso lato e nobile, sia essa massima espressione del governo nazionale di un popolo che in senso verticale, di un modello partecipativo di organizzazione della nostra comunità locale o infine del nostro club.
Mi piacerebbe vedere un contributo diretto e totale di tutti noi nella condivisione di argomenti che non sono specialistici se non per la cognizione generale, per il resto parliamo di decisioni alla portata di tutti noi poiché esse attengono alla sfera della propria più intima sensibilità e convinzione, della propria vita di ogni giorno, dei nostri figli, della nostra economia familiare per i quali siamo tutti portatori di interessi legittimi e indiscussi.
La democrazia ed il Rotary si fondono in un unicum che amplia il processo decisionale a favore di ogni socio che partecipa, dibatte, influenza e cambia o fa cambiare idea su un percorso che poi deve essere pronto, completo, comprensibile ed applicabile per la gente e non per pochi eletti.
Quindi caminetti, incontri sobri e produttivi, dibattiti animati ed aperti a tutti e meno cene e saluti ed alamari e titoli ed autorità rotariane strombazzate che ci disperdono in cose vacue ed anacronistiche che hanno fatto il loro tempo ed oggi disturbano ed offendono i rigori di questo nuovo clima di asciutta concretezza sociale ed allontanano le migliori risorse dai clubs.
Quindi propongo che il tema venga affrontato pubblicamente con un relatore, un istruttore e poi un dibattito su tesi e proposte che devono tenere conto delle opinioni maturate sulla scorta delle conviviali tecniche precedenti alle quali inviteremo esperti in contraddittorio pubblico.
Saremo un’opinione pubblica illuminata e decisa ad innescare atti di sentimento comune.
Cosa auspica questo percorso: Efficacia, rapidità, qualità del pensiero e capacità di “premere” per portare a compimento almeno una sola delle nostre proposte.
Cita il Talmud: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Senza voler essere blasfemo, abbiamo il dovere di ridare speranze e progetti e viviamo in un periodo di riflusso ma la gente ha bisogno di poche piccole grandi cose di enorme valore: normalità, civiltà, dialogo, comprensione, lavoro, fiducia, speranza.
Contribuiamo a salvarne o rilanciarne almeno uno di questi valori, certamente non salveremo l’umanità ma avremo servito la nostra gente onorando il mandato del Rotary.
L’obiettivo finale è rigenerare una funzione del Rotary che non fa politica ma diventa “parte sociale” del dibattito sugli interessi della nostra comunità.
Essere “parte sociale” significa essere portatore riconosciuto e legittimato di interessi diffusi e recettore di proposte e spunti ed idee 0 soluzioni meritevoli di essere poste al centro della formazione di una volontà influente che può e deve determinare ogni decisione politica, economica o sociale che ricade sulle nostre vite ed attività.
Se riusciremo in questo disegno, il nostro concreto l’servire” avrà certamente aiutato con un bell’esempio di democrazia diretta l’auspicabile raggiungimento di una minore sofferenza in questa nostra angosciata comunità.