Culture


LETTERA AL PRESIDENTE DEL ROTARY CLUB PALERMO EST ANNO ROTARIANO 2008-2009 FILIPPO SORBELLO
Carlo Bonifazio, Roberto Romano
Presidente Rotary Club Palermo Est, Past President Rotary Club Palermo Est

 
”Uomo e Società” Bollettino del Rotary Club Palermo Est, continua il suo viaggio attraverso l’analisi delle tematiche che coinvolgono l’uomo dei nostri tempi.
“A” come “Ambienti” e “B” come ”Burocrazie” sono stati i primi due volumi. Per “C” come “Culture” si è voluto sottolineare, in modalità rotariana, l’esigenza di trasmettere quel necessario patrimonio di conoscenze e di coscienza che Ogni uomo ha maturato durante il suo percorso di vita.
Infatti, diventa oggi fondamentale riuscire a trasmettere alle future generazioni il senso di identità culturale maturato all’interno di quel contesto sociale che, avendo a sua volta ricevuto ed elaborato le influenze delle generazioni precedenti, dà vita al senso di appartenenza che connota ogni civiltà strutturata.
La diffusione della Cultura consente la comprensione fra i popoli e attraverso la comprensione delle ragioni dell’altro, essa mira alla risoluzione dei conflitti: essere promotori di Pace è una delle Mission fondamentali per noi rotariani e, con la pubblicazione di questo numero, il Rotary Club Palermo Est se ne fa parte attiva.
Agli Autori dei testi un particolare ringraziamento per avere trattato un tema di così alto valore.
Al Coordinatore Editoriale Davide Camarrone, al Direttore Responsabile Antonino Pizzuto e a tutti i Componenti del Comitato Editoriale, il riconoscimento del Club per avere contribuito alla realizzazione di questo numero.

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LE CULTURE DEL MONDO
Davide Camarrone
Coordinatore Editoriale

 
Ci sono parole che meglio di altre corrispondono all’esigenza di ogni epoca di connotarsi.
Cultura, declinato al plurale, definisce a nostro modo di vedere il nostro tempo: con le sue accelerazioni improvvise e le sue tentazioni improvvide.
Nella scoperta scientifica intravediamo la strada per emendarci dal bisogno materiale, per alleviare le fatiche e liberarci da alcune schiavitù, ma solo nelle Culture, nel rispetto delle diverse identità, delle nostre storie diverse, è la strada per mantenerci vivi e vitali.
Scrivere di Culture, è raccontare del passato ma anche e soprattutto del futuro.
Il nostro presente, afflitto da crisi e conflitti, è ad un difficile crinale.
Saper chi siamo, conoscere e conoscerci: tutto questo, sta ad ognuno di noi come la carta geografica ad un marinaio, come le stelle ad un viandante.
In questo numero della nostra rivista, ci siamo occupati del tema che ci eravamo proposti svolgendolo, come sempre, da diversi punti di vista, ma con eguale tensione morale.
Abbiamo scelto di pubblicare uno scritto di Giovanni Tranchina in ricordo del nostro consocio, della sua straordinaria lezione morale e intellettuale.
Confidiamo di aver fatto un buon lavoro.

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MOGADISCIO-TRIPOLI-LAMPEDUSA
Davide Camarrone
 
Quando digito Mogadiscio, Google Maps mi dà per primo l’indirizzo di un’immobiliare torinese: si chiama così, Immobiliare Mogadiscio.
Vado giù con il cursore.
Invio.
Ecco: dalla capitale somala a Tripoli ci sono 10.768 chilometri.
Passi per l’Etiopia, il Sudan, il Ciad, il Niger, l’Algeria, la Tunisia e, infine, arrivi in zona di guerra: Libia, Tripoli.
Sei giorni e 20 ore in auto, calcola il sito di ricerca, supponendo che tu ti muova in auto su strada, regolarmente, senza far mai sosta.
Ci sono tratti di strada di 500, 600, 700 chilometri; uno di 1300.
Temo che i seicento affondati a pochi metri dal bagnasciuga, a Tripoli, su un catorcio arrugginito, non siano arrivati in auto al porto dei mercanti: su dei vecchi camion, forse, pullmann, jeep, e persino a piedi, per un tratto. Parliamo di milioni di sfollati, negli ultimi 5 anni. Non temono nulla.
Nulla da perdere. Hanno conosciuto le guerre: i Signori della Guerra. Poi la repressione. Le Corti islamiche. La fuga è rimasta la sola alternativa. Passando con donne e bambini per altre povertà, altre dittature, altri scontri.
Come si fa a pensare a tutto questo e a non restarne turbati? Quando scrivo, mi figuro sempre le persone. Ad un certo punto, letti i documenti, assimilate le informazioni, metto tutto da parte.
Immagino.
Mi figuro le persone, anzitutto. Do a questi sconosciuti i volti delle persone che conosco, incluso il mio. Me li immagino magri e rassegnati. Sofferenti. E immagino anche i bambini. I nostri. Strappati al nostro stagno di certezze e gettati in un oceano di povertà.
C’è un primo momento in cui questi sconosciuti – ora, per ipotesi, diciamo: “noi” – lasciano le loro case. Noi le lasciamo. O forse prima di noi le hanno lasciate i nostri genitori. Per salvarsi. Per salvarci. Ora, le nostre case sono dei grandi campi in cui non vi è legge.
I caschi blu ugandesi sono nemici.
In modi che non riesco a figurarmi, alcuni di noi riescono a procurarsi del denaro. Ci sono anch’io. I miei. Partiamo. Ed è un viaggio lungo. Dura settimane. Mesi. Ad ogni stazione di questa via crucis, è una spada che precipita su di noi e dilania vittime innocenti.
Rapine, stupri, omicidi: qui, riaffiorano le testimonianze che ho letto nei documenti, nei resoconti delle organizzazioni umanitarie e in alcune inchieste giornalistiche.
I sopravvissuti hanno di fronte anche il deserto. C’è una fila di camion che aspetta. Lungo la strada, vediamo scheletri di vecchie auto. E dalle dune – qui cito fotografie, e filmati – corpi semisepolti.
Cosa resta della nostra umanità, dopo tutto questo? Quando arriviamo a Tripoli, quel che resta di noi non ha più cuore, né respiro.
C’è chi è passato per l’inferno di Kufra. Ma i campi di concentramento sono stati abbandonati dai soldati predoni: c’è la guerra, in Libia.
Qualcuno ci aveva detto che Mohammad Gheddafi era morto. E poi, no, che era ancora vivo. E con lui, i soldati mercenari del Ciad avevano spalancato i cancelli dei campi per far fuggire i prigionieri.
Verso I’Europa.
Sarebbe morto presto, il Raìs.
L’attesa, per noi, a Tripoli, è durata tre settimane. Una volta, dei soldati ci hanno minacciati. Hanno picchiato Omar che chiedeva perché. Omar è morto due giorni dopo. Omar era un maestro. Aveva 40 anni.
Poi, ci dicono che le navi partono per Lampedusa.
Lam-pa-du-za. Finalmente.
Salgono in tanti, sulla prima. A noi, ci fermano, le armi spianate. Ci tengono addossati ad un capannone. Come se ci dovessero fucilare.
Un’ora dopo, partiamo anche noi. Siamo centinaia.
Ora – faccio un a parte: questo è il momento, attenzione – la nave oscilla. E’ troppo carica. lo mi stringo a mio fratello. E su di noi si precipita una montagna di persone. El il peso del mondo. Mi trascina via, e finisco in mare. Non so come, riesco a ritrovare mio fratello, e ad afferrarlo per un piede. Ha del sangue sul viso. La nave affonda, e rischia di trascinarci giù.
Svegliati, dico. Sono tutti morti. Tutti.
Nuotiamo. Ci salviamo.
Fine.
Quando mi figuro quel che accade, penso che può capitare a tutti.
Nel Canale di Sicilia, leggo su Fortress Europe, sono morte decine di migliaia di persone. L’undici aprile del 2011, erano oltre 16.000. Il 13 dicembre, 18.000. Quelli accertati: ufficiali. Ora chissà quanti.
Nei post, il blog racconta di stragi, cadaveri ripescati, fughe dai centri d’accoglienza, di espulsioni dissimulate, rivolte e pestaggi.
Ma i morti sono molti di più. In mare. E quanti, lungo le strade che conducono dai villaggi ai porti? Quanti, nelle guerre africane? Io mi sento in una specie di Novecento, tra due guerre, la prima e la seconda, nel silenzio europeo sull’orrore dei campi che uccidevano in Europa e in Asia milioni di persone.
Il nostro mondo, così preoccupato da fingere di non vedere, mi pare destinato ad esser travolto dagli eventi.
Chi è il nemico, mi chiedo? Sono io, mi rispondo.

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GLI ARABI E GLI EBREI DI SICILIA
Pasquale Hamel
 
“Stupenda città; somigliante a Cordova…i Musulmani di questa città…tengono in buono stato la più parte delle loro moschee; fanno la preghiera all’appello dei muâddin; hanno borghi proprii, ne’ quali abitano non [mescolati] co’ Cristiani: i mercati poi son tenuti da loro ed essi [soli] vi esercitano il commercio….Hanno un cadì, che rende ragione nelle liti [surte tra] loro ed una moschea gâmi (cattedrale), nella quale si adunano per la preghiera e vi accorrono a [veder] la luminaria in questo mese santo. Le moschee loro sono innumerevoli: la più parte servono di scuola a’ maestri del Corano….”
Questo brano, riferito al Palermo e riportato da Michele Amari nella Biblioteca Arabo-Sicula, appartiene al viaggiatore arabo ‘ibn Gubayr che, sotto il regno di Guglielmo II d’Altavilla, fece un lungo viaggio, dalla Spagna, terra di sua probabile origine, all’Egitto, fermandosi anche in Sicilia.
Al di là delle meraviglie e delle recriminazioni che lasciano ampio spazio ad invettive contro i Cristiani che si sarebbero appropriati di una terra considerata, a torto o ragione, appartenente all’ecumene islamico, quel che si coglie nel racconto del viaggiatore musulmano è lo specifico contesto sociale che offre Palermo, che è poi metafora della stessa Sicilia normanna, nella quale, piuttosto che conflitti, si assiste ad inusuale e quasi miracolosa coesistenza di religioni e culture.
il miracolo, se così lo si vuol chiamare, lo realizzarono, fin dalla conquista di Palermo, nel 1072, i due grandi condottieri della famiglia Altavilla, Roberto il Guiscardo ed il fratello Ruggero, i quali intuirono chela prosperità di un territorio multietnico e multireligioso, qual era la Sicilia del tempo, poteva essere garantita solo dal coinvolgimento delle diverse comunità in un grande progetto di crescita e di sviluppo al quale, ciascuna di esse, secondo i propri talenti, portasse il relativo contributo.
Non era un progetto facile da portare avanti considerato che, soprattutto, la Chiesa locale e le comunità greche che avevano sofferto la presenza islamica, erano di tutt’altro avviso e che i comites dei due grandi condottieri, cioè i cavalieri Normanni che avevano permesso agli Altavilla di conquistare l’isola, non pensavano a condivisioni quanto, piuttosto, ad impadronirsi, in modo esclusivo, del governo e dell’amministrazione del territorio degradando coloro che ne erano stati fino a poco tempo prima i padroni allo status di semplici schiavi.
La forte personalità di Ruggero, divenuto l’unico titolare del potere dopo la partenza e la successiva morte del fratello Roberto del quale era egli stesso vassallo, riuscì tuttavia a compiere il miracolo.
Furono, infatti, bloccati i tentativi di conversione forzata, offerti notevoli spazi d’autonomia a Musulmani ed Ebrei, le due comunità non cristiane presenti nel territorio, frenando così la volontà di schiavizzare i non Cristiani ai quali venivano riconosciuti diritti.
La Sicilia dei Normanni, venne, dunque, sostanzialmente, ordinata come società multiculturale. Ciascuna comunità culturale e religiosa si amministrava in modo autonomo, con le proprie liturgie, usando la propria lingua, obbedendo ai propri ordinamenti giudiziari, mantenendo specifici stili di vita – anche se proprio su quest’ultimo aspetto le differenze fra le varie comunità erano minime, ce ne rendono edotti gli stessi viaggiatori arabi quando riferiscono che, ad esempio, le donne cristiane non differivano negli abbigliamenti dalle donne musulmane – tutto questo garantito dalla presenza del sovrano normanno che, come scriveva uno scrittore arabo, ”ministra secondo la religione della giustizia”.
Non è dunque senza giustificazione se, un altro viaggiatore, ‘ibn ‘ldris, autore del famoso Kitâb nuzhat ‘al mustâq (meglio noto come il Libro di Ruggero) , possa scrivere entusiasticamente “il più nobile subìetto sul quale versar possa chi vede [addentro nelle cose degli Stati] e possa esercitarvi il pensiero e la riflessione, è [l’alto grado] a che saliva il ridottati Ruggero (si parla di Ruggero II, primo re di Sicilia), esaltato da Dio, potente per divina grazia [mu’azzam] re di Sicilia, Italia, Longobardia e Calabria…”.
Un miracolo che neppure gli stessi Arabi, padroni dell’isola per oltre due secoli, erano riusciti a garantire per le comunità greche e giudee presenti e che, tuttavia non dura a lungo visto che sulla fine del regno normanno rapidamente tramonta.
Già, infatti, durante il regno di Guglielmo I, si verificano saccheggi e violenti scontri ai danni delle minoranze etniche e religiose, che mettono sulla difensiva le comunità musulmane e preannunciano un destino da tempo “annunciato”.
Quella società multiculturale viene spazzata via con l’arrivo degli SvevL ll sogno della convivenza, di un modo diverso di rapportarsi fra comunità e culture diverse, si conclude, infatti, negli anni che vanno dal 1220 al 1246 con la terribile pulizia etnica, voluta e condotta, con spietata e teutonica determinazione, dall’imperatore Federico II nel tempo corrente considerato, a mala ragione, il simbolo stesso della tolleranza.

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CULTURE, NAZIONI E STATI NEL MONDO CONTEMPORANEO
Antonio La Spina
 
L’idea di Nazione sembrerebbe oggi, a prima vista, in una crisi irreversibile. Le frontiere appaiono sempre più aperte alla circolazione di merci, capitali, persone, idee. Molti problemi cruciali vengono trattati ad un livello sovranazionale, o talora mondiale. l flussi migratori e altre trasformazioni delle società contemporanee favoriscono l’incontro e la mescolanza delle culture. Nell’Unione Europea, in particolare, gli Stati membri hanno via via trasferito quote di sovranità al livello comunitario. Oltre che a essere indebolita dall’alto, la nazione sembra poi, almeno in alcuni casi, sempre più minacciata anche dal basso. Si pensi alla Catalogna o ai Paesi baschi che rivendicano una sempre maggiore autonomia in Spagna, o alla Scozia e al Galles nel Regno Unito, o ancora a quanto sta succedendo in Italia.
Tutte queste tendenze sono reali. Ma non tutte hanno lo stesso significato e lo stesso peso ai fini della valutazione dell’attualità del concetto di nazione. Proviamo a mettere un poI di ordine.
Una nazione è un’unità di cultura, popolo, storia, lingua (il più delle volte), letteratura e arte in genere, e ancora terra, luoghi, simboli, edifici. Tutto ciò è capace di suscitare un sentimento di appartenenza, un’identificazione che ha a che fare con la socializzazione e con ragioni almeno in parte ideali, distinte da quelle materiali. Con la fine della prima guerra mondiale terminarono gli imperi, cioè entità politiche che sotto un unico livello sovrano vedevano convivere più popoli (e quindi più nazioni). Sulle ceneri dell’impero Ottomano, di quello austro-ungarico, di quello russo si affermarono molti Stati nazione. Sembrò quindi che arrivasse a compimento l’idea, di molto antecedente, secondo cui ad ogni nazione dovesse corrispondere uno Stato. La stessa idea Che nel secolo precedente aveva sostenuto l’unificazione tedesca, così come quella italiana.
Durante il diciannovesimo secolo, così come nella prima metà del ventesimo, era il nazionalismo il principio ispiratore più importante della politica internazionale e interna. Dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale, il nazionalismo perse molta della sua attrattiva. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la creazione di istituzioni sopranazionali come I’Onu, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la fine del colonialismo, la divisione del mondo in due blocchi, l/idea secondo cui gli interessi di certe classi e la conseguente lotta di classe avessero anche o soprattutto una dimensione internazionale, erano tutte novità che indicavano piuttosto una perdita di salienza della dimensione nazionale.
Con la fine della guerra fredda, però, a ben vedere molte istanze nazionali sono vigorosamente riemerse. La Germania si è riunificata, ripristinando l’unità tra popolo e Stato. Repubblica ceca e Slovacchia si sono separate. Numerose repubbliche già appartenenti all’Urss (anche molto piccole, come quelle baltiche, ma di salde tradizioni nazionali) sono diventate indipendenti, e lì dove ciò non è successo – come in Cecenia – le tensioni sono continue e sanguinose. ll Tibet calpestato dalla Cina è un’altra nazione che non gode del riconoscimento che le spetterebbe. La Jugoslavia, una federazione che si era mantenuta unita per lo più grazie alla leadership di Tito e alla sua posizione di cuscinetto tra i due blocchi, è ritornata immediatamente a suddividersi lungo linee di frattura nazionali (e anche qui dove vi erano conflitti irrisolti che covavano sotto la cenere, la risposta è stata la guerra).
Paesi di tradizione centralista come il Regno Unito o la Spagna ad un certo punto hanno cambiato orientamento. Caduto Franco, in Spagna non solo è stata creata una forma di Stato che dà rilievo alle Comunità autonome, ma si è aperta la strada a richieste ulteriori e sempre più marcate di distacco dal centro. l catalani, ad esempio, amano definirsi appunto come una “nazione”, diversa da quella che dipende da Madrid e parla castigliano. Nel Pais vasco (che viene appunto comunemente indicato appunto come un “Paese”, cioè un’entità storicamente e geograficamente distinta) non solo la lingua originaria non è neppure neolatina, ma vi è, come è noto, una forte tendenza separatista. Nel Regno Unito la devolution realizzata a fine anni novanta da Blair portò alla creazione di un’Assemblea nazionale gallese e di un Parlamento scozzese, nel quale oggi fa la parte del leone un Partito nazionalista scozzese. In Belgio, un paese spaccato in due tra fiamminghì e valloni, non è certo in crisi l’idea di nazione. Piuttosto, è lo Stato belga che ha difficoltà a contemperare adeguatamente i due sentimenti nazionali che sono presenti nel paese. Altrettanto dicasi per il Canada. In molti altri casi (lndia/Pakistan/Bangla Desh, Ruanda e Burundi, Somalia) si sono avute separazioni in base a differenze culturali (religiose, etniche), riconducibili anch’esse all’idea di nazione.
Vi sono poi esempi di paesi che, pur avendo al proprio interno una pluralità di lingue, etnie e culture, sono comunque riusciti a conseguire un’unità nazionale. A parte il caso svizzero, negli Stati Uniti spesso è stata garantita (sebbene non sempre appieno) una situazione in cui svariate comunità etniche si sono preservate come tali, ma i loro membri si vedono come cittadini Usa e quindi tutti come parte di una stessa nazione multietnica. Multietnicità, quindi, non multiculturalismo spinto. Nel primo caso, lingue, tradizioni, costumi, culture diverse convivono, ma i loro portatori sentono anche come propria una base culturale comune, che li rende pienamente cittadini statunitensi. Nel multiculturalismo, invece, ciascuna comunità etnica tende a restare ben distinta dalle altre, a non amalgamarsi, a mantenere anche e soprattutto valori e norme propri, talora antitetici con quelli condivisi nello Stato ospitante. Al limite, un minimo comune denominatore viene completamente perduto. È un rischio che va assolutamente evitato. Proprio in tempi di grandi flussi migratori e di interazioni tra le culture, quindi, i llrequisiti minimi’l dell’identità giuridica, politica e culturale di un paese vanno mantenuti e difesi (beninteso senza esagerare, come si è fatto talvolta in Francia).
Vi sono stati, e purtroppo vi sono ancora, nazioni senza riconoscimento, popoli senza Stato. Gli ebrei, fino alla costituzione dello Stato di Israele. Gli armeni, il cui problema è stato “risolto” sopprimendoli. Oggi i curdi, forse 20 milioni di persone suddivise tra Iraq, Turchia, lran e Siria, che aspirano legittimamente a darsi un proprio ordinamento politico. Anche i palestinesi hanno diritto ad un vero e proprio Stato. Se questo esistesse e vi fosse un riconoscimento reciproco con Israele, nonché un riconoscimento di Israele da parte degli Stati musulmani, si sarebbe fatto un tratto di cammino decisivo sulla via della pace.
Si direbbe, allora, che l’idea di nazione, che sembrava antiquata e in via di superamento fino ad alcuni anni fa, mantenga una vitalità indomita. Le nazioni si sono moltiplicate. Alcuni grandi paesi hanno visto riemergere al proprio interno svariate “piccole patrie”.
Ciò che è in crisi, piuttosto, è lo Stato-nazione. Stati grandi (come la Russia, o la Spagna) vengono sfidati al proprio interno da movimenti indipendentisti, i quali peraltro non fanno che riaffermare, dal loro punto di vista, proprio l’idea di nazione. Molti Stati rinunciano in concreto a poteri cospicui a favore dei livelli sovrastatali. Si pensi alla politica monetaria nell’Ue, per i paesi che hanno aderito all’euro; ai casi in cui il Fmi condiziona i propri aiuti all’adozione di certe politiche da parte degli Stati beneficiari; agli accordi in sede di Qrganizzazione mondiale del commercio. Problemi cruciali (come ad esempio il mutamento del clima, la regolazione dei mercati finanziari, la comunicazione telematica) non possono essere risolti se affrontati solo al livello degli Stati. Occorrono entità sovra-statuali. In certi casi (come quello del clima o dei mercati finanziari) ne servirebbe una mondiale.
Veniamo al caso italiano. L’ltalia ha avuto una precisa identità nazionale (ripeto: di cultura, lingua, storia, terra, simboli, letteratura, arte) molti secoli prima della sua unificazione, ma anche ben prima rispetto a svariati paesi europei – come la Spagna, il Regno Unito, la Francia – i quali furono unificati più dalla spada che dalla cultura. Ai primi due si è accennato. Quella che oggi è la Francia era un territorio in cui si parlavano spesso lingue diverse dal francese (come il bretone o l’occitano) e sussistevano quindi culture diverse, poi sottomesse da Parigi, con la forza. Dopo secoli di accentramento la Francia è diventata una nazione, ma non lo era prima.
Già per Dante, per non dire di Machiavelli, e per molti loro contemporanei, invece, l’Italia era un’entità storico-culturale-linguistica inconfondibile, cui però mancava un ancoraggio politico-istituzionale. Poi, quando l’unità era stata già conquistata, anche nell’Italia post-unitaria abbiamo avuto istanze indipendentiste a base culturalnazionale (nel Sud Tirolo, in Val d’Aosta, in Sardegna), oltre al separatismo siciliano, che invece non si giustificava su argomenti del genere. Ciascuna di queste istanze è stata in definitiva assorbita.
Oggi abbiamo piuttosto il fenomeno del leghismo, che contesta l’unità italiana e agita argomenti separatisti, senza però poterli fondare su una base autenticamente culturale/nazionale, come invece fanno i baschi, i catalani, gli scozzesi, i gallesi o i fiamminghi.
D’altro canto, lo stesso leghismo si contrappone anche all’immigrazione. Talora esso mostra ostilità verso gli italiani “non padani”, ad esempio in tema di posti nella pubblica amministrazione (fermo restando che buona parte di chi oggi risiede in Padania ha origini meridionali). ln genere attacca gli immigrati stranieri, facendo cosi valere a loro scapito l’identità italiana.
Checché ne dicano i leader leghisti (i quali, come è noto, intuendo a modo loro il problema hanno anche tentato di accreditare origini celtiche dell’identità padana), una base cultural/nazionale del loro separatismo non esiste. Se financo i piemontesi, che hanno fatto – sia pure a modo loro – l’ltalia adesso hanno fatto vincere la Lega, ciò non ha certo a che vedere con presunte radici culturali, ma assai più con interessi e preoccupazioni appartenenti alla sfera dell’economia.
L’idea di Italia come nazione certamente oggi desta forti insoddisfazioni, al Nord ma anche al Sud. La più importante delle questioni nazionali, quella meridionale, non è stata mai risolta. Un sentimento nazionale che condivida le regole del gioco in politica non è stato mai creato: né quando i cattolici erano fuori dalla vita politica, né ovviamente sotto il fascismo, né ai tempi della ”prima Repubblica”, e ovviamente nemmeno nella fase attuale, come è dimostrato dalle riforme costituzionali adottate a colpi di maggioranza semplice.
Pensare che l’identità e l’unità nazionali siano ormai una zavorra è una possibile scorciatoia. Certamente appetibile per chi agita una “questione settentrionale”. Forse autolesionista per chi invece volesse finalmente lasciarsi alle spalle l’arretratezza del Sud.

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LA CULTURA DELLE DONNE. KRAMER CONTRO KRAMER: MA VERSO DOVE?
Cristina Morrocchi
 
La manifestazione del 13 febbraio di quest’anno ha riportato in piazza, con una spallata di orgoglio civile, migliaia di giovani ragazze e vecchie signore che chiedevano rispetto per le donne del nostro paese sempre più irrise e vilipese, sempre più considerate soltanto come corpi, come oggetti sessuali, dai media e da tanta parte della politica italiana.
Proprio quella manifestazione mi ha portato a chiedermi, cos’è rimasto oggi, cosa si è salvato del grande movimento delle donne nato a cavallo degli anni ’70.
Potrei dire che io c’ero, e ho vissuto con gioia, io con tre figli e un marito già allora, quel grande momento di speranza. lo, in gonna a fiori e zoccoli, ho vissuto il sogno di una vita meno condizionata dalle scelte di genere, ho sperimentato il grande mito della liberazione, la gioia della sorellanza tra donne, ll impegno sociale nei confronti dei più deboli, il desiderio di conoscenza. Ho potuto, allora, cercare, nel lavoro e nella vita personale, la valorizzazione e il recupero di quanto le donne avevano fatto e costruito. I loro tanti lavori, le loro molte scoperte, le infinite lotte sostenute nel tempo e così spesso dimenticate dalla cultura ufficiale. Ho potuto concretizzare la voglia di un lavoro anche all’esterno della famiglia, quel lavoro che speravamo ci rendesse più vicine agli uomini. Noi donne, ovviamente differenti, ma pari per diritti e dignità agli uomini, nostri compagni, che, credevamo, potessero anche loro divenir liberi da quelle scelte di genere che li volevano granitici, insensibili, responsabili di ogni rapporto sociale e unica fonte di sostentamento della famiglia.
Noi, uomini e donne insieme, desiderosi di costruire una vita migliore, più libera e giusta, più sana e più colta per noi e per i nostri figli.
Noi che pensavamo di avere il mondo e il suo futuro in mano.
Mi chiedo, oggi, di tutte quelle speranze cosa sia diventato realtà, mi chiedo se quei sogni, che erano portatori di grandi valori, abbiano un senso ancora oggi, mi chiedo se, alle nostre nipoti vadano proposti gli Stessi valori e gli stessi modelli che abbiamo proposto alle nostre figlie.
Certo il mondo delle giovani di oggi, non è più quello degli anni ’70, da allora si sono susseguite molte leggi che hanno toccato quegli ambiti di vita in cui le donne non erano tutelate in forma pari agli uomini. Nel ’70, viene promulgata la legge sul divorzio e nel ’75 si hanno le norme del nuovo diritto di famiglia che introduce la parità di diritti e doveri tra i coniugi e sempre nel ’75 c’è la creazione dei consultori. E’ del ’77 la legge per la parità dì trattamento sul lavoro tra uomini e donne, e del ‘ 78 la legge per la tutela di una maternità consapevole. Nel ’87 si ha la normativa che semplifica le modalità di divorzio, nel ’95 le norme per le azioni positive da intraprendere contro le discriminazioni sul lavoro e finalmente nel ’96 la legge contro ì reati sessuali che inasprisce le pene e garantisce la riservatezza delle vittime.
C’è stato quindi, dal ’70 ad oggi, una grande innovazione legislativa e un forte mutamento dei costumi: oggi ci si aspetta che una ragazza studi, sono accettate le convivenze prematrimoniali, si dà per scontato che una donna contribuisca al sostentamento della famiglia anche se quel tetto di cristallo che limita il lavoro femminile non è stato sfondato. Oggi gli uomini cominciano a collaborare nella cura del nucleo famigliare, ma tutto ciò ciononostante, la crisi dei valori, che ha permesso ai beni materiali di divenire garanzia di felicità, e la successiva crisi economica, sembra abbiano appannato sogni, speranze, e soprattutto prospettive future. E le nostre giovani, come i nostri giovani, appaiono sfiduciate e molto legate al giorno per giorno. Appaiono stanche, soffocate da un mondo troppo grande per esser controllato, un mondo dalle troppe scelte possibili e dalle poche certezze. Un mondo in cui i doveri sono aumentati e gli aiuti diminuiti.
E dire che la Comunità Europea, ancora nel trattato di Lisbona del 2007 puntava già per il 2010!!! ad avere cittadini e lavoratori consapevoli, padroni di un alfabetizzazione informatica alta, forti della conoscenza di almeno due lingue comunitarie, capaci di comportamenti politicamente corretti, a cominciare da un uso non sessista della lingua. Ma, soprattutto, mirava ad un 25% per cento in più di occupazione per le donne.
Quasi nulla si è realizzato e oggi sappiamo che anche le tre i (inglese – informatica – impresa) che avevano segnate le prime campagne politiche del Partito della Libertà, sono rimaste parole vuote per la stragrande maggioranza dei cittadini.
Certo il quadro generale in cui ci muoviamo non è particolarmente roseo, incertezze e instabilità ci arrivano da ogni dove: pensiamo ad esempio al fenomeno della mondializzazione e alla radicalizzazione dei conflitti etnici e religiosi; pensiamo alla dura crisi del welfare state; ma soprattutto pensiamo alla crisi del modello di vita occidentale e in particolare della famiglia. Tutto questo dà origine a un sentimento di paura diffuso che schiaccia sul presente le aspettative e i desideri dei nostri giovani, donne e uomini.
In questo quadro il nostro paese è tra quelli che poco o niente hanno investito sulle nuove generazioni. Sempre meno investimenti sulla cultura, unica capace di far decollare sogni e intraprendenza, sempre meno nella sanità, sempre meno nei servizi sociali e la somma di tutti questi meno è pesantemente, ricaduto sulle spalle delle donne. Niente asili, meno scuola pubblica, università sempre più cara, precariato diffuso, sempre meno garanzie previdenziali, niente per gli anziani e adesso anche il tentativo di cancellazione dei consultori, unica forma gratuita di sostegno alla famiglia. E la famiglia, sempre più povera e negletta, sembra diventare un ricettacolo di violenza, di rabbia, ma soprattutto di incuria; basti pensare alle tante realtà svantaggiate dove non si cucina più e si conoscono solo cibi economici e già pronti, o agli incredibili recenti casi di ”dimenticanza” dei figli in macchina, al supermercato, in strada.
Ma quali erano i punti di forza delle donne nel loro desiderio di liberazione e di parità? C’era prima di tutto la voglia conoscersi, di raggiungere la consapevolezza di sé, delle proprie capacità e possibilità e, contemporaneamente, c’era la voglia di conoscere l’altro scoprendo e rispettando le tante reciproche differenze. Differenze che si volevano vivere come occasione di ricchezza e non come fonte di disuguaglianza. C’era anche un approccio critico ai comportamenti più diffusi per liberarli dagli stereotipi maschili e femminili che li connotavano. Un desiderio diffuso di promuovere e sviluppare le capacità di ognuno, donne e uomini, per giungere a cooperare e integrare individui e realtà diversi.
Per raggiungere questi obiettivi si partiva dalla propria esperienza di donne valorizzando una intelligenza emozionale, più femminile, da contrapporre a una intelligenza tutta razionale, più maschile.
Questo perché si riteneva estremamente importante inserire le emozioni, gli affetti, le relazioni nell’analisi degli accadimenti che si andavano verificando. Si cercava di inventare un modo diverso di stare nelle famiglie e nel sociale, un modo che tenesse in piedi sia la parte razionale che la parte emotiva di cui ognuno è portatore. Si voleva abbattere la rigida barriera tra pubblico e privato che tagliava il mondo delle donne fuori dal più ampio contesto sociale e così riuscire ad intrecciare le storie personali con i ruoli professionali e i ruoli sociali. Si voleva abbattere la rigida barriera che separava il mondo degli affetti e delle emozioni dal mondo dell”intelligenza e del lavoro che tagliava gli uomini fuori dalla vita della famiglia.
E, sopra ogni cosa, si cercava quella visibilità sociale che ci avrebbe permesso di incidere nelle scelte dei governi, portandovi la nostra vocazione alla pace, alla relazione tra i popoli, alla protezione dei più deboli dentro e fuori dalla famiglia. Certamente, come si diceva, molto è stato conquistato sul piano legislativo e, negli ambienti più avvertiti, nelle relazioni private, ma occorre ammettere che in campo politico poco è stato raggiunto tanto che il nostro paese è a tutt’oggi, tra le nazioni europee, ma anche rispetto a molti paesi emergenti, quello che ha minor rappresentanza femminile. La Fondazione Marisa Bellisario si chiede se è perché non sono sufficientemente conosciute le donne con le giuste professionalità e sta raccogliendo i profili di mille donne eccellenti che hanno proprio tutti quei requisiti che sono ritenuti necessari per ricoprire le più alte cariche. Il database così realizzato sarà a disposizione di aziende, enti pubblici e ministeri. Vedremo se qualcosa si muoverà: e non si tratta di una rivendicazione, ma della semplice constatazione che manca, là dove si decidono le cose, la rappresentatività, la voce, di almeno metà dei paese: la parte femminile.
Ed è questo l’insormontabile paradosso della politica delle donne: nel contesto di una democrazia come la nostra, nel quale le donne vivono una condizione complessivamente svantaggiata, esse risultano invisibili e inascoltate anche nelle situazioni in cui sono presenti, tirano fuori la voce e riempiono le piazze di tutta l’ltalia.
D’altronde, anche in occasione dei 150 anni dell’Unità, il contributo di lotta di tante donne italiane, del Nord e del Sud, al nostro Risorgimento non solo non viene ricordato, altro che con rare eccezioni, ma si arriva all’assurdità commessa da “La Stampa”, l’autorevole quotidiano di Torino, che ha pubblicato un elenco di autori imprescindibili per la formazione di una cultura specificatamente italiana da cui emerge come dentro questa cornice, patriottica e letteraria insieme, non ci siano donne o quasi. Un unica eccezione: il nome di Oriana Fallaci. Ma un destino di totale oscuramento è riservato alle grandi figure femminili della letteratura italiana del ‘900, da Natalia Ginzburg a Amelia Rosselli, da Elsa Morante a Sibilla Aleramo e Annamaria Ortese, da Alda Merini, a Grazia Deledda e Alba De Cespedes, per nominare solo alcune di quelle scomparse. Nessuno dei redattori de “La Stampa”, le ha ritenute meritevoli di una segnalazione nel “pantheon” della cultura nazionale. Possono sembrare meschinerie veterofemministe, ma nel caso del Salone del Libro di Torino, per i 150 anni dell Unità, ho l’impressione che ci venga negato qualcosa di molto importante: venga negato il diritto di noi, donne di questo paese, all’italianità’.
E che dire allora alle nostre giovani? in quali esempi farle rispecchiare? Se vengono a mancare i modelli comportamentali come potevano essere quelli delle eroine risorgimentali o culturali come quelli delle grandi scrittrici non restano che modelli televisivi, come quelli delle veline.
Allora forse è necessario che la cultura e l’impegno delle donne riprendano a lavorare dall’intuizione che Virginia Woolf espone nel suo saggio Three Guineas, pubblicato nel 1938 alle soglie della seconda guerra mondiale. Qui la scrittrice immagina che un’associazione pacifista maschile le chieda un contributo per finanziare iniziative che possano scongiurare le minacce di guerra: Virginia possiede tre ghinee, e decide di ripartirle tra tre diverse opere di beneficenza per ottenere con lo stesso scopo.
La prima ghinea sarà per quello, tra i pochi e poveri colleges femminili di allora, che si impegnerà ad insegnare «…la medicina, la matematica, la musica, la pittura, la letteratura. E l’arte dei rapporti umani; l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri, insieme alle arti minori che le completano: l’arte di conversare, di vestire, di cucinare». Arti che favoriscono la pace perché mettono insieme gli esseri umani, arti che s’insegnano con poca spesa e che possono esser esercitate da tutti senza necessità di molto denaro. Inoltre, in quel college non si dovranno insegnare le arti che dividono, che opprimono e che producono guerre come «…l’arte di di uccidere o di accumulare terre e capitale».
La seconda ghinea andrà a un’associazione che favorisce l’ingresso delle donne nelle libere professioni, perché se tutte le professioni potessero essere esercitate dalle donne, le professioni stesse ne sarebbero trasformate grazie al particolare, diverso, modo di essere delle donne.
La terza ghinea infine andrà all’associazione pacifista maschile. E’ il pensiero della Woolf? E’ eccessivo? Utopistico? Forse.
Ma quello che con la Woolf si comincia a immaginare, e tante altre dopo di lei perfezioneranno, è un nuovo impegno delle donne che applichi nella società quel LAVORO Dl CURA da esse sempre svolto nella famiglia. Un LAVORO Dl CURA complessivo che investa tutti gli ambiti del vivere. Un LAVORO DI CURA colto e forte di valori ideali. La Woolf parlava di letteratura e medicina, di arte della conversazione e matematica, di musica e capacità di cucinare, di possibilità di comprendere gli altri e di evitare le guerre. Non pensava quindi che per le donne il LAVORO Dl CURA si realizzasse solo nelle pratiche di lavoro e responsabilità familiari svolte per mariti, figli, anziani. Ma ciò che propone è di elevare quel tipo di lavoro arricchendolo di conoscenza, cultura e sensibilità tali da farne il LAVORO DI CURA del mondo.
Un LAVORO DI CURA sia degli aspetti materiali che degli aspetti intellettuali e relazionali della società, un lavoro che renda quella società “accogliente”, ne preservi il tessuto di memorie, ne arricchisca le conoscenze, ne favorisca le relazioni in un ottica di rispetto e responsabilità vicendevoli.
Non si vogliono rinnegare gli aspetti materiali del LAVORO DI CURA, che è sempre stato appannaggio delle donne, come l’igiene o il rapporto con il cibo o l’assistenza ai familiari ma, partendo da questa stratificata esperienza del quotidiano, si vuole valorizzare il senso del contributo delle donne, non solo alla vita della famiglia ma anche al muoversi del mondo. Dalla consapevolezza, quindi, che le donne debbono avere della propria collocazione nel mondo, dalle loro conoscenze e abilità devono nascere sia progetti di vita personale sia progetti di vita della società.
Si tratta metter in moto processi di relazioni con gli altri, in spazi sia privati che pubblici, nella famiglia e nel lavoro, dando al LAVORO DI CURA quella connotazione etica da cui si possano far nascere un forte sentimento di condivisione per i valori del vivere civile.
Processi del LAVORO DI CURA che comportano l’attenzione, e la tutela dell’ambiente-mondo nonchè la consapevolezza che gli sviluppi e i limiti sostenibili passano attraverso i diritti ma anche le responsabilità di ognuno.
Oggi, in un mondo in cui è sempre più forte la richiesta di valori di riferimento se non nuovi, almeno rivisitati e attualizzati, valori che possano dar senso tanto alle scelte individuali quanto a quelle pubbliche, la cultura della comprensione materna, del recupero e della rigenerazione, insita nel LAVORO DI CURA, può esser considerata una proposta fruttuosa per il futuro perché coniuga la sapienza femminile con il concetto di responsabilità complessiva che è condizione indispensabile per ogni crescita futura.
ll LAVORO Dl CURA valorizza le differenze che distinguono donne e uomini e le concretizza nella formazione di cittadine e cittadini ricchi di conoscenze culturali, forniti di memoria storica e senso della cittadinanza, proiettati nella costruzione di un mondo migliore, sicuramente meno ricco ma più gentile ed umano, un mondo a cui restituire decoro, dignità e bellezza.
Una buona ipotesi di lavoro anche per il Rotary.

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C COME CASTELLI
Pietro Pulvirenti
 
C come cultura, C come castelli, C come cultura dei castelli.
Credo che in Italia, oggi, vi sia molto bisogno di riscoprire la cultura, da quella del linguaggio, a quella politica a quella televisiva. La cultura dei castelli è una delle più antiche e conservatrici, ma è anche una delle più affascinanti.
In Italia esistono migliaia di castelli e rocche fortificate. Si tratta del patrimonio architettonico più importante dopo quello chiesastico, ma certamente non è conosciuto e valorizzato per come meriterebbe.
Solo in alcune regioni italiane – in particolar modo la Valle d’Aosta ed il Trentino AltoAdige – la cultura del patrimonio castellano, attraverso la sua conservazione, restauro e valorizzazione, è diventata anche occasione di sviluppo. ln dette regioni le visite ai castelli fanno parte di ogni programma turistico e le file dei visitatori paganti stanno a testimoniare non solo l’interesse per i siti castellani ma anche i benefici economici che ne derivano.
ln Francia le visite ai castelli fanno parte abitualmente dei pacchetti dei tour operators. Addirittura, nel 2000, il governo francese, ritenendo ancora insufficiente il livello di utilizzo di questo patrimonio architettonico, istitui una apposita Agenzia per lo studio delle possibilità di incremento dell’uso non solo turistico dei castelli.
E noi che abbiamo uno dei patrimoni castellani più ricchi e variegati d’Italia, con testimonianze che vanno dall’epoca greca fino ai nostri giorni passando per tutta la storia dell’architettura, noi come ci comportiamo? Dal censimento effettuato per redigere il volume “Castelli medievali di Sicilia”, edito dalla Regione Siciliana per iniziativa della sezione Sicilia dell’Istituto Italiano dei castelli, è risultato un elenco di oltre 300 testimonianze castellane, di cui circa l’80% riscontrabile sul territorio (anche se in molti casi solo nella forma del rudere), mentre il residuo 20% è solo attestato dalle fonti. Ma questo censimento ha volutamente preso in esame solo i manufatti edificati in epoca medievale, cioè dalla metà dell’Xl secolo fino agli inizi del XVI. Se si potesse (e si dovrebbe) completare il censimento con le testimonianze di epoca precedente e successiva a quella presa in esame, l’elenco sarebbe ben più lungo.
Ma, purtroppo, di questo enorme patrimonio architettonico solo una ventina circa di edifici castellani sono stati riportati dai restauri ad un uso pertinente e dignitoso; gli altri, se non ridotti a ruderi, sono spesso edifici manomessi e sfigurati da secolari usi impropri (tipico, ad es., è l’uso dei castelli per strutture penitenziali).
Perché, allora, dovremmo impegnarci a conservare e poi valorizzare questo patrimonio? Prima di tutto per un motivo di civiltà, di civiltà culturale, poi per un motivo di dignità storica e sociale.
Ma si dovrebbe prima uscire dal clima di indifferenza che, specialmente nelle pubbliche istituzioni, aleggia da qualche anno sul nostro patrimonio culturale. Come, ad es., si può ignorare l’indifferenza con la quale è stata accolta dalla città di Palermo la contemporanea chiusura, per doverosi adeguamenti strutturali, dei due più importanti musei cittadini, operazioni certamente programmate ma che nel programma di chiusura non hanno minimamente previsto che potessero essere reperite ed usate, temporaneamente, altre strutture succedanee di accoglimento almeno di una parte delle opere d’arte esposte nei due musei chiusi? Solo le associazioni culturali presenti nella città hanno levato – inutilmente – una voce di protesta.
Questa indifferenza ricorda un poI quella con la quale, nel 1923-24, fu accolta la demolizione del castello a mare di Palermo, storica ed importantissima testimonianza del passato di questa città. ln quella occasione, solo una piccola parte della società cittadina più colta ed illuminata levò la voce per protestare (anche allora inutilmente) contro quello scempio devastante.
Come può la Sicilia sostenere la propria vocazione turistica se non investe massicciamente nella conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico, di cui quello castellano è parte importante e certamente fra le più suggestive? Ma, fortunatamente, negli anni scorsi vi è stato un ritorno di attenzione, anche se parziale, sul nostro patrimonio castellano, attenzione che però, limitata anche dalle scarse disponibilità finanziarie pubbliche, si è ben presto esaurita.
E’ amaro constatare come queste grandi strutture architettoniche, sia che si tratti di mura urbane o di castelli veri e propri o, addirittura, di chiese fortificate, siano trascurate dalle pubbliche iniziative mentre esercitano sempre un grande fascino sulla gente. l castelli, sopratutto, colpiscono l’immaginazione degli osservatori non solo per l’imponenza delle loro dimensioni, per la ciclopicità delle masse impiegate per la loro realizzazione, per l’arditezza dei siti di edificazione, ma anche per le fantasie legate alle avventure cavalleresche o per le trame oscure che si ordivano nel cuore delle loro mura che, per il loro spessore, sembrava potessero nascondere e conservare ogni segreto.
Ma, ci si può chiedere, perché questo risveglio di attenzione in Italia è intervenuto da non molti anni, cioè da poco più di un trentennio? Le spiegazioni possono essere molteplici ma, a mio avviso, una soprattutto mi sembrerebbe prevalente: nel diciannovesimo secolo la cultura italiana è stata molto condizionata dall’influsso del neoromanticismo di matrice germanica che, nella sua ricerca accademica delle fonti del sapere, privilegio senz’altro le manifestazioni legate alla cultura classica, greca e poi romana e questo influsso è durato fino ai primi decenni del secolo ventesimo. Nel ventennio fascista, il richiamo alle forme della romanità è assolutamente evidente; basterà pensare all’architettura del palazzo dei congressi all’EUR di Roma o all’impronta urbanistica data a molte città italiane dall’architetto-urbanista Piacentini, per avere conferma di quanto detto.
L’epoca dalla quale sostanzialmente ci è pervenuta la maggior parte delle testimonianze di architettura fortificata, cioè il medioevo (anche se non possono essere ignorate le numerose, imponenti vestigia di fortificazioni di epoca greca e romana), fino a non molti anni fa era considerata un’epoca buia, caratterizzata da rozzi costumi, povera di afflati intellettuali ed artistici e quindi non paragonabile, per l’interesse degli studiosi, alle grandi testimonianze rimasteci della classicità greca e romana.
Errore macroscopico. Basta riandare con la memoria ai grandi fermenti intellettuali che maturarono alla corte di Ruggero II d’Altavilla e di Federico II di Svevia, alla nascita delle lingue moderne (la langue d’oc e la langue d’oil in Francia ed il volgare italiano), dei grandi ordini religiosi, reazione naturale al travaglio di crescita della Chiesa e, per stare dentro al nostro tema dell’architettura fortificata, a quelle meraviglie architettoniche che sono i grandi castelli medievali, per ridare al medioevo il posto che giustamente gli compete nel panorama della storia.
Nell’immaginario collettivo poi, i castelli hanno sempre esercitato un fascino notevole, a volte romantico, come quello del castello di Miramare a Trieste, bianco sul mare; a volte tragico, come nel caso del castello di Carini, testimone del dramma della baronessa Lanza La Grua; a volte addirittura sinistro, come nel caso dei castelli di Boemia, protagonisti delle avventure letterarie e cinematografiche del conte Dracula. Anche in tempi più recenti il fascino di questa forme strutturali ha continuato ad esercitare il suo potere. Ai primi del Novecento fu edificato a Palermo in forme castellane l’edificio Utveggio sul monte Pellegrino ed in tempi molto recenti un imprenditore ha edificato a Montelepre un albergo-ristorante in forma di castello, con tanto di bugnati e torrette.
ln Sicilia il fenomeno castellano assume poi una valenza notevolissima, non solo perché sono presenti testimonianze che vanno dall’epoca greca (castello Eurialo a Siracusa) fino ai nostri giorni, ma anche perché i castelli siciliani rappresentano la testimonianza architettonica – l’unica ancora visibile – di un ordinamento politico, la feudalità, che ha caratterizzato la storia della nostra isola per più di 900 anni. Il regime feudale, infatti, introdotto dai normanni a metà dell’Xl secolo, durato formalmente fino al 1812, quando fu abolito dalla costituzione concessa da Ferdinando III delle Due Sicilie, è sostanzialmente finito solo nel secondo dopoguerra con la spartizione dei feudi conseguente alle nuove leggi agrarie.
I castelli restano allora la sola, muta, immobile immagine di un passato spesso turbolento ma sempre grandioso, di un’epoca, di un costume, di una political di una storia insomma che, comunque, ci appartiene e che va doverosamente studiata e ricordata.
La storia dell’architettura castellana è però lunghissima e non potrà certamente essere esposta in questo articolo. Ricorderemo solo che la parola “castello”, dal latino castrum, poi divenuto kastron nel greco-bizantino e kasr in arabo, definisce un edificio adibito essenzialmente a scopi abitativi e difensivi. Quando un feudatario riceveva dalla Corona l’investitura di un feudo, il suo primo atto era quello di edificare il proprio castello, non solo per abitarvi con la propria famiglia in condizioni di sicurezza, ma anche per difendere i contadini della Terra a lui affidata che egli aveva il dovere di difendere.
Ma il castello era anche il simbolo del potere del castellano e naturalmente un peso notevole nella edificazione aveva il suo potere economico. Ecco perché oggi, studiando queste grandi strutture, constatiamo che in molti casi si tratta di vere e proprie antologie dei processi edificatori. Ad un primo nucleo essenziale, normalmente rappresentato da una torre circondata da una cinta difensiva, venivano poi aggiunte nel corso degli anni e quando le possibilità economiche lo consentivano, corpi nuovi, torri aggiuntive, la cappella, doppie cinte difensive, scarpe e controscarpe, cioè quei piani inclinati che venivano costruiti alla base delle mura per irrobustirle, secondo gli aggiornamenti costruttivi delle varie epoche.
In alcuni casi però, come per i castelli regi fatti edificare da Federico II di Svevia, il modello costruttivo fu realizzato in unica soluzione e secondo un progetto sostanzialmente unitario. A ciò provvedevano i magistri regni o protomagistri , architetti-funzionari creati dal re svevo per edificare i suoi castelli. Anche per i castelli feudali, però, esistono casi di strutture realizzate secondo un disegno costruttivo unitario, come nel caso del castello di Mussomeli, in provincia di Caltanissetta, edificato da Manfredi III Chiaramente verso la metà del XIV secolo, quando la famiglia, una delle quattro vicarie del regno di Sicilia, era al massimo della sua potenza. Le grandi possibilità economiche consentirono a Manfredi di iniziare e portare a termine la costruzione del castello in un’unica soluzione apportandovi, fra l’altro, alcuni degli elementi decorativi nella struttura, comuni peraltro ad altre gradi costruzioni chiaramontane, che consentono di parlare di vera e propria “architettura chiaramontana”.
Ma le tecniche di assedio che andavano via via mutando, sono state certamente una delle cause della evoluzione costruttiva dei castelli.
I tre criteri di base che informavano la realizzazione di una struttura fortificata erano l’accesso al sito, l’altezza delle mura e la loro solidità. Nei tempi più antichi, quando gli assalti erano compiuti da masse di uomini armati di lance e spade, che tentavano la scalata alle mura o cercavano di demolirle con i sistemi disponibili all’epoca – le catapulte, gli arieti d’assedio, lo scavo sotto le fondamenta per farle crollare o per penetrare all’interno del castello attraverso gallerie – i sistemi difensivi erano affidati all’altezza delle cortine murarie, alle merlature dietro le quali si riparavano gli arcieri, alle caditoie dalle quali si facevano piovere sugli assalitori pietre, olio e acqua bollente. Lo spessore delle mura non era notevole; la sicurezza era data dall’altezza. A mò di esempio si ricordi che lo spessore del muro di cinta del castello di Calatubo, vicino ad Alcamo, è di soli 68 cm., ma la originaria torre normanna `e posta su un acrocoro roccioso a strapiombo, di difficilissimo accesso.
Quando poi fu scoperta la polvere da sparo e le artiglierie divennero l’arma d’attacco più letale che l’uomo abbia mai inventato prima dei missili, la risposta difensiva delle strutture fortificate fu costituita dall’abbassamento delle cortine murarie (per ridurre la superficie d’impatto del proiettile) e dal loro ispessimento. Ad esempio, lo spessore murario del bastione di S.Pietro nel castello a mare di Palermo, raggiunge i 7 metri.
Il mutare delle condizioni politiche intervenute nel corso dei secoli, il venir meno di determinate esigenze di sicurezza per il castellano, le richieste di maggiori comodità di vita per gli abitanti del castello, portarono poi progressivamente alla modifica delle severe strutture medievali. Così, si cominciarono ad aprire grandi finestre e balconi sulle mura, si crearono comode rampe di accesso e l’interno delle gradi sale fu reso più leggiadro e confortevole. ll castello, pur conservando la sua fisionomia un po’ corrusca di rocca inespugnabile, si era progressivamente trasformato in un palazzo residenziale.
In conclusione di questa disamina sul tema che abbiamo trattato, dobbiamo entrare nell’ordine di idee che è necessario crearci una cultura del recupero e del riutilizzo. Dobbiamo fare nascere attenzione, conoscenza ed amore verso questo settore del patrimonio artistico, anche attraverso iniziative che costano poco ma che potrebbero dare buoni risultati. Ad es., perché non collocare sulle grandi arterie di comunicazione stradale una cartellonistica adatta a far conoscere l’esistenza di castelli nelle vicinanze? ln Francia questo si fa da decenni.
Altri Paesi che fino a poco tempo fa consideravamo coloniali, avendo preso coscienza della propria storia hanno tirato fuori dalle sabbie del deserto le magnifiche testimonianze del loro illustre passato, le hanno restaurate, le stanno valorizzando e ben conservando per i posteri. Noi, è triste constatarlo, non l’abbiamo saputo fare. Questo nostro patrimonio, ambientale, museale, castellano, che per uno slogan ormai invalso nell’uso comune, viene definito come il nostro petrolio, presenta una sostanziale differenza con il petrolio vero e proprio: i petrolieri hanno imparato a venderlo, noi no.
Dobbiamo insomma rompere quell’atmosfera di oblio e di indifferenza che oggi esiste verso la cultura e che ha poche eccezioni solo in alcune coraggiose iniziative private.
Arriveremo a vedere questa inversione di tendenza? Quod est in votis.

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SICILIANI D’ARABIA
Stefano Sanzo
 
Nel clima di emancipazione che coinvolge il Nord Africa, l’ltalia vive più di altri Paesi l’evoluzione degli eventi, dato che molte imprese hanno scelto Paesi come la Tunisia per trasferire parte dei loro affari.
Le imprese italiane, specialmente quelle piccole e medie, sono particolarmente attive con oltre 800 società totalmente italiane o a partecipazione mista operanti in Tunisia con investimenti globali pari a circa 516 milioni di euro e circa 46.000 addetti.
I dati però, se pur utili, non ci dicono quali ostacoli si incontrano, quali sono le diversità culturali, quali invece sono i caratteri che ci accomunano a delle popolazioni che non sono poi così distanti e con le quali possiamo ritrovare antenati comuni.
E’ per questo che oltre a fornire alcuni dati specifici sull’impianto di aziende, in quest’area del Nord Africa, riporterò l’esperienza che ormai dal 2004, vive un nostro amico e consocio rotariano che ha dislocato parte dei suoi affari in Tunisia.
L’azienda nasce in Sicilia come piattaforma che si occupa della vendita, manutenzione e revisione dei frantoi. Essendo un’azienda subordinata ad una società multinazionale, è stato facile entrare in contatto con un imprenditore Tunisino,che non era attrezzato dal punto di vista tecnico e tecnologico, per effettuare manutenzione e revisione degli impianti che vendeva.
La fetta di mercato a disposizione di un’azienda di servizi di manutenzione, in un Paese che ad oggi è il quarto al mondo per la produzione d’olio, era ovviamente molto cospicua, considerato che, come già detto, non c’erano all’epoca, conoscenze specialistiche in grado di soddisfare la richiesta da parte delle aziende produttrici di olio.
Nel 2004, quando è stata firmata la carta costitutiva, vi era l’obbligo di impiantare aziende solo in presenza di un partner del luogo.
Attualmente però è stata snellita la procedura e anche aziende totalmente a partecipazione straniera possono aprire la loro sede in Tunisia.
Dal punto di vista fiscale, le aziende più incentivate a delocalizzare la produzione in Tunisia sono quelle manifatturiere, esportando almeno il 75%, tali aziende infatti usufruiscono dell’esenzione dal pagamento delle tasse per dieci anni. Società italiane come la Benetton hanno spostato parte della produzione abbattendo così un carico fiscale che nel nostro Paese, riduce la capacità di competere a livello globale.
Anche le società di servizi hanno però i loro vantaggi , la manodopera locale infatti costa meno di quella italiana. Nel corso degli anni i rapporti commerciali tra la nostra isola e la Tunisia si sono intensificati. Già nel 2004 veniva fondato a Tunisi “Casa Sicilia”: un ufficio sviluppato da siciliani e tunisini in comune accordo, che si occupa di promuovere e sviluppare l’importazione e la vendita dei prodotti tipici siciliani. Nel 2009, 1 miliardo di euro di beni sono stati importati in Tunisia da aziende siciliane.
Lavorare in Nord Africa significa rapportarsi ad una realtà culturalmente differente da quella europea. Un imprenditore siciliano deve adattare il modo di organizzare il lavoro alle abitudini locali, il modo di strutturare orari e turni di lavoro, concedendo agli operai autoctoni permessi e spazi dettati dalle esigenze religiose o geografiche.
Ogni venerdì ad esempio si concede un’ora, oltre alla pausa prevista per il pranzo, utile per espletare le preghiere degli operai devoti all’lslam; preghiere che vengono recitate in azienda, che quindi mette a disposizione anche uno spazio adatto allo scopo.
Per tutto il periodo del Ramadan, che dura circa un mese, l’orario di lavoro è ridotto della metà.
Una necessità, che può dare il metro di quanto tali popolazioni siano condizionate dalla loro localizzazione geografica, è quella di dovere, per i tre mesi estivi, anticipare di un ora l’entrata dei lavoratori, ma di dover anche anticipare di ben due ore la fine del turno, a causa del clima impietoso che durante le ore più calde non permette il normale svolgimento delle mansioni, costringendo l’adeguamento dell’uomo alla natura.
Questo va, a mio avviso piacevolmente, contro le regole della società occidentale, nella quale da tempo la natura non detta più i ritmi della vita dell’uomo.
E’ interessante rilevare come una società, come quella tunisina, considerata arretrata da un Occidente basato sul profitto, si adegui alle esigenze della natura, senza bisogno che gli venga imposto da risoluzioni internazionali atte a salvare il pianeta. Molto semplicemente se c’è troppo caldo non si può lavorare. Tanto più che la riduzione dell’orario di lavoro non danneggia il livello produttivo che rimane comunque adeguato alle esigenze d’impresa.
E’ pur vero però che istituti fondamentali come le organizzazioni sindacali, garantite costituzionalmente in Occidente, sono state finora assenti in Tunisia. I lavoratori non hanno usufruito della forza contrattuale delle associazioni sindacali organizzate, dovendo sottostare alle scelte del datore di lavoro più o meno illuminato. Anche se l’azienda della quale oggi vi parlo, è comunque riuscita nel corso degli anni a rimanere competitiva anche senza sacrificare i diritti dei lavoratori, non tutti trovandosi in una posizione di controllo, riescono a non abusare del loro potere!
L’unico mezzo a disposizione dei lavoratori, per tutelare i propri diritti, è un ufficio statale che accoglie i reclami in materia di lavoro, agendo da mediatore prima di giungere ad un eventuale giudizio. Tale strumento però è utilizzato molto poco dalla popolazione, dato che l’alto tasso di corruzione e l’accentramento del potere hanno reso, nel vecchio regime, questo strumento quasi inutile per i lavoratori.
Comunque eccezion fatta per tali accorgimenti, i lavoratori tunisini sono molto simili a quelli siciliani, un imprenditore abituato a gestire un azienda in Sicilia sa rapportarsi alle esigenze dei lavoratori nordafricani, visto che le abitudini che caratterizzano i popoli dell’altra sponda del mediterraneo hanno radici storiche comuni alle nostre e che noi stessi abbiamo ereditato da loro molte delle nostre usanze.
I rapporti con la Tunisia, variano in base alle dimensioni dell’azienda, infatti per le piccole e medie imprese non vi sono molti compromessi a cui sottostare, l’unico ostacolo al normale Svolgimento dell’attività è un apparato burocratico molto lento e in passato pervaso dalla corruzione. Per le grandi aziende gli obblighi sono un pò diversi, in quanto tutti gli affari di rilievo dovevano passare al vaglio della famiglia presidenziale che aveva compartecipazioni in tutte le società internazionali che volevano stabilirsi in Tunisia, dalle grosse case automobilistiche al settore alimentare o delle catene di ristorazione internazionali. Ad esempio non vi sono Mc Donald, ma una famosa catena di fast food francese ha il quasi monopolio nel Paese, poiché ha chiuso accordi privati direttamente con la famiglia del presidente che agendo in tal maniera, prima della rivoluzione era arrivata a controllare il 45% dell’economia del paese.
La politica economica estremamente settorializzata e rivolta solo allo sviluppo del turismo e dell’industria tessile degli anni 90, ha ostacolato l’accesso dei giovani laureati in altri settori del mondo del lavoro. In un paese nel quale quasi il 50% della popolazione è sotto i 30 anni, l’altissimo tasso di disoccupazione ha creato il bacino di coltura per la rivoluzione recentemente attuata.
Durante le prime due settimane della sommossa, le condizioni di Tunisi, variavano in relazione alle diverse zone della città.
L’atmosfera era tesa in tutto il Paese. Molti esercizi commerciali, specialmente nelle zone del centro, hanno deciso di murare le entrate dei locali per evitare il saccheggio. Molti condomini, situati nelle zone più ricche della città, hanno costruito delle barricate e hanno istituito delle ronde di guardia composte dagli stessi condomini per tutelare le famiglie e i beni dai rivoltosi. Le aziende, tra cui quella del nostro consocio, hanno interrotto la produzione per circa 20 giorni, ma essendo una società di manutenzione non avevano materiali al loro interno, tali da destare l’interesse dei ladri o dei rivoltosi.
l negozi di alimentari hanno subito l’assalto della popolazione che impaurita dal clima rivoluzionario ha raccolto scorte alimentari dove poteva, come è fisiologicamente prevedibile in casi Simili.
Le attività che hanno realmente subito il furore della folla, sono proprio le attività riconducibili alla famiglia di Ben Alì, tutte saccheggiate e molte di esse addirittura distrutte, simbolo dell’odio e del malcontento che la popolazione ha sviluppato nel corso dei decenni di egemonia del presidente e di coloro che, vicini a lui, hanno usufruito del saccheggio indiscriminato da lui effettuato a spese del Paese.
Passati i primi 20 giorni di rivolta e destituiti gli organi di potere il Paese si è lentamente diretto verso la normalità. l lavoratori sono rientrati nelle aziende che hanno ripreso la produzione, anche se a orario ridotto, visto il coprifuoco istituito dall’esercito.
Uno Stato organizzato fornirà una protezione stabile dalla criminalità aumentata dopo lo smembramento dei corpi di polizia.
Un siciliano che lavora in Tunisia, non ha particolari aspettative dalla nuova Costituzione auspicando che, il solo fatto di poter rapportarsi ad uno Stato democratico è già un grosso miglioramento rispetto ad una posizione di svantaggio alla quale si era abituati durante il regime.
Vi è comunque fiducia nei confronti del popolo tunisino che, essendo già da tempo economicamente proiettato verso l’Europa e libero dal giogo dittatoriale, applicherà una politica economica che consenta di migliorare l’esercizio d’impresa.

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IL VALORE DELLA GIUSTIZIA NEL MOMENTO ATTUALE
Giovanni Tranchina
 
Ho visto una donna bellissima con gli occhi bendati
sui gradini di un tempio di marmo.
Una grande folla le passava dinanzi,
i volti imploranti alzati verso di lei.
Nella sinistra impugnava una spada.
Brandendo quella spada,
colpiva ora un bimbo, ora un operaio,
ora una donna in fuga, ora un pazzo.
Nella destra teneva una bilancia:
nella bilancia venivano gettate monete d’oro
da chi scampava ai colpi della spada.
Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:
“Non guarda in faccia nessuno”.
Poi un giovane con berretto rosso
le fu accanto con un balzo e le strappo la benda:
…………………………………………………………………..
la follia di un’anima morente
era scritta su quel volto,
allora la folla capì perché portasse la benda.

Così, agli inizi del ‘900, Edgar Lee Masters raffigurava la giustizia in una delle più sconcertanti poesie, Carl Hamblin, dell’Antologia di Spoon River : una giustizia dall’aspetto “folle e corrotto”.
«La giustizia, che di certo è una speranza, non costituisce altro che un’illusione», così un giurista contemporaneo. «Un’illusione che non dipende dal cattivo funzionamento dell’amministrazione della giustizia, dalla mancanza di strutture, dalle carenze degli organici, dai ritardi e quant’altro, ma dipende dal fatto che la giustizia sembra basarsi sul sentimento, cioè su un moto non razionale dell’animo, su qualcosa che nasce spontaneamente, che si avverte come una sensazione, e che dipende dalla mutevole sensibilità di un soggetto o di una collettività». «Tutto questo – conclude l’autore – perché alla base del sistema della giustizia non vi è un meccanismo logico e matematico, basato su geometrie ferme e sui passaggi logici del sillogismo aristotelico».
Dai primi del ‘900 ai nostri giorni; dalla poetica di Lee Masters alle riflessioni dello studioso del diritto pare non sia cambiato nulla.
A questo punto, allora, mi son chiesto: ma è possibile che “l’aspetto folle e corrotto” con cui la giustizia si presenta agli occhi del poeta statunitense o la mancanza, denunciata dal giurista italiano, di un meccanismo logico e matematico come base del sistema giustizia, è possibile che tutto ciò dipenda da una inesatta focalizzazione del valore della giustizia? E ho pensato all’idea di “valore” perché, a mio giudizio, non si costruisce una buona società in tutte le sue componenti separandola dal riconoscimento dei valori che debbono connotarla, giacché i valori vengono molto prima dei diritti. Anzi è proprio dal riconoscimento dei valori che derivano non solo i diritti, ma anche i doveri. E del resto, i cambiamenti epocali di fronte ai quali ci troviamo oggi richiedono certamente una forte coscienza dei valori più profondi della nostra civiltà.
Da qui l’idea di tentare qualche modesta riflessione sul valore della giustizia.
«Ci sono molti ideali di giustizia differenti e contraddittori, di cui nessuno esclude la possibilità dell’altro, e allora non resta che attribuire un valore soltanto relativo ai valori di giustizia che trovano fondamento in questi ideali». Con queste parole, e suffragato dall’autorevolezza di Hans Kelsen, giurista austriaco tra i più importanti del I900 , potrei benissimo chiudere l’argomento. Solo, però, che io non accetto assolutamente quelle idee; non accetto assolutamente il teorema kelseniano secondo cui lo studioso del diritto non deve valutare eticamente le norme giuridiche, ma deve soltanto risolvere i problemi di coerenza del corpo legislativo.
A mio avviso, l’“illusione giustizia”, di cui ho detto all’inizio, nasce dal fatto che le società ad un certo momento hanno cominciato a relativizzare i valori, a dare spazio ad una molteplicità di valori al proprio interno, favorendo in tal modo gli scontri di valori, veri o falsi, ipotizzati nella società.
Nel contesto di questa conversazione io intendo parlare non della “giustizia” descrittiva, della giustizia, cioè, che mira a rappresentare determinate situazioni fenomeniche, ma della giustizia prescrittiva, di quella che cerca di proporre delle valutazioni o dei precetti e mira a dare risposte soddisfacenti alla domanda: che cosa è giusto fare? Dunque, giustizia nel senso di ciò che è giusto insito in ognuno di noi; la giustizia interiore; la giustizia come desiderio, la giustizia come ragione, la giustizia come necessità.
Visione, questa, che presuppone come essenziale la fede nell’esistenza di un’istanza trascendente, direbbe Kelsen.
Si, è vero. Ma preferisco anteporre la fede nell’esistenza di un’istanza trascendente all’accettazione di un relativismo nichilistico, autentica malattia mortale dell’odierna fase di cultura e costume, come lo ha definito qualcuno.
Ed è per questo che mi piace pensare alla assolutezza della giustizia.
Come discorso, però, non già fine a se stesso ma capace di riaprire incessantemente riflessioni del e sul diritto, in una rinnovata consapevolezza della dimensione autenticamente umana dell’esperienza giuridica e grazie ad un inevitabile raccordo tra diritto ed etica.
I valori etici rappresentano, o dovrebbero rappresentare, la base della legge positiva. Sono quindi il fattore determinante nella formazione della cultura giuridica di un popolo.
Ma allora, qualcuno potrebbe chiedermi che senso abbia interrogarsi sul valore della giustizia nel tempo attuale. Perché la formulazione stessa della “questione” ed il suo riferimento al “tempo attuale” potrebbero lasciare intendere che il “valore della giustizia” oggi possa essere diverso da quel che non fosse ieri, da quel che potrà essere domani. Potrebbe lasciare intendere che per la giustizia il presente appare sempre incompiuto perché non è garante di alcuna certezza. Il che darebbe, sostanzialmente, ragione a chi ritiene che alla giustizia si debba guardare in una prospettiva illusionistica.
Ma la giustizia – nel senso, ripeto, di ciò che è giusto, insito in ognuno di noi – non può appartenere a quei fenomeni suscettibili di mutare col mutar dei tempi o col mutar dei luoghi.
La “giustizia”, in quel senso, è una e immutabile. Oggi come ieri, come domani. Nel nostro Paese come in qualsiasi altro Paese.
L’idea della giustizia appare come espressione di una necessità immanente all’essere.
L’idea della giustizia appare come un valore legato – per dirla con Socrate – ad una universalità superiore alle mutevoli leggi umane.
Socrate ritiene sia possibile pervenire ad una conoscenza della giustizia, non attraverso casi particolari, esempi di giustizia contingente, ma proprio sapendo che cosa essa è. Perchè è solo sapendo che cosa è la giustizia che noi possiamo comportarci giustamente.
Questo “che cosa” deve essere, infatti, identico in ogni uomo giusto e in ogni azione giusta.
Ma se questa è l’idea della “giustizia generale”, altre possibili configurazioni si delineano allorché affiora l’idea della c.d. “giustizia particolare” secondo un concetto formale di giustizia, ossia la “giustizia legale”, la “giustizia secondo il diritto”, come parrebbe, addirittura, indicare l’etimo stessa delle parole: “justitia” da “jus”.
La giustizia legale raffigura un sistema in cui ciò che conta è soltanto la corrispondenza dell’azione alle leggi del momento, non il tipo di azione che le leggi prescrivono o determinano: il fine e il contenuto delle leggi non entrano in questione.
Ma forse è proprio questo relativismo dell’idea di giustizia che favorisce certe dispute intorno a concetti fondamentali, come quello della tutela dei diritti, delle c.d. guerre giuste, dell’eguaglianza, della pena di morte, dell’eutanasia, delle discriminazioni razziali, e quant’altro.
La giustizia è «l’abito mediante il quale si dà a ciascuno il suo con volere costante e perenne», puntualizza Tommaso d’Aquino, sulla scorta del principio unicuique suum teorizzato dai giureconsulti romani.
Il chiarimento è opportuno, pur se non privo di una certa ambiguità.
A ben riflettere, l’espressione unicuique suum di per se stessa non esprime, in realtà, un enunciato concreto, ma appare piuttosto come una formula vuota che attende d’essere ricolmata di contenuti che chiariscano in cosa deve consistere quel “suo” da assicurare a ciascuno.
“Dare a ciascuno il suo” può voler dire riconoscere ad ogni individuo situazioni di vantaggio, quali diritti, poteri, facoltà, pretese, e quant’altro; ma può indicare anche, e per converso, la posizione giuridica caratterizzata dalla necessità di adempiere ad un obbligo o di assolvere ad un dovere o di essere sottoposto ad una pena.
Da qui la necessità di individuare i contenuti che devono completare quella formula, con il riferimento al “suo” da attribuire a “ciascuno”. E tali contenuti – si può pensare – non potrebbero che ritrovarsi all’interno del sistema normativo, tra le regole che governano l’ordinamento giuridico. Sicché il valore di giustizia espresso dal principio “a ciascuno il suo” sarebbe soltanto – e consentitemi di citare ancora Kelsen – quello individuato dalla norma giuridica che prescrive un certo trattamento di un uomo da parte di un altro uomo, e, in particolare, il trattamento di un uomo da parte di un legislatore.
Expulsa furca, l’idea meramente formale della giustizia tamen usque recurrit !
Dirò soltanto che la concezione normativa del principio “a ciascuno il suo” venne recepita con teutonico convincimento dall’ordinamento germanico che ne fece il suo vessillo al punto da farla scolpire come feroce monito – jedem das Seine, appunto “a ciascuno il suo” – sui cancelli del campo di Buchenwald.
Questo particolare mi sembra più che indicativo per far capire che i contenuti del “a ciascuno il suo”, come fondamento dell’ideale di giustizia, vanno ricercati altrove che all’interno di un sistema normativo.
E in questa direzione, i criteri storicamente rilevanti possono considerarsi soprattutto quattro: il criterio del rango, del merito, del lavoro, del bisogno, per cui si ritiene giusto, rispettivamente, dare a ciascuno secondo la propria posizione nella gerarchia sociale, secondo le proprie capacità, secondo l’attività svolta nella produzione di beni e servizi, secondo le proprie necessità spirituali e materiali.
Come si vede, ognuno di questi criteri presiede all’orientamento di un tipo determinato di società. Regole di condotta legate agli specifici bisogni del momento che non hanno, quindi, alcun fondamento di assolutezza o necessità.
A questo punto, vorrei azzardare altri itinerari nel tentativo di individuare il “suo” dovuto “a ciascuno”. E vorrei prender le mosse da quel canone etico cosi limpidamente enunciato da Emanuele Kant secondo cui la dignità della persona impone che questa non dev’essere mai trattata come un mero mezzo per l’interesse della società, senza tener conto del fatto che essa è, al tempo stesso, un fine in sé.
Partendo da tale presupposto, Kant arriva a sostenere che è contrario al concetto di dignità persino punire in modo disumano l’uomo più maligno che esista: “pene infamanti disonorano tutta l’umanità”.
Pertanto, ogni punizione deve essere tale che il colpevole, per quanto orrendo sia il suo delitto, venga comunque trattato anch’egli come un fine, in caso contrario sarebbe vendetta e porrebbe chi la infligge sul medesimo piano di colui che ha commesso il crimine.
Ed allora, il concetto autentico di giustizia, valido in ogni momento e sotto ogni latitudine, postula principalmente il rispetto per la dignità dell’uomo.
A me parrebbe incomprensibile l’idea di una separazione del valore “giustizia” da altri valori fondamentali, primo fra tutti il valore che fa capo proprio alla rispettabilità, alla onorabilità morale della persona.
Perché la giustizia è tutela e realizzazione di tutti i valori fondamentali dell’uomo, è questione di libertà e democrazia.
Ed allora, “dare a ciascuno il suo”, vuol dire riconoscere ciò che a ciascuno di noi appartiene, ciò che è costitutivo della nostra identità, del nostro essere uomini e quindi i nostri diritti fondamentali, ciò che non può, pertanto, essere rinnegato e deve essere rispettato se si vuole rispettare la dignità di ciascuno. “A ciascuno” significa che questo rispetto va riservato ad ogni soggetto umano.
Alla fine, basterebbe soltanto l’osservanza di questo fondamentale canone per realizzare giustizia nel significato più autentico dell’espressione.
Ma proprio questo fondamentale canone a volte viene ignorato, e non certo perché il valore della giustizia che su di esso si fonda possa variare con le variabili convenzioni degli uomini, bensì perché fingendo di fare giustizia si applicano in determinati luoghi e in determinati momenti storici norme giuridiche che di sicuro sono “diritto”, ma che, tuttavia, non è detto che rappresentino l’espressione della “giustizia come valore”.
Si tratterà, semmai, di una giustizia intesa come conformità all’ordine normativo di un determinato contesto societario, di una “giustizia relativa”, condizionata, magari, dalla “pressione sociale”, ma così tanto lontana da quel socratico ideale di giustizia “superiore alle mutevoli leggi umane”.
Si, le leggi umane sono molto, ma non sono tutto – consentitemi di ricordare questa bellissima pagina di Piero Calamandrei, uno dei più autorevoli maestri della scienza giuridica che abbia avuto il nostro Paese -: «al di sopra e al di dentro delle leggi scritte, di cui noi siamo custodi e interpreti ci occorre quella legge della quale parlava Cino da Pistoia “che scritta in cor si porta”, ci occorrono quelle leggi non scritte di cui parlava Antigone».
Già, il dialogo antico, e forse eterno, tra Antigone e Creonte: Creonte che difende la cieca legalità, e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle I’leggi non scritte”, «che non adesso furon sancite, o ieri: ma eterne vivono e nessuno sa da quando apparvero».
Phusis e nomos, i due poli tra i quali si è forse dipanata, e continua ancora a dipanarsi, la storia della civiltà.
Il “nomos” norma prettamente positiva e giuridica, la “phusis” norma metagiuridica, generale, assoluta.
Certo, il “diritto” è nella sua effettività storica un fenomeno della vita sociale; ma poiché esso è un fenomeno relativo alla condotta umana non basta conoscere ciò che esso è e come si è prodotto : bisogna sottoporlo anche ad una valutazione etica, cioè occorre indagare se il diritto abbia una sua giustificazione intrinseca, se risponde ad una necessità, se sia subordinato ad un’esigenza razionale, se possa essere collocato nella categoria concettuale del “giusto”.
E questa è un’indagine che non riguarda l’“essere”, ma il “dover essere”, non è fenomenologica, ma deontologica.
Da qui l’esigenza di capire la giustizia come valore assoluto.
Ma la giustizia intesa come “valore” è concetto che talora sembra vacillare al giorno d’oggi. Che talora sembra ignorare quella essenziale qualità dell’essere umano che è rappresentata, appunto, dalla sua dignità. Dignità che, per quanto riguarda il nostro sistema giuridico, è la stessa Costituzione ad esaltare, ponendola tra i principi fondamentali dell’ordinamento: «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», proclama la nostra Carta fondamentale.
«Riconosce i diritti inviolabili»: dunque, i diritti inviolabili pre-esistono alla stessa istituzione dello Stato, che li deve non solo riconoscere, limitando il proprio potere, ma anche garantire, facendosi carico della loro attuazione reale.
L’inviolabilità assoluta e totale non è più un attributo delle supreme istituzioni costituzionali e di chi ne impersona fisicamente la sovranità, cioè il monarca o le assemblee rappresentative, ma è un connotato indelebile dei diritti dell’uomo, dei valori personali della dignità umana.
Non poche volte, però, ci è dato assistere ai tentativi più o meno goffi di mortificare quel valore imprescindibile per il quale il nostro popolo si è impegnato e si è sacrificato: appunto il valore della giustizia.
A cosa alludo? Usciamo fuor di metafora: occorre fare di tutto affinché i pilastri basilari che devono reggere uno Stato autenticamente democratico, politica e giustizia, rimangano nettamente separati.
La giustizia è il vero valore rispetto al quale tutti gli altri valori diventano semplici corollari. Ed è per questo che la giustizia vera non può ammettere contaminazioni politiche.
Specie quando si tratti di una politica fondamentalmente autoreferenziale, essenzialmente anchilosata sui propri privilegi, sostanzialmente indifferente ai bisogni ed alle aspettative delle persone. Di una politica che, avendo smarrito la propria dimensione etica – nessuno se ne adonti – fatica a conquistare la fiducia dei cittadini che sempre più spesso la percepiscono come qualcosa di distante o addirittura di irritante. Di una politica trasformata da pura arte del governare a palestra di invettive tra gruppi partitici e di litigi tra organi istituzionali, di fronte alla quale l’opinione pubblica appare sconcertata e in parte rassegnata a subire la crisi del valore della giustizia.
Tutto ciò reso ancor più grave dalla mancanza di stabilità, di certezza delle regole che dovrebbero guidarci. Dal succedersi di una legislazione affastellata, di scarsa intelligibilità, e ripetutamente modificata nel volgere di pochi mesi.
Con troppa frequenza in questo nostro Paese, «a mezzo novembre non giunge quel che d’ottobre si fila»! Con estrema disinvoltura si cambiano, talora, le regole durante il gioco. E un sistema giuridico che non dia “certezze” non può garantire giustizia, è un sistema apparente, che smentisce e tradisce se stesso.
Ma quale è una delle realtà più significative della fenomenologia giuridica che può farci capire di fronte a quale tipo di giustizia ci si trova? Indubbiamente, è la realtà del processo penale, perché giustizia e processo penale costituiscono i termini di un binomio indissolubile.
Il processo penale, come punto di bilanciamento nello scontro tra la supremazia dello Stato e la soggezione dell’individuo, rappresenta la sede più idonea per vedere riaffermata la rispettabilità della persona, se vero è che il processo dev’essere strumento di attuazione della giustizia, e strumento la cui ineluttabilità nasce dall’esigenza di rispettare i fondamentali diritti dell’individuo, vale a dire, quei diritti che fanno capo proprio alla dignità di ciascun uomo.
È esattamente attraverso il processo che si riesce ad ascoltare il “palpito della giustizia”, consentitemi di richiamare ancora Piero Calamandrei.
Purtroppo, però, il processo – qualcuno ha scritto – è un servitore disposto ad obbedire ad ogni padrone, perché non poche volte esso è stato utilizzato in tutto il mondo per dar veste ufficiale di legalità all’arbitrio e alla sopraffazione, prestandosi docilmente a far apparire rispettabili pure le barbarie più nefande. Basti pensare – per rimanere nell’ambito asettico dell’esperienza storica – ai processi celebrati avanti al “tribunale speciale per la difesa dello Stato”, che operò in Italia dal 1926 al 1943, processi di natura rigorosamente politica contro i dissidenti.
Eppure, a volte processi di questo tipo si accettano con più o meno rassegnata sopportazione, con quella sopportazione come diceva Manzoni – che rappresenta «il dono che nell’ingiustizia degli uomini fa vedere la giustizia di Dio».
Spesso, il rispetto delle procedure formali della giustizia contrabbanda somme ingiustizie. Ma è il processo vero, il processo in cui si concretano gli antichi sentimenti di rispetto per i valori della persona e dell’umanità, questo è il processo che serve alla giustizia.
Qualsiasi altro più o meno farisaico rituale, che abbia magari una certa solennità formale che porti l’impronta dell’autorità può servire, tutt’al più, a tentar di salvaguardare una certa tranquillità sociale, sia pure mediante soluzioni di forza.
Allora, forse, l’interrogativo che ci siamo posti sul valore della giustizia nel momento attuale può essere integrato da quest’altro: quale valore nel processo penale al momento attuale? E qui tecnicamente la risposta sembrerebbe persino scontata: ma il «processo giusto», si capisce. In Italia come in qualsiasi altra contrada del mondo.
Per quel che riguarda noi, è abbastanza notoria – e non poco enfatizzata, se mi consentite la modifica della Costituzione che ha consacrato i principi – cardine sui quali deve fondarsi il «processo giusto».
All’indomani dell’entrata in vigore dell’innovazione costituzionale, non senza toni di esaltazione ci si andava gloriando del fatto che, finalmente, l’Italia s’era allineata alle Nazioni più evolute adeguando le proprie regole ai principi, già patrimonio dell’esperienza giuridica di altri Paesi, di una giustizia amministrata “secondo il giusto processo regolato dalla legge”.
“Patrimonio dell’esperienza giuridica di altri Paesi”, si andava dicendo, pensando con ostentata ammirazione e malcelata invidia ai Paesi di cultura anglo-sassone.
Che grossa sciocchezza! Che abissale ignoranza! Di giusto processo parlava già, sessant’anni prima della nascita di Cristo, un tal Marco Tullio Cicerone, il quale, pur non essendo di origine anglo-sassone aveva capito che il giusto processo – l’aequum judicium, lo chiamava, perché a quei tempi la lingua inglese non aveva ancora colonizzato la terminologia giuridica nostrana, non si parlava ancora di privacy, di cross examination, di discovery, di corroboration, di guilty or not guilty e chi più ne ha ne metta – dicevo che l’aequum judicium ciceroniano presupponeva pubblicità dell’intero procedimento, assoluta ed effettiva parità d’armi fra accusatore ed accusato (aequa condicio), inutilizzabilità di prove precostituite o di iudicia iam facta, terzietà ed imparzialità del giudice, presunzione d’innocenza dell’imputato.
E dopo duemila e passa anni, questi principi diventano per la nostra cultura giuridica l’invidiabile patrimonio dell’esperienza di altri Paesi.
L’ltalia, per essere stata la culla del diritto dovrebbe coltivare l’orgoglio di non diventarne la bara!, mi insegnava il mio Maestro, Girolamo Bellavista, poco meno di mezzo secolo fa.
Ma cosa significa che la giustizia si amministra “secondo il giusto processo regolato dalla legge”? lo in questo retorico enunciato ci leggo due asserti dei quali uno palesemente banale, scontato, privo di originalità, l’altro altrettanto palesemente improprio, falso, ingannevole.
Il primo: che la giustizia si amministra secondo il giusto processo.
Ma vivaddio, non è nella natura delle cose che la giustizia debba amministrarsi secondo un processo giusto? Ogni essere umano che abbia un minimo di raziocinio potrebbe mai pensare che la giustizia possa amministrarsi mediante un processo ingiusto? Secondo asserto falso, ingannevole: che «il giusto processo è quello regolato dalla legge». Dunque, se una legge disponesse che in un processo si può ottenere la confessione o una testimonianza sottoponendo l’imputato o il testimone a cruente torture fisiche, quello sarebbe un giusto processo! A distanza di decine di secoli torna attuale l’eterno dialogo – come dicevo prima – tra Antigone e Creonte. Per Creonte è giusto il processo che condanna Antigone, che altro non chiede se non di dare amorosa sepoltura al proprio fratello.
il conflitto tra la ratio umana e la pietas divina imposta dalle leggi della coscienza che nessuno sa quando apparvero.
Ma il processo non è giusto solo perché i principi sui quali si vuole ch’esso si fondi stanno scritti in un testo di legge, sia pure di rango costituzionale.
Il processo è giusto quando realizza il suo scopo che è quello di servire la giustizia, la vera giustizia, la giustizia come espressione di quella necessità immanente all’essere, di cui abbiamo parlato prima.
E qua mi sovviene una profonda riflessione di Albert Einstein: “uno dei guai maggiori dell’umanità consiste non già nell’imperfezione dei mezzi, ma nella confusione dei fini”.
E per quanto riguarda il processo penale, di confusione dei fini ce n’è stata – e purtroppo ce n’è ancora – abbastanza.
E così, frequentemente ci si dimentica che per servire la giustizia il processo deve perseguire come suo fine primario anzitutto la garanzia del rispetto per chi è un essere umano, con la sua onorabilità, con i suoi diritti che sono e devono essere per la natura stessa dell’uomo.
Frequentemente ci si dimentica che nel processo penale l’imputato va tutelato non solo per il suo diritto ad essere difeso, ma soprattutto per il suo diritto a non essere sottoposto a costrizioni umilianti, magari finalizzate a strappargli confessioni o delazioni.
Nel nostro ordinamento abbiamo dovuto attendere la fine degli anni ’90 per vedere scritto in una legge dello Stato che non si può mettere in carcere una persona per costringerla a confessare o ad accusare.
Ma già Cesare Beccaria osservava tre secoli fa che non v’è giustizia ogni qualvolta le leggi permettano che, in alcuni eventi, l’uomo cessi d’essere persona per diventare una cosa. Eccolo, allora, il “processo giusto”; eccolo il vero valore della giustizia: il processo che ha come mezzo al fine la persona, non una ‘cosa’.
E se non si è ancora compreso questo, non s’è capito ancora quale è il vero valore della giustizia.
O forse peggio! Si può finire con il contrabbandare la ‘giustizia’ con il ‘giustizialismo’: il giustizialismo che cerca non la verità, ma una verità, quella della quale ci si è infatuati, o che comunque torna più comoda.
La società va difesa sicuramente contro il crimine, ci mancherebbe altro. Ma va difesa attraverso gli strumenti che può offrire il diritto penale sostanziale o il diritto di polizia, giammai utilizzando le regole che appartengono al processo.
L’esperienza di tempi che non sono poi così tanto lontani dimostra che spesso il delicato compito di chi è chiamato a render giustizia è condizionato dall’urgenza di pretese non di rado al limite della demagogia populista; è condizionato dallo zelo estremo accresciuto, in certi casi, da forme di protagonismo generate da un eccitato plauso di massa. E ci si dimentica con una certa facilità che giudicare è stato sempre l’ufficio più arduo a cui gli uomini sono chiamati, forse un ufficio «superiore alle forze dell’uomo» – diceva Francesco Carnelutti – sicché «un uomo per essere giudice dovrebbe essere più che un uomo».
Mi sono chiesto, durante una mia recente esperienza come commissario agli esami di magistratura, quanti brillanti vincitori del concorso abbiano appreso questa verità! La risposta che mi son dovuto dare di fronte a certe pericolose supponenze giovanili è stata assai sconfortante.
A volte nel giudizio si intromettono oltre ad inconsci elementi emozionali di ordine individuale, fattori sentimentali di ispirazione collettiva e sociale che cercano di conciliare le leggi della logica con le esigenze talora irrazionali della politica. Ed allora il giudice, come uomo, si trova inevitabilmente coinvolto in certe spirali di carattere sociale, in aspirazioni collettive verso certe riforme politiche, strutturali. Perché, in fondo, il giudice è un individuo con le proprie opinioni, con i propri interessi, con le proprie convinzioni. E tutti questi condizionamenti personali non finiranno col ripercuotersi in qualche modo sul suo senso di giustizia? Si, ma il senso della giustizia, forse, è una virtù innata. Una virtù che dev’essere sorretta da un forte senso di responsabilità e di lealtà in coloro che sono chiamati ad attuarla.
Il valore della giustizia dipende allora dal senso che della giustizia si riuscirà – se si riuscirà a recuperare. Solo per questa via si potranno render concrete quelle garanzie che della giustizia sono l’essenza stessa.
Ma se non si riuscirà a recuperare questo senso della giustizia, il valore di essa rimarrà pura utopia.
Ma il senso della giustizia obbliga garantisticamente non solo chi Opera nelle aule dei tribunali, ma in primo luogo chi opera nelle aule parlamentari.
«La giustizia è amministrata in nome del popolo», recita la nostra Carta costituzionale.
Dunque il popolo – per mutuare la icastica, ma anche inquietante immagine che ricorre nelle Constitutiones federiciane – è al tempo stesso pater et filius justitiae.
Immagine paradossale che mi fa intravedere impegno e responsabilità tali da far tremare vene e polsi. E il popolo esercita questo suo ruolo antinomico di pater et filius justitiae attraverso i propri rappresentanti in parlamento sui quali trasferisce lo stesso impegno e la stessa responsabilità.
La giustizia regola i rapporti interpersonali sulla base del rispetto dei fondamentali diritti, costitutivi del nostro essere uomini. Quindi la giustizia, in quanto virtù relazionale, costituisce il valore fondamentale dell’etica sociale, dell’etica civile, dell’etica pubblica o se si preferisce dell’etica tout court, dato che l’etica è tutta relazionale.
E quindi su chi è chiamato al delicato compito di paterjustitiae deve pesare la consapevolezza che il valore della giustizia in un contesto sociale rappresenta una posta troppo alta perchè la si possa giocare estemporaneamente a dadi tra guelfi e ghibellini.
Qui habet aures audiendi audiat!

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