Burocrazie
EDITORIALE
Cristina Morrocchi
Presidente del Rotary Club Palermo Est
Esce il secondo numero dello storico periodico del Rotary Palermo Est voluto e rinnovato nell’impostazione da Aldo Spinnato con il coordinamento editoriale di Davide Camarrone.
È un progetto fortemente ambizioso che si propone di creare una sorta di enciclopedia/dizionario delle problematiche dei nostri tempi. Il primo numero è stato “A”come “Ambienti” questo, che è il secondo numero, “B”come “Burocrazie”, e il prossimo sarà quindi “C” come “Culture”.
Titoli plurali per sottolineare come il tema possa e debba esser analizzato da angolature diverse che ne mettano in luce anche gli aspetti meno scontati. È un desiderio di conoscenze non superficiali per affrontare concretamente, e senza preclusioni ideologiche, i temi complessi e difficili del nostro tempo.
Il primo numero è stato apprezzato e ha fatto discutere anche in un ambito rotariano più ampio come è quello del Distretto: ha presentato quindi all’esterno, come auspicava Filippo Sorbello nell’editoriale di “Ambienti”, un altro importante aspetto del nostro Club.
Per questo secondo numero, il cui tema nasce proprio da quelle considerazioni – emerse nel nostro Club – che identificavano nelle burocrazie uno dei freni dello sviluppo del nostro paese, ci auguriamo lo stesso tipo di accoglienza, il medesimo successo.
A tutti gli Autori dei testi, ai Soci che, a titolo diverso, hanno collaborato alla realizzazione di questo numero, la riconoscenza del Club per aver dato voce a una tematica così rilevante.
Per tutti noi, l’auspicio che il contributo dei Soci si faccia sempre più ampio e articolato, sì da rendere questo periodico l’espressione dell’anima più riflessiva del nostro Club.
L’utopia del decentramento
IL CORPO DELLA BUROCRAZIA
Gaetano Armao
Avvocato, docente universitario, assessore ai Beni Culturali della Regione siciliana
Dall’entrata in vigore della legge n. 10 del 2000 non si era registrata in Sicilia alcuna disciplina generale atta a contribuire all’assetto organizzativo della Regione Sicilia, in grado cioè di intervenire fattivamente sulle inefficienze ed i ritardi nell’isola. Un patto di rilancio per la Sicilia è possibile, in modo da recuperare il rapporto tra burocrazia e cittadini. E si è pensato proprio di avviare questo processo di riforma partendo dalle deficienze strutturali ed organizzative dell’Amministrazione regionale siciliana in modo da poterne avviare una regolamentazione in forza del dettato delle Leggi Bassanini.
Uno dei primi passi è quello di migliorare la sfera qualitativa dei dirigenti, tenuto conto che l’ultimo concorso risale al 1991 e le assunzioni successive sono avvenute tramite il ricorso al precariato. Nello stesso tempo è necessario avviare una politica di svecchiamento normativo in modo da favorire una delegificazione a guisa da evitare il dilagare di leggi e leggine e di intervenire favorevolmente allo scopo di evitare le cause dell’eccessiva burocratizzazione. Pensiamo alla materia della salute e della sanità che non può non essere interessate da questo processo di rinnovamento legislativo e dall’opportunità di riforma.
Non vi è dubbio che in Sicilia debbano trovare una più efficace e corretta applicazione gli ultimi processi di riforma della P.A. tra cui la legge n. 15/2005, n. 80/2005 e da ultimo la n. 69 del 2009. Tra le tematiche oggetto di particolare attenzione si segnala la responsabilità dirigenziale, il principio della responsabilità contrattuale , quest’ultima applicabile anche nel campo della tutela della salute, dei servizi offerti agli utenti, in una parola ai cittadini. Non vi è dubbio che si debba volgere lo sguardo verso la riappropriazione dei ruoli decisionali, verso migliori convergenze nella procedimentalizzazione dell’attività amministrativa. Ed ecco perché l’onda lunga del processo di riforma che da dieci anni circa almeno in Sicilia non si era avuto non può non coinvolgere l’iter di riassetto della burocrazia, dai livelli più bassi a quelli più alti.
Si sono poste le basi per un patto, un accordo per la Sicilia in modo da esternarsi in una zona franca burocratica. In altri termini, parallelamente ai moti di riforma del federalismo a livello statale, dello stesso federalismo fiscale, accanto ad una ritrovata fiscalità di vantaggio, peraltro autorizzata per la Sicilia da parte della Commissione Europea, è necessario creare una burocrazia in grado di offrire incentivi attraverso opportune politiche di sostegno ai cittadini, di vincere le esternalità negative che sino ad oggi hanno spesso ostacolato se non impedito i processi di investimento in campo economico – commerciale per i giovani imprenditori nel nostro territorio.
In una parola, si tratta di abbandonare le lungaggini burocratiche, le procedure farraginose a livello procedimentale. Non a caso, accanto alla ormai nota legge n. 69 del 2009, si è intervenuti sul campo attraverso il disegno di legge recante disposizioni urgenti in materia di personale regionale e dotazione organica, in tema di trasparenza e semplificazione dell’azione amministrativa nonché lo schema di regolamento ex art. 10, comma 3 della legge regionale 19/2008.
L’accesso alla documentazione amministrativa costituisce una delle pietre miliari della disciplina del procedimento amministrativo e misura di sicura democratizzazione dell’attività della Pubblica Amministrazione regionale; costituisce infatti misura avente come scopo principale quello di consentire la partecipazione “informata” all’agere publicum e come effetto (unitamente ad altri istituti quali la partecipazione procedimentale e gli accordi procedimentali) quello di prevenire, per quanto possibile, l’insorgere di contenzioso giurisdizionale in ordine ad atti e comportamenti dell’Amministrazione. Per espressa disposizione del legislatore, l’accesso ai documenti amministrativi costituisce, ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. m) Cost., livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e come tale deve essere garantito su tutto il territorio nazionale. La precisazione è quanto mai opportuna posto che, infatti, la disciplina del procedimento amministrativo, ed in particolare quella dell’accesso alla documentazione, non costituisce materia riservata alla legislazione statale né, tantomeno, alla legislazione concorrente regionale ma, semmai, rientra nel campo di applicazione di cui all’art. 117 c. 4 Cost. disciplinante la “competenza legislativa esclusiva” delle Regioni. Possiamo pertanto dire che le disposizioni in materia di accesso di cui alla (ad eccezione di quelle riconducibili alle garanzie giurisdizionali, comunque attribuite alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. l Cost.) costituiscono garanzia minimale non intaccabile a sfavore delle Regioni.
Si rifletta sugli interventi legislativi in materia urbanistica ed ambientale che sono stati e sono connessi alla tutela del paesaggio e della salute dei cittadini e le cui refluenze concernono anche la Pubblica Amministrazione in Sicilia, in procinto di ridefinizione. Il disegno di riforma – difatti – interviene positivamente sull’avviamento di verifiche e controlli ad attività iniziate tramite il silenzio assenso, un capillare rispetto dei principii della trasparenza, della semplificazione amministrativa, un’attuazione più certa dell’accelerazione del procedimento amministrativo, anche attraverso la predisposizione di agevolazioni delle iniziative economiche. Le imprese economiche infatti che operano nel territorio della Regione che ottimizzano l’utilizzo di modalità strumentali innovative, senza omettere il rispetto delle risorse energetiche ed ambientali, atte ad incrementare i livello occupazionale, nella piena osservanza della normativa comunitaria oltre che statale e regionale.
Il processo di riforma delle strutture burocratiche della P. A. in Sicilia prevede anche l’introduzione/miglioramento della rete telematica in modo da favorire la pubblicità dei servizi rientranti nelle competenze delle Amministrazioni stesse. Nel quadro de quo – evidentemente – si inserisce l’organizzazione regionale e dell’innovazione tecnologica per l’area informatica della P.A.
Rilevante è l’elaborazione di nuovi criteri e metodologie per la redazione dei testi legislativi, che a loro volta non possono prescindere da un adeguamento delle disposizioni allo sviluppo delle tecnologie informatiche.
Nel panorama tracciato si inserisce lo schema di regolamento ex art.10, comma 3, L. r. 19/2008, con cui si provvede a specificare le funzioni ed i compiti dei dipartimenti regionali di cui all’art. 8 della legge regionale n. 19 del 2008 e l’articolazione delle strutture dipartimentali, nel pieno rispetto di cui all’art. 11 della legge regionale 3 dicembre 2008 n. 20.
Giova rammentare che il progetto di riforma dei Dipartimenti della Presidenza della regione e degli Assessorati Regionali segua i principii di adeguatezza, di efficienza, di economicità, di completezza, attraverso la soppressione di funzioni superfluee ed obsolete, nel rispetto del principio di certezza del diritto, di responsabilità e di reductio ad unitatem della P.A., soprattutto addivenendo ad un unico ramo di amministrazione di funzioni e compiti connessi anche alla programmazione, alla protezione civile, alle garanzie di servizi per gli utenti. Ciò da realizzare attraverso la dotazione di strutture dipartimentali con compiti e finalità interdisciplinari, in modo da operare al meglio nel conferimento degli incarichi ed anche sul controllo dell’operato di dirigenti e funzionari. Tra l’altro – è bene notare – che si è avviato un percorso di rimodulazione del personale regionale e si sta pensando di intervenire sulla dotazione organica della stessa Amministrazione, attraverso una rivisitazione dei ruoli dei dirigenti di prima, seconda fascia e dei dipendenti della categoria A, operatore B, collaboratore C, istruttore direttivo D e funzionario direttivo. In questo consiste il superamento della precedente normativa di cui alla l.r. 15 maggio 2000, n. 10, dal decreto legislativo 30 marzo 2001 n.165, della legge 4 marzo 2009 n. 15 e s. m.i. e dei relativi decreti legislativi attuativi. Si sta intervenendo sulla redistribuzione del personale regionale, e ciò sulla base di criteri generali stabiliti dall’Amministrazione Regionale, evidentemente garantendo il dialogo con le parti sociali, in modo da favorire il miglioramento delle prestazioni e la predisposizione di fondi per il finanziamento di posizione e di risultato del personale con qualifica dirigenziale. Di rilevo è la predisposizione di meccanismi di turn over e di utilizzazione in senso ottimale del personale regionale, nel prossimo quadriennio, anche in virtù del contenimento della spesa pubblica regionale siciliana: ciò si insinua nell’iter di snellimento e nel processo di riorganizzazione della struttura amministrativa della Regione Siciliana, in deroga alle normative precedenti in materia ( vedi art. 10 comma 1 l.r.21/86 ed art. 20, comma 3 della l. r. 21/2003, nonché nel piano di riformulazione della pianta organica regionale, mediante l’adozione di misure di razionalizzazione e di individuazione dei profili giuridicoeconomici del personale dirigenziale, d’intesa con le organizzazioni sindacali.
Burocrazie private
CALL CENTER
Davide Cammarrone
Giornalista, scrittore, socio del Club Rotary Palermo Est
Il mondo doveva andare in un’altra direzione.
La promessa era chiara.
Nel sistema capitalistico, il Mostro burocratico sarebbe rimasto confinato nel recinto statale, senza superarlo, per aiutare la Comunità a gestire la Complessità.
Con qualche svantaggio, certo.
Il potere dei burocrati, ad esempio.
Coloro che stavano più in basso, gli impiegati, avrebbero assicurato non più del minimo risultato; coloro che stavano in alto, i dirigenti, si sarebbero ben guardati dal chiedere di più, per evitare lo stallo dell’intera macchina; coloro che stavano in mezzo, infine, i funzionari, avrebbero cercato di far carriera, evitando accuratamente di far funzionare meglio l’apparato.
Ogni tanto, uno scossone avrebbe ridestato i più pigri, o gli ingenui.
Nient’altro.
Ma il danno era limitato al sistema pubblico. Così era stabilito.
Non è più così, invece, ed è per questo che il mondo è andato nella direzione sbagliata. O più semplicemente imprevista.
Più Comunicazione, più Relazioni, si diceva. Più Tecnologia, meno Burocrazia.
Il futuro sarebbe stato luminoso.
Ma le imprese, anzitutto le più grandi, hanno subito il fascino della Torre d’avorio: il Mostro burocratico, infatti, oltre che un formidabile anestetico sociale, si è nel tempo rivelato un perfetto muro divisorio, un invalicabile fossato medievale, una trincea incrollabile.
La Tecnologia, poi, ha consentito la creazione di piccoli efficienti sistemi burocratici da opporre all’esterno.
E la Comunicazione, da persuasiva che era, si è fatta dissuasiva.
Quando il Cittadino è apparso all’orizzonte, la modernità ha fornito ai suoi avversari gli strumenti per contrastarne l’avanzata.
Come è potuto accadere tutto ciò?
Grande passo indietro.
In Italia, che è la sola realtà che conosciamo almeno un po’, le privatizzazioni di alcune grandi imprese monopolistiche hanno consentito la realizzazione di alcuni obiettivi ritenuti strategici dalla classe politica.
Dietro il paravento dell’obbedienza alle richieste europee di liberalizzazione, i governi hanno venduto i gioielli di famiglia ottenendo del danaro liquido buono a riempire per un po’ la vasca bucata del Bilancio pubblico; hanno trasferito all’esterno una parte dei costi di mantenimento di macchine complesse e parzialmente inefficienti; hanno consentito il passaggio da un sistema capitalistico arretrato, con pochissimi soggetti attivi, ad un sistema appena più evoluto, con più soggetti dotati di grandissima liquidità (che nessuno tassa adeguatamente).
Chi ha acquistato i vecchi monopoli dell’energia e delle telecomunicazioni (delle banche parleremo dopo), ha fatto un grande affare, pagato poco e con soldi altrui. Il sistema bancario ha fornito la materia prima, il danaro, sottraendola al circuito diffuso: le piccole e le medie imprese. E i tassi d’interesse sono cresciuti di conseguenza.
Chi ha acquistato i gioielli di Stato ha poi ritenuto – ed è qui che arriviamo al punto che c’interessa – di dismettere le reti esistenti sul territorio (sportelli, manutentori, quadri intermedi responsabili di singoli settori), e di sostituirle con dei servizi a basso costo gestiti da società terze.
I Call Center, anzitutto.
A che cosa servono, i Call Center?
Nati per dar corpo alle tecniche di Marketing telefonico (nate negli Usa e giunte negli anni Ottanta in Italia), hanno progressivamente smarrito la funzione di promozione dei prodotti e dei servizi delle aziende committenti ed assunto il ruolo di filtro tra le imprese medesime e l’utenza.
I singoli operatori dei Call Center, spesso precari, addestrati a colloqui ripetitivi e del tutto privi d’autonomia e d’iniziativa, non sono in grado di rispondere adeguatamente ad una richiesta d’intervento o ad un reclamo. Agiscono nel più assoluto anonimato e sono in grado di inserire nei sistemi telematici dei profili esatti degli utenti. Fastidioso, Intollerabile, Da evitare assolutamente.
Si limitano, nel migliore dei casi, a segnalare, alle imprese committenti, dei pacchetti di richieste alle quali far fronte in un tempo indefinito e non soggetto ad alcuna verifica o possibile sanzione contrattuale: l’inefficienza del sistema della Giustizia Civile è sotto i nostri occhi.
In un sistema come il nostro, i Call Center sono delle evoluzioni tecnologiche e sociali di straordinaria importanza (sia detto senza annettere a ciò un significato positivo).
I Call Center hanno preso il posto delle segretarie complici del capo, dei centralini con la musica di sottofondo, dell’impiegato accondiscendente.
Altro passo indietro.
Piccolo, stavolta.
La crisi economica recente, ovvero l’afflosciarsi della bolla finanziaria cresciuta a dismisura a partire dagli anni Ottanta, è stata, a ben vedere, una grande opportunità per le imprese più grandi, che, nell’ordine: si sono liberate degli avversari più piccoli, costretti a chiudere; hanno ricontrattato da posizioni di forza i rapporti con dipendenti e fornitori – licenziando e abbassando stipendi e prezzi –; hanno terrorizzato gli editori, bloccando o dimezzando i costi della pubblicità.
Gli effetti sono molteplici.
Meno concorrenza, più utili per le imprese superstiti, maggior subordinazione di fornitori e dipendenti. Meno libertà di stampa.
In poche parole, la crisi ha sottratto al mercato le sue principali difese immunitarie.
Le norme regolatrici sono troppe e contraddittorie.
L’arma Fine-Di-Mondo, il sistema giudiziario, è inaffidabile.
Anche le banche hanno imparato la lezione, ed hanno stretto i cordoni del credito.
Parliamo delle banche che son passate per accorpamenti e centralizzazioni (e in qualche caso per le solite invidiabili cessioni da Stato a privati), che hanno limitato l’autonomia di dirigenti e funzionari, filiali ed agenzie, e che hanno sostituito le autonomie con le procedure, codificate e gestite online.
Ciò che prima richiedeva normalmente una settimana, oggi può richiedere 3 mesi, o 6: la concessione di un fido, di un mutuo.
È il frutto di scelte consapevoli, e non casuali. I tempi variano in relazione ai diversi ambiti territoriali o economici. Hanno una funzione dissuasiva.
Nessun intervento, da parte delle autorità di controllo. Né sui tempi né sul singolare fenomeno dei tassi fissi più alti di quelli variabili in un tempo di bassissima inflazione, se non di autentica deflazione.
Comportamenti di cartello.
In passato, il principale strumento di controllo dell’utente nei confronti delle imprese e delle banche era rappresentato da un libro presente in tutte le case.
L’elenco telefonico.
Esso conteneva i numeri telefonici delle imprese e delle banche, e – a ben cercare – anche i numeri dei singoli uffici.
Le relazioni dirette, e – in comunità più coese – le reti sociali, costituivano delle forme di controllo diffuso.
Oggi, gli elenchi telefonici, ripuliti a dovere, pubblicano i soli numeri verdi, ai quali corrispondono dei Call Center.
Muri, fossati, trincee.
In un singolare effetto di retroazione, gli uffici pubblici hanno dunque appreso la lezione dalle imprese che, a loro volta, avevano preso spunto dal tradizionale comportamento degli uffici pubblici per utilizzare a modo loro Comunicazione e Tecnologia.
Meno Relazioni, più Call Center. Meno autonomia, più centralizzazione.
La Rete, direte, è la risposta.
Non è la panacea, purtroppo. Imprese e uffici hanno da tempo imparato ad utilizzarla al meglio.
È oramai quasi impossibile trovar su Internet degli interlocutori che consentano di porre rimedio, in tempi ragionevoli e costi accettabili, a situazioni d’inefficienza o di autentico sopruso.
La deresponsabilizzazione dei singoli terminali è l’esatto contrario di ciò che prometteva la riforma dell’amministrazione e priva definitivamente il privato di ogni aura di diversità dal pubblico.
Comunicazione e Tecnologia non offrono più alcuna garanzia obiettiva di rinnovamento: al contrario, esse possono essere utilizzate al solo scopo di mantenere inefficienti delle strutture, pubbliche o private.
Più Comunicazione, meno Relazioni.
Più Tecnologia, più Centralizzazione.
È il trionfo della Burocrazia.
La sola risposta possibile è giuridica. Una diversa Filosofia del Diritto, autenticamente liberale.
Investire in burocrazie
QUANTO RENDE IL PARASSITISMO
Salvo Cincimino
Ricercatore in Economia Aziendale all’Università di Palermo
“A futura memoria…”
In un recente intervento in Parlamento, il Ministro della Funzione Pubblica Brunetta ha dovuto constatare che in Italia attualmente la burocrazia costa 4.500 euro a cittadino, rispetto ai 3.300 euro della media dei Paesi dell’Unione europea.
Non è questa la sede per domandarsi quali metodi di calcolo siano stati utilizzati per pervenire a simili cifre. Possiamo certamente comprendere che la ragione di tale differenza – superiore ad oltre un terzo – non trovi giustificazioni di carattere demografico (forse in Italia c’è una maggior densità di popolazione?). Né il delta può essere addebitato alla differente struttura geomorfologia del nostro Paese.
Il costo della burocrazia, così come l’entità del debito pubblico ci fanno prevalere in Europa più che con il calcio. C’è comunque ben poco da esultare.
È empiricamente dimostrata la relazione diretta che esiste tra aumento del costo dell’attività pubblica e autonomia di un territorio (Sicilia docet). E, a partire dai primi anni ’90, il Valore istituzionale dell’Autonomia ha ispirato il profondo processo di riforma della Pubblica Amministrazione.
Anche la Germania post-comunista negli anni novanta ha riformato i propri assetti amministrativi, ripetendo un’esperienza già messa in atto vent’anni prima nella Repubblica Federale. Risultato: il numero complessivo delle municipalità tedesche diminuì di quasi due terzi: i comuni (Gemeinde) soppressi furono circa diciassettemila, i distretti (Regierungsbezirk) oltre duecento. Ciò al precipuo fine di “impedire che l’esistenza di entità politiche poco rappresentative potessero limitare l’efficienza amministrativa della Federazione”…
Il nostro è un dato a dir poco disastroso. Comunque non conforta neanche il costo medio della burocrazia per cittadino europeo. La causa potrebbe risiedere nello sviluppo del sistema economico di stampo capitalistico, come sosteneva Max Weber. Potrebbe.
Nel 1963 Ernesto Che Guevara pubblicava in Cuba Socialista un articolo, Contra el burocratismo, nel quale ripercorreva i primi passi amministrativi del suo Stato rivoluzionario. Ad un certo punto così si esprime: “… i quadri più coscienti e quelli più timidi frenavano i loro impulsi per adeguarli al ritmo del lento ingranaggio dell’amministrazione, mentre altri continuavano a fare i propri comodi senza sentirsi obbligati a rispettare nessuna autorità, rendendo necessarie nuove misure di controllo che paralizzarono la loro attività. Così la nostra Rivoluzione comincia a soffrire del male chiamato burocratismo”.
Andiamo indietro nel tempo. Nel primo secolo dopo Cristo, l’imperatore Claudio riformò il sistema amministrativo dell’impero romano istituendo numerosi uffici, interponendo tra la politica e i cittadini romani dei funzionari, svuotando così progressivamente il Senato dei suoi tradizionali poteri. Risultato: sono ancor oggi ricordati nei libri di storia dell’antica Roma i nomi di Callisto, Narciso, Pallante. Santi o martiri a cui vocarsi? Niente affatto: erano burocrati legati all’imperatore, operosi in atti di corruzione, malversazione, imbrogli e quanto di più immorale si possa immaginare.
E che dire delle gerarchie di funzionari di Hammurabi in Babilonia? Insomma, sembra che la burocrazia sia sintomo di malessere per la Pubblica Amministrazione. La burocrazia si evolve e matura peggiorando lo stato delle cose. Con Croizer potremmo sostenere che “la burocrazia è un’organizzazione che non può correggere il proprio comportamento imparando dai propri errori”, e con Veblen potremmo ripetere che si tratta di “incapacità addestrata”.
Non mancano comunque esperienze positive. Nell’antica Grecia uno stabile apparato burocratico di fatto non esisteva, per via del rapido turnover dei cittadini utilizzati per ricoprire cariche pubbliche. Eppure la democrazia di Pericle è ancor oggi rimpianta. Nella Francia di Napoleone venne creato un apparato burocratico snello ed efficiente, accentrato, frutto di un processo di profonde riforme, fortemente rallentate dalle numerose guerre.
Non è un caso che le migliori democrazie sono state assistite da efficaci burocrazie, e da un efficace e coerente corpus normativo.
Ma il problema della burocrazia non è soltanto un problema della amministrazione Pubblica.
Ricordo che su un testo di management accounting per le decisioni aziendali veniva enfatizzato, con ridondanza di esempi, il concetto dell’efficienza del ciclo di produzione (in termini anglosassoni: manufacturing cycle efficiency). Uno dei casi di riferimento riguardava il tempo medio di “lavorazione” di una richiesta di finanziamento, che veniva normalmente evasa in un mese. Un funzionario zelante tracciò il percorso della pratica, e domandò a ciascuno dei colleghi interessati i loro tempi di lavorazione. Risultato: il tempo effettivo di lavoro sulla pratica complessivamente era di 15 minuti. Nella rimanente parte del tempo (un mese tranne 15 minuti) la richiesta del finanziamento sostava sulle scrivanie di ciascuno dei funzionari impiegati nel processo di lavorazione…
Sostiene Galbraith: “non c’è niente che faccia tanto prestigio in un’azienda quanto il numero dei propri subordinati. E non c’è niente di tanto gratificante quanto passare a dei subordinati la responsabilità di pensare. Ne derivano un potente impulso ad aumentare le schiere del personale e una marcata tendenza alla stasi burocratica”.
Esiste anche un’altra forma di burocrazia per le imprese, quella indotta dalla Pubblica Amministrazione. Questo “anello di congiunzione” tra i due mondi (quello degli enti pubblici territoriali istituzionali e quello delle aziende vocate al mercato) si traduce (in applicazione del principio dello snellimento degli adempimenti amministrativi…) nel dover adempiere ad una serie innumerevole di prescrizioni, a dover richiedere, e ottenere svariate autorizzazioni e permessi, senza per questo avere in cambio adeguate infrastrutture di supporto.
Il confine tra buona o cattiva burocrazia è delimitato dalla capacità di saper predisporre buone regole, ma non solo. Necessita anche “saper” ben operare.
Ma torniamo ai problemi del nostro Paese e della nostra Pubblica Amministrazione. Di norme ne sono state emanate davvero tante, il più delle volte con organicità e coerenza di contenuti e di successioni.
Penso alla riforma degli enti locali, avviata a livello nazionale con la legge 142 del 1990 (in Sicilia, tanto per esser differenti dagli altri, con legge regionale 48/1991). Il successivo D. Lgs. n. 29/1993, intitolato “razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego” segna in maniera netta e definitiva il crinale tra i poteri degli organi di indirizzo politico e le responsabilità dei dirigenti, queste ultime connesse alla necessità di operare con logiche di gestione manageriale, finalizzate al conseguimento dei risultati. Così la normativa regolamentare, ossia il contratto nazionale collettivo di lavoro per i dipendenti degli enti locali incentiva esclusivamente gli effettivi incrementi della produttività e dei livelli qualitativi dei servizi che rappresentino risultati aggiuntivi apprezzabili rispetto a quelli attesi dalle normali prestazioni lavorative. Il sistema dei controlli interni, normato per tutta l’amministrazione pubblica con provvedimento risalente a oltre due lustri addietro, così internamente coerente da non esser stato sottoposto (finora) a emendamenti, è ispirato al criterio del decentramento per assecondare la maturità e l’autonomia degli enti pubblici istituzionali. Già, l’autonomia. Eravamo partiti da questo Valore, e lo ritroviamo, utilizzato, piegato dall’immaturità, all’autoreferenzialità e alla mala gestio. Tanto da rendere necessarie successive previsioni normative all’interno del Testo unico degli enti locali che hanno introdotto specifici “obblighi a fare” (tra tutti: la trasmissione del referto sul controllo di gestione alla Sezione di controllo della Corte dei Conti; la trasmissione delle deliberazioni di riconoscimento di debiti fuori bilancio alla Procura della Corte dei Conti). Il tutto con aggravi di costi per la macchina burocratica, ed a triste dimostrazione che la cultura manageriale stenta dopo oltre tre lustri dall’avvio della riforma a decollare. Tanto da rendere necessaria una ulteriore riforma, che conferma, con maggior rigidità, la necessità di adottare all’interno della PA criteri di valutazione delle performance volti a premiare i migliori (si pensi all’articolo 67 della legge n. 133/2008).
Il Ministro Brunetta propone una ricetta semplice, forse scontata: non il taglio dei dipendenti pubblici, ma l’incremento della loro efficienza e produttività: “50 per cento in più di giustizia e salute e 50 per cento in meno nell’espletamento delle pratiche burocratiche non sono traguardi irrealistici, se si predispongono gli strumenti giusti”. Quindi non spendere meno, ma spendere meglio. E adottare idonei strumenti, anche con le riforme prospettate e velocemente adottate. Ma la storia ci ha insegnato che i soli strumenti non bastano.
Scriveva Arturo Carlo Jemolo, solerte e integerrimo funzionario ministeriale nell’era giolittiana: “le leggi scritte sono qualcosa di morto, sono gli uomini che le vivificano applicandole”.
Platone, nel dialogo Fedro, fa dire a Socrate che il sapere non è l’informazione staticamente riprodotta su un testo, ma la viva conoscenza degli uomini. Soltanto gli uomini possono infatti comprendere, dimostrare, interpretare il contenuto di uno scritto, anche di una legge.
È quindi il buon governo degli uomini che anima un governo fatto di leggi.
A noi quindi la responsabilità di saper bene utilizzare utili provvedimenti normativi.
Immagino che Sciascia, rispetto a questa affermazione, concluderebbe così: “a futura memoria, (se la memoria ha un futuro)…”.
Il Mostro che mangia se stesso
L’INSEGNAMENTO RIFIUTATO
Roberto Lagalla
Medico, Rettore dell’Università di Palermo, socio del Club Rotary Panormus
Da radiologo, sono abituato a considerare la proliferazione incontrollata delle cellule non come un processo positivo, ma come la manifestazione di una malattia seria dell’organismo umano. Alla fine, com’è noto, le cellule cresciute in modo abnorme finiscono per deformare il tessuto, distruggere le strutture anatomiche, far perdere progressivamente la funzione all’organo coinvolto. Non a caso una diagnosi precoce e una terapia mirata possono essere risolutive.
Fuor di metafora medica, ritengo che la crescita incontrollata di corsi di laurea e di dipartimenti all’interno delle Università italiane sia stata – prima che un fenomeno insostenibile dal punto di vista finanziario – un cattivo sintomo di salute del sistema, un processo che portato avanti all’infinito avrebbe potuto causare il collasso dell’organismo, divorato da una proliferazione di cellule incontrollata, bombardato da se stesso come in una malattia autoimmune. È per questo che, ancor prima che i provvedimenti del ministro Mariastella Gelmini ponessero – con molte ragioni e qualche limite – le necessità di profonda revisione delle Università, ho posto la questione di autoriforma del sistema della formazione accademica come essenziale per la sopravvivenza del sistema. Una terapia da iniziare senza perdere tempo.
Com’è noto, il decreto 509 del ’99 (meglio noto come “riforma del 3+2”) era nato con l’intenzione di accelerare l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, riducendo a tre anni il tempo per ottenere una laurea di primo livello, e offrendone altri due per affinare le proprie conoscenze e competenze. Ma, a distanza di pochi anni, la riforma rivelò il suo sostanziale fallimento: numero di fuori corso invariato, anzi accresciuto, difficoltà di riconoscimento del titolo junior da parte degli ordini professionali, immutati tempi di inserimento nel mondo del lavoro.
Da parte del mondo universitario, la riforma – bisogna avere il coraggio di affermarlo con grande sincerità – divenne un’occasione per un’incontrollata proliferazione di corsi di studio, sia nelle discipline umanistiche che scientifiche. Una crescita esponenziale dovuta in parte, in buona fede, alla volontà di fornire ai ragazzi percorsi mirati già al primo step di formazione inseguendo nicchie di occupazione (quando invece ormai è noto che il mercato cambia più velocemente della formazione accademica e che quindi, anziché superspecialisti, servono laureati flessibili e con un’ottima preparazione di base), dall’altra dall’opportunità di moltiplicare cattedre e insegnamenti, di aumentare il proprio peso e il proprio potere, fornendo strade di inserimento a una vasta platea di precari dell’Università, magari preparati e meritevolissimi. Una crescita autoreferenziata, sganciata spesso da qualsiasi interlocuzione con il mondo produttivo e con gli altri attori della scena sociale.
Il taglio ai corsi di laurea, prima che essere motivato da un carattere di sostenibilità economica (impossibile tenere in piedi corsi con pochissimi allievi, o dislocati in sedi territoriali incongrue e tenuti su da uno staff di professori in trasferta) è stato dettato da una necessità di credibilità e di salute del sistema. Per quanto riguarda l’Ateneo di Palermo, dopo un primo taglio dell’11 per cento, l’Università nel 2009 ha deliberato un’ulteriore riduzione del 21,20 per cento, diventando quinta per “dimagrimento” in Italia, dopo Perugia, Parma, Siena, Napoli Seconda. E ha stabilito, ancora prima che l’indicazione del ministro divenisse prescrittiva, un tetto minimo di iscritti (30,50, 60, a seconda del tipo di laurea) per potere attivare un corso. Un piano che è stato esitato dopo una rigorosa verifica delle proposte elaborate dalle facoltà in base alle dotazioni di docenti e di strutture, ma anche tenendo in considerazione specifiche competenze, tradizioni formative e culturali ed esigenze formative del territorio.
Tornando alla metafora medica, l’organismo è un complesso che funziona bene se gli organi dialogano, se i tessuti sono ben irrorati, se psiche e corpo sono in armonia: un fegato o un cuore, da soli, non servono a niente: l’Università non andrà da nessuna parte se continuerà a ragionare nella logica dei giardinetti, degli steccati, delle cordate. Sia, al suo interno, tra un gruppo di ricerca e un altro, tra un dipartimento e l’altro, sia con riferimento all’esterno. Troppe sordità e autoreferenzialità hanno caratterizzato finora il mondo accademico, talmente concentrato su se stesso da perdere talvolta la consapevolezza del suo posto nel mondo, del suo ruolo, della sua natura di palestra intellettuale che vive soltanto nello scambio e nel dialogo. Una riflessione che chiama ciascun soggetto alle proprie responsabilità, dai professori agli studenti. Per esempio il recente “scoraggiamento” dei fuori corso attuato dall’Università di Palermo con un provvedimento che subordina le agevolazioni contributive alla condizione di studenti attivi (che cioè sostengono esami) ha messo il dito su una ferita bruciante e svelato un’ipocrisia. A me non basta sapere che l’Università di Palermo abbia migliaia di iscritti ogni anno a ingrassare pletoricamente i numeri: mi interessa piuttosto ridurre la percentuale di fuori corso e il tasso di abbandono. Io voglio conoscerli, metaforicamente, uno a uno, i ragazzi, avere contezza dei loro bisogni. Non va bene, non è da Università buone e illuminate, sostenere comunque legioni di ragazzi parcheggiati per decenni o vagolanti tra un corso e l’altro. È giusto offrire loro opportunità e stimoli per laurearsi con profitto e nei tempi giusti.
Anche i dipartimenti, che sono le strutture di ricerca degli Atenei, sono cresciuti eccessivamente, sulla base spesso di logiche di cordata. Credo quindi che la riduzione del loro numero, a Palermo approvata di recente, possa essere piuttosto che una necessità dettata da esigenze finanziarie, un’opportunità da cogliere per fare funzionare meglio il sistema della ricerca. I dipartimenti, oggi ottanta, dovranno avere oltre quaranta componenti, pena la disattivazione entro il 31 dicembre del 2010, e almeno dieci ricercatori attivi (che svolgono cioè attività scientifica documentata) se vorranno mantenere la propria autonomia. Le strutture dovranno accorparsi quindi in aree di ricerca tra loro convergenti, cosa che potrà peraltro favorire lo scambio di conoscenze interdisciplinari, con l’abbattimento di steccati culturali che non hanno alcun senso. La ricognizione che abbiamo condotto delle idee d’eccellenza ha portato alla luce, tirato fuori dai cassetti, sottratto ai confini dello specialismo una straordinaria rassegna di 150 progetti scientifici che hanno vinto premi internazionali, esitato brevetti, attratto risorse, offerto chiavi nuove di interpretazione su interrogativi e problemi che ci riguardano tutti dalla salute al clima, dall’ambiente alle scienze sociali.
La ricerca e l’innovazione sono le grandi scommesse: settori su cui l’Italia investe solo l’1,1 per cento del Pil contro l’1.84 della media europea. Le regioni del Mezzogiorno hanno speso meno dell’1 per cento e questo dato drammatico dimostra una evidente difficoltà della politica nel suo rapporto con l’Università.
Non è corretto, quindi, valutare questo complesso di riforme del sistema accademico come questioni che hanno a che fare esclusivamente con le tasche delle Università, anche se la situazione finanziaria degli Atenei, com’è noto, non è rosea. Palermo, unica in Italia ad avere sottoposto i suoi conti a una società di certificazione esterna (la Price Waterhouse), ha dovuto fare i conti con i tagli ai finanziamenti statali e con la consapevolezza di avere vissuto per anni oltre le sue possibilità. È stato quindi approntato un piano di risanamento che prevede il blocco transitorio del turn over, lo snellimento della macchina organizzativa, il controllo rigoroso della spesa con gare uniche per tutti i servizi, la rimodulazione già avvenuta delle tasse universitarie, la vendita degli immobili, e se tutto questo non fosse sufficiente, un piano di rientro da attuare in accordo con il ministero per accedere al credito e spalmare il debito residuo su 20 o 30 anni. in modo da potere amministrare con serenità e consapevolezza.
Con l’approvazione del bilancio di previsione 2009 l’Ateneo ha finalmente organizzato l’intelaiatura finanziaria che ci consente di sapere con certezza dove sono i cassetti da cui attingere e in cui fare confluire risorse.
Oggi, la disponibilità degli strumenti finanziari collegati alla pianificazione strategica 2009-2013 costituisce il presupposto fondamentale per una programmazione virtuosamente coordinata tra politica, amministrazioni pubbliche, mondo universitario e della produzione, per orientare e concentrare gli investimenti su grandi obiettivi, condivisi e ritenuti irrinunciabili per lo sviluppo. L’Università è pronta ad accettare la scommessa.
L’esercizio del potere
LA SOTTRAZIONE DELLE DECISIONI
Antonio La Spina
Docente di Sociologia presso l’Università di Palermo, socio del Club Rotary Palermo Est
Una burocrazia pubblica fatta da personale ben scelto, che dia risposte certe entro scadenze ragionevoli ai cittadini e alle imprese e sappia intervenire per anticipare e guidare il cambiamento, è ritenuta uno dei fattori principali dello sviluppo socio-economico. D’altro canto, riscontriamo il sottosviluppo quando le amministrazioni pubbliche risultano sfornite di tali caratteristiche.
Una nota ricerca di Putnam, svolta proprio con riferimento alle regioni italiane, ha evidenziato come lo sviluppo economico sia favorito dal rendimento istituzionale della pubbliche amministrazioni, che a sua volta dipende dalla dotazione di senso civico o “capitale sociale” che si riscontra in un dato territorio. La Banca mondiale riporta che i migliori tassi di crescita si hanno in nazioni le cui istituzioni pubbliche vengono ritenute più credibili dalle comunità degli uomini d’affari. Con ciò si intende che esse vengono percepite come intenzionate a, e capaci di, mantenere ferme e condurre a compimento le politiche intraprese, e che in tali nazioni si ritiene che abbiano luogo comportamenti amministrativi prevedibili, competenti, imparziali, con bassi livelli di corruzione e in genere di particolarismo.
La chiave di volta è ovviamente l’affermazione della responsabilità e della qualificazione dei dirigenti. Al mancato raggiungimento dei risultati di gestione programmati dovrebbe corrispondere, ad esempio, la revoca dell’incarico affidato, ovvero l’esclusione dal conferimento di ulteriori incarichi dirigenziali.
Le amministrazioni pubbliche meridionali si caratterizzano, come è noto, per il loro scarso rendimento e per la loro carente capacità progettuale (che spesso fa sì che si perdano o siano impiegate assai male opportunità quali quelle derivanti dai fondi comunitari). È dunque prioritaria la loro modernizzazione, sia al fine di renderle più rispondenti ai bisogni riscontrabili nella cittadinanza, sia per far sì che da ostacolo allo sviluppo esse si trasformino in agenti di crescita.
Dopo le vicende dell’intervento straordinario, oggi gli interventi per lo sviluppo si riconducono ai fondi strutturali europei e ai fondi nazionali (ricompresi nel Fas, fondo unico per le aree sottoutilizzate).
Talora non si riesce neppure a impegnare e spendere parte di tali somme. Anche quando esse vengono spese, tuttavia, lo si fa male, in modo da riprodurre circuiti di particolarismo, dipendenza e clientela, e senza riuscire a creare vere opportunità per uno sviluppo capace di autosostenersi. Ad esempio, con riguardo ai vari dirigenti operanti in ambiti che hanno rilievo per le attività produttive, sarebbe auspicabile indicare, tra i risultati di gestione, l’effettiva attrazione di investimenti esterni, l’effettivo aumento del Pil e delle esportazioni, l’effettiva creazione di occupazione da parte dei privati, l’effettivo insediamento di nuove attività produttive, e così via. Non soltanto la spesa dei fondi assegnati (che peraltro spesso non è neppure realizzata nella misura necessaria).
Dai primi anni novanta dello scorso secolo il nostro paese ha conosciuto numerose e profonde riforme amministrative, volte a migliorare il rendimento delle burocrazie. In una regione a statuto speciale come quella siciliana il recepimento di tali riforme è stato talora tardivo e distorto. Non è facile, in genere, far sì che le indicazioni normative si traducano in comportamenti effettivamente innovativi. Si pensi, ad esempio, ad uno dei temi di maggior impatto, quello della semplificazione. In una realtà come le nostra, gli imprenditori si lamentano (oltre che di norme e procedure da modificare, alleggerire e sfrondare) dei comportamenti concreti delle amministrazioni pubbliche, che talora intervengono in modo vessatorio oppure oppongono rifiuti ingiustificati, ovvero hanno difficoltà a impiegare istituti fondamentali di semplificazione come la conferenza di servizi, o ancora non esercitano i compiti di vigilanza e repressione loro spettanti, il che provoca distorsioni della concorrenza a vantaggio degli operatori irregolari. Le amministrazioni non solo non assumono il punto di vista dell’imprenditore, ma agiscono spesso da ostacolo all’attività produttiva. La semplificazione “sulla carta” non è ancora riuscita a diventare semplificazione in azione. Un altro problema acutamente percepito è quello della difformità interpretativa circa le stesse norme da un’amministrazione all’altra, o anche all’interno della stessa amministrazione.
In un’area depressa, in cui si dovrebbe avere interesse a favorire gli investimenti privati, occorrerebbe diminuire al minimo l’impatto negativo dall’attività degli uffici pubblici. Tale attività dovrebbe avere tempi certi e contenuti, eliminando tutti i passaggi non essenziali, e al contempo non attenuando il necessario rigore nella vigilanza: si pensi alle concessioni edilizie, ai visti di conformità, al controllo da parte delle sovrintendenze, e così via. La farraginosità delle procedure di ottenimento dei permessi e l’inaffidabilità delle amministrazioni sono un freno all’insediamento produttivo, che rende “incalcolabili” i tempi, i costi e l’alea della localizzazione. Ciò insieme alla carenza di infrastrutture, anch’essa in larga parte dovuta alla bassa qualità dell’intervento pubblico.
Imprenditori operanti in un contesto difficile come quello meridionale potrebbero sottolineare la rigidità delle normative, i costi che esse comportano per l’attività produttiva, la necessità di esenzioni o trattamenti differenziati, ovvero richiedere un’applicazione indulgente delle norme esistenti. In effetti, però, essi stessi spesso ammettono che in campi come quello ambientale o della sicurezza sul lavoro la normativa è necessaria e utile. Le imprese sane chiedono anzi un’applicazione omogenea, a tappeto, certa e rigorosa delle normative esistenti.
Se questa manca, infatti, si ha una grave distorsione della concorrenza, a scapito degli onesti (o “fessi”) che osservano le norme vigenti, e a beneficio di coloro che le trasgrediscono indisturbati. Le amministrazioni devono garantire l’applicazione delle regole in modo omogeneo e generalizzato. Talora, invece, esse si muovono con ritardi, particolarismi, discordanze interpretative, e tendono a scegliere, tra più interpretazioni possibili quelle meno favorevoli all’attività economica.
Nel 1998 e nel 2002 il legislatore nazionale ha prima affermato e poi ribadito con alcune varianti l’adesione al cosiddetto spoils system, in una versione che presenta alcuni tratti di originalità. Sono stati previsti, tra l’altro, incarichi a tempo determinato, di durata spesso esigua; la cessazione degli incarichi relativi alle posizioni di più alto livello con l’entrata in carica di un nuovo governo; la possibilità di nominare esterni all’amministrazione. Secondo l’opinione espressa da Sabino Cassese, tale sistema (oltre a violare svariati principi costituzionali, tra cui quello dell’imparzialità), con l’offrire alla dirigenza un significativo incremento retributivo ne peggiora sensibilmente la qualità, così come peggiora la qualità della sua azione. Pur essendo stato proclamato in precedenza con grande enfasi il principio della separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa, l’ingerenza del ceto politico nella gestione fatta uscire ufficialmente dalla porta è rientrata prepotentemente dalla finestra, vista la condizione di perpetua dipendenza della dirigenza dall’eventualità di non rinnovo o rimozione (e non certo in correlazione ad eventuali lacune di rendimento). Il ricorso ad esterni assai spesso ha premiato, anziché la competenza e l’esperienza, altri tipi di requisiti. Nel complesso, questa particolare riforma amministrativa è tale da compromettere fortemente il faticoso cammino di modernizzazione intrapreso per l’amministrazione italiana.
Va peraltro rimarcato che una recentissima normativa nazionale prevede concorsi per l’accesso alla prima fascia dirigenziale, nonché la riduzione della possibilità di conferire incarichi dirigenziali ad estranei all’amministrazione.
Sarebbe poi necessario che la dirigenza venisse valutata anche sulla base di rilevazioni sistematiche e approfondite del gradimento dei vari tipi di utenza (da strutturare e gestire, ovviamente, facendo leva su metodi condivisi e soggetti che non dipendano dagli stessi dirigenti da valutare, il che rinvia alla necessità di un organismo di valutazione in posizione di indipendenza). Le burocrazie dovrebbero essere in grado di rilevare la qualità delle proprie prestazioni, secondo standard prestabiliti e certificati, espressi nelle carte dei servizi. A tale scopo, esse devono dotarsi di “sensori” dei bisogni sociali, di dati e rilevazioni empiriche sul loro effettivo rendimento, e in genere della capacità di orientare le politiche pubbliche nella direzione del miglior soddisfacimento possibile dei bisogni essenziali della popolazione.
A partire dalla dirigenza le risorse umane vanno valorizzate, incoraggiando l’assunzione di responsabilità, il senso di appartenenza all’istituzione e l’identificazione con i compiti affidati, la capacità di innovare al servizio dell’utente-consumatore e in corrispondenza delle istanze degli amministrati. Un documento di Confindustria nazionale, il Decalogo sulla semplificazione, del 2004, richiede la diffusione degli strumenti di semplificazione e di accelerazione dell’attività amministrativa e, sul modello statunitense, la massima estensione possibile della “definizione delle competenze dei funzionari pubblici ed in specie dei dirigenti … Occorre cioè facoltizzare il dirigente al più ampio spettro di iniziative, valorizzarne l’autonomia ed esaltarne la capacità di operare scelte, e dunque in ultima analisi di esercitare nel modo più pieno e consapevole la discrezionalità, completando così la riforma amministrativa avviata nel 1993 con la separazione di competenze dirigenziali e livello politico”.
Talora il burocrate decide troppo, paralizzando l’attività dei cittadini e delle imprese o sostituendosi ad essa. Altre volte rifugge dalla decisione, per evitare di assumersi responsabilità, per lentezza o perché non ha le competenze per capire come decidere nel modo giusto. In entrambi i casi viviamo peggio, perché la burocrazia non sa decidere bene.
Le burocrazie del mondo
LENTEZZE CONFUCIANE
Vito Marino
Medico, socio del Club Rotary Palermo Est
PREMESSA 1
“Con burocrazia si intende l’organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità, impersonalità. Il termine, definito in maniera sistematica da Max Weber, indica il “potere degli uffici” (dal francese bureau): un potere (o, più correttamente, una forma di esercizio del potere) che si struttura intorno a regole impersonali ed astratte, procedimenti, ruoli definiti una volta per tutte e immodificabili dall’individuo che ricopre temporaneamente una funzione. L’etimologia ibrida del termine, dal francese bureau (“ufficio”) connesso al greco krátos (“potere”) ne rivela l’origine tarda e la derivazione di chiara matrice francofona.” (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).
PREMESSA 2
L’allievo: “Maestro, come riescono i Cinesi a conciliare il Taoismo, filosofia della spontaneità e della natura, con il Confucianesimo, filosofia della adesione a rigide regole sociali?” Il Maestro: “Semplice, i Cinesi sono Taoisti in casa e Confuciani fuori casa!”.
Questa botta e risposta tra l’allievo, che ero io, e il Maestro, che era il prof. Leung Kwok-po, è stato il punto di partenza della mia comprensione concreta del pensiero cinese.
IL CONFUCIANESIMO
Il Maestro disse: “Se si guida con le leggi e si mantiene l’ordine con i castighi, il popolo si asterrà dalla colpa, ma non avrà coscienza alcuna; se si guida con la virtú e si mantiene l’ordine per mezzo della morale, il popolo, allora, avrà coscienza” (Confucio).
Il Confucianesimo è una delle principali scuole di pensiero filosofiche cinesi. Nasce dall’insegnamento di Confucio (Kongfuzi), che fu contemporaneo di Budda, vivendo tra il 551 a.c. e il 479 a.C. Il Confucianesimo si fonda su principi generali di etica, buon governo e saggezza pratica, e ha nella osservanza dei riti (Li), il perno intorno a cui ruota l’ordine politico e sociale.
Già nel V secolo a.C. conobbe in Cina una notevole diffusione, tanto che successivamente, nel periodo della dinastia Han, divenne l’ideologia ufficiale dello stato. Il confucianesimo, diffondendosi anche in Corea, Giappone e Vietnam, ha per molti secoli costituito un fondamento ideologico della cultura estremo orientale. Gli insegnamenti di Confucio, tuttora vivi nella cultura cinese, costituirono in Cina la parte fondamentale della formazione dei burocrati e dei pubblici amministratori.
Il confucianesimo, così come in parte il Taoismo, non è mai stato considerato alla stregua di una religione nel senso occidentale del termine, e Confucio è stato onorato e considerato un grande maestro e un saggio, ma non una “divinità personale” nel senso del “Santo” o del “Dio” delle religioni monoteiste. Lo stesso Confucio non si definì mai “divino”.
Il pensiero confuciano si trova espresso nei testi raccolti e ordinati da Confucio e dai suoi discepoli, che si dividono in due gruppi: i “Cinque Classici” e i “Quattro Libri”.
I Wujing (Cinque Classici) comprendono l’Yijing (I Ching, Libro dei mutamenti), lo Shujing (Libro della storia), lo Shijing (Libro delle odi), il Liji (Libro dei riti) e il Chunqiu (Annali primavera-autunno). Il Yijing è un manuale di divinazione, lo Shujing è una raccolta di documenti storici, lo Shijing è un’antologia di poemi, il Liji tratta in particolare dei riti delle cerimonie pubbliche e private, il Chunqiu è una cronaca dei principali eventi storici della regione di Lu in cui nacque Confucio, in altre zone della Cina, dall’VIII secolo a.C. fino al 479 a.C., anno della morte di Confucio.
I Sishu (Quattro Libri) sono una raccolta dei famosi “detti di Confucio” e dei suoi discepoli. Comprendono il Lunyu, una raccolta di massime di Confucio, il Daxue (Il grande sapere), lo Zhongyong (La dottrina del mezzo), insieme delle affermazioni filosofiche di Confucio e commenti dei suoi discepoli, e il Mengzi (Libro di Mencio), sugli insegnamenti di questo filosofo.
Confucio fu quello che oggi definiremmo un “conservatore”, e il suo pensiero mirò a stabilire principi di stabilità in un’epoca storica molto turbolenta, caratterizzata dalla frammentazione del regno instaurato alla dinastia Zhou in piccoli stati sempre in guerra tra di loro, dal caos politico e da traumatici cambiamenti sociali. Confucio mise al centro della sua filosofia l’esigenza che i sovrani dovessero possedere elevate virtù morali e sovrani e sudditi dovessero essere educati a coltivare le qualità adatte a una società stabile, con il rispetto dei riti (li) e l’inserimento nella educazione della musica e della letteratura.
Questo sistema pedagogico e sociale avrebbe formato un essere umano dotato di “Ren”, cioè “amore”, “bontà”, “umanità” e “sensibilità”, e dotato anche di rettitudine, decoro, integrità e amore filiale.
Il pensiero politico di Confucio si espresse nella idea di un governo paternalistico con un sovrano benevolo e di perfetta moralità e sudditi di conseguenza naturalmente rispettosi e obbedienti.
“Volendo gestire il regno occorre prima saper gestire la propria famiglia.” (Confucio)
Da questo punto di vista lo Stato diventa come una grande famiglia, e i riti, il rispetto delle gerarchie e lo studio dei classici assicurano l’armonia dei cittadini e la guida dell’Imperatore, considerato allo stesso tempo Figlio del Cielo, padre, maestro, capo politico e spirituale della nazione, sacerdote in grado di parlare con il Cielo e officiare i più importanti riti religiosi.
Secondo la dottrina confuciana, la famiglia era il nucleo sociale più importante e sulla base di essa dovevano essere improntati tutti i rapporti sociali, specialmente i cinque tipi di rapporti fondamentali: padre/figlio, sovrano/sudditi, marito/moglie, fratello maggiore/fratello minore, amico più anziano/amico più giovane. Naturalmente, nessuno di questi rapporti poteva definirsi paritario. Allo stesso tempo, nel pensiero confuciano gli uomini nascono uguali e con gli stessi diritti, la gerarchia sociale non è un’entità rigida, e chiunque può migliorare la propria condizione e diventare un “uomo superiore”.
Il più importante successore di Confucio fu Mencio, oggi considerato uno dei primi sostenitori del diritto a resistere e ribellarsi nel caso di chiara iniquità e oppressività tirannica del potere. Per Mencio solo gli intellettuali sono destinati al governo, mentre i lavoratori manuali devono essere governati e obbedire.
CONFUCIANESIMO E BUROCRAZIA
Durante la dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.) il pensiero e le opere confuciane furono particolarmente in auge, divennero dei “classici” e furono trasmessi dallo studio che dedicarono loro gli eruditi nelle scuole pubbliche. Fatto ancora più importante, i testi confuciani
diventarono il riferimento obbligato degli esami che doveva sostenere chi voleva entrare nella macchina burocratico-amministrativa dello stato: gli aspiranti “Mandarini”. Così, le cariche, nell’apparato burocratico cinese, si poterono ottenere solo grazie alla conoscenza dei libri di Confucio.
Anche nel periodo storico che seguì alla caduta della dinastia Han il confucianesimo, seppur oscurato dal taoismo e dal buddismo, assicurò il monopolio della cultura e le cariche burocratiche più elevate.
Per diventare mandarini la via privilegiata era quella basata sul censo e sulle clientele familiari, alle cariche più alte accedevano per lo più figli e parenti di funzionari, che godevano del diritto di nomina. Ma accanto a questa via esisteva anche quella della “segnalazione”. L’imperatore invitava funzionari e autorità locali a segnalare alla corte uomini degni e in grado di assumere cariche amministrative. Nel 124 a.C. l’imperatore Wudi istituì l’Università Imperiale, nella quale degli esperti tenevano lezioni sui classici confuciani e sull’arte del governo.
Le autorità locali venivano invitate a proporre nomi di studenti dotati che si sarebbero potuti inserire nel ristretto numero di privilegiati che sarebbero entrati nell’Università Imperiale. All’antica aristocrazia del sangue se ne affiancò, e poi ne subentrò, una del merito.
Intellettuali e letterati, i Mandarini erano la classe dirigente, e gestirono e amministrarono la Cina per 1300 anni anni.
Il Mandarino era il braccio amministrativo dell’Impero, come abbiamo visto usciva da un lungo e duro processo di selezione, era un servitore fedele. Dal nostro punto di vista potrebbe definirsi un “conservatore”, un “conformista”, espressione del governo anche quando scriveva di storia e poesia. Un “intellettuale organico”?
Così come i nostri politici, specialmente fino a pochi anni fa, i Mandarini, nonostante avessero il compito di far funzionare o stato dal punto di vista fiscale, giuridico, giudiziario, economico e dei lavori pubblici, non avevano alcuna conoscenza o specializzazione tecnica, essendo dei letterati. Questa soluzione ha però garantito nei fatti la stabilità dell’impero cinese. E probabilmente i sistemi di reclutamento della burocrazia statale in Occidente, soprattutto nella Francia rivoluzionaria e napoleonica e in Gran Bretagna per il Civil Service dal 1855, presero a modello quello della Cina imperiale. E seguendo l’esempio e i risultati ottenuti nella organizzazione della macchina dello stato da parte della Cina, il Giappone del VII secolo, durante il regno del principe Shotoku e dell’imperatore Tenji, introdusse una riforma dello stato e della burocrazia basato sul sistema di esami del modello cinese confuciano.
CONFUCIANESIMO OGGI
Verso la fine del XIX secolo in Cina gli studiosi si interessarono attivamente alle questioni politiche e formularono un programma di riforma basato sulla dottrina confuciana. Ma ne periodo nella confusione intellettuale che seguì la rivoluzione cinese del 1911 il confucianesimo fu considerato “decadente e reazionario”, e il modello tradizionale famigliare, su cui si era basata in gran parte la sua forza, fu messo in crisi.
Dopo la vittoria del comunismo cinese nel 1949 molte tradizioni che si basavano sul confucianesimo vennero soppresse, come ad esempio appunto il sistema famigliare, tanto che vennero addirittura organizzate, specialmente nel periodo della Rivoluzione Culturale, delle vere e proprie campagne ufficiali contro il confucianesimo. Ma a partire dagli Ottanta il Partito comunista cinese tornò a sostenere l’importanza del confucianesimo.
I paesi asiatici, con in testa la Cina, sono ancora ispirati, nel “pubblico” ma anche ampiamente nel “privato”, dai precetti confuciani,
dando grande importanza ad un’amministrazione di tipo paternalistico piuttosto che alla attinenza alla regola scritta, e alla solidarietà sociale rispetto all’individualismo, che nell’ottica confuciana tende a introdurre divisioni nell’organismo sociale.
Indubbiamente il confucianesimo è oggi tornato ad essere un punto di riferimento in Cina, tanto che la stessa Repubblica Popolare ha aperto in tutto il mondo diversi “Istituti Confucio” come centri di promozione della propria cultura. Il tutto appoggiandoli a istituti culturali locali già esistenti, per esempio le Università, utilizzando, saggiamente, l’esperienza di chi la cultura cinese diffonde già per professione.
In realtà l’apparato politico-sociale della burocazia mandarina di ispirazione confuciana non si era mai dissolto del tutto in Cina. Direi anzi che è impossibile da distruggere, perché la lezione morale di Confucio, con la sua concezione etica della vita, il profondo senso del dovere, del rapporto di gratitudine, di debito dell’individuo verso la cosa pubblica, è riaffiorato oggi proprio quando la Cina pare pervasa dal materialismo più spinto.
BUROCRAZIA OGGI IN CINA
Contemporaneamente alla crescita del business supportato dal governo, vi è stato il tentativo per i quadri governativi di partecipare direttamente alla comunità degli affari, fenomeno chiamato “xiahai”, “balzo nel mare”. I burocrati poterono ottenere maggiori vantaggi economici e libertà personali se si mettevano in affari lasciando o affiancando i precedenti incarichi. Secondo statistiche cinesi il 30% dei pubblici ufficiali ha fatto il “balzo”.
Questo “xiahai”ha avuto diversi effetti sulla burocrazia cinese. Intanto, il comportamento degli ex-burocrati è cambiato, diventando più elastico proprio per adattarsi alle occasioni date dalla crescita economica, e la loro reputazione è migliorata all’interno della comunità in cui si trovano ad operare, dovendo collaborare attivamente alla crescita socio-economica e alle riforme, e dovendo curare meglio i rapporti interpersonali. Teniamo conto che in Cina le relazioni personali, la reputazione e la fiducia di cui si gode, qualità che hanno un nome comune, “guanxi”, sono molto importanti in tutti i campi. Questo a volte ha reso impossibile a un ex-burocrate anti-riformista trovare una buona posizione nella comunità locale dopo avere lasciato il suo posto governativo.
Inoltre, avendo mantenuto ancora per lo più i buoni rapporti con gli ex-colleghi, i burocrati che hanno fatto il “balzo” si trovano nella possibilità di collaborare a riforme che rimuovano gli impedimenti burocratici che loro peraltro conoscono bene.
Il fenomeno del “xiahai” è unico. In Russia, per esempio, i politici non sono accettati volentieri nel settore privato, tranne che a Mosca.
Più il settore privato cresce, più i burocrati perdono potere.
ANEDDOTI
Un Professore australiano di inglese racconta un gustoso episodio rivelatore della natura che può assumere la burocrazia in Cina.
Quando alla fine del suo primo semestre di insegnamento dovette fare una sessione di esami, ritirò i moduli prestampati con il nome di ogni studente, dovendo solo aggiungere la classe, il tipo di esame e il voto per ognuno degli studenti di ognuna delle sue quattro classi. Ma quando si trovò a usarli per l’esame, gli fu detto dalla segreteria che erano necessarie due copie. Non c’era problema, li avrebbe fotocopiati, ma gli si disse che le fotocopie non potevano essere accettate.
Così dovette copiare i moduli a mano, e ritentò di usarli. Stavolta gli fu detto che nei moduli vi erano delle correzioni e questo non era accettabile, per cui avrebbe dovuto copiare tutto di nuovo.
Il semestre successivo scrisse a mano le due copie dei moduli di esame, ma quando tentò di usarli gli fu detto che da questa sessione in poi non solo servivano tre copie per ogni modulo, e che non si poteva più usare una penna a sfera con inchiostro blu, bensì solo nero…
Il fatto che spesso in Cina la forma contasse più del contenuto, che compilare un modulo era spesso più importante di quello che vi era scritto, gli fu ancora più chiaro nel periodo della SARS, l’epidemia di polmonite del 2002-2003. Tutti gli insegnanti e gli studenti dovevano misurarsi la temperatura, e all’entrata a scuola dovevano mostrare alla guardia posta all’ingresso un modulo in cui era registrata la temperatura della mattina e della sera precedente. Chi viveva in famiglia doveva registrare anche la temperatura di tutti i familiari. In ogni classe poi si doveva compilare un modulo con la lista di tutte le temperature di ogni studente. L’unico punto debole in questo metodo era che nessuno misurava la propria temperatura! Si scrivevano solo numeri a casaccio ogni giorno.
Questi sono tipici esempi della burocrazia come semplice esercizio del potere, in quanto si emanano norme che sono semplicemente non realistiche. Nel caso della SARS, per esempio, il fatto che sembrasse che si fosse fatto tutto il possibile era più importante della reale efficacia del provvedimento.
BUROCRAZIA IN ITALIA E IN CINA
In questo numero della rivista del nostro Club si troveranno diversi elementi di conoscenza e di riflessione sul fenomeno “burocrazia” in Italia. Mi limiterò ad accennare a qualche elemento comune tra la burocrazia in Cina e la burocrazia in Italia.
In Cina così come in Italia pare si adatti bene al labirinto di modulistica e carte varie la famosa “Lasciate ogni speranza voi che entrate” di dantesca memoria. Elencherò qualche esempio valido in entrambi i paesi: spesso trovare il giusto ufficio o il giusto sportello è una impresa difficile, e, quando finalmente si trovano, a volte sono chiusi, perché aperti solo alcuni giorni la settimana o solo per alcune ore lavorative al pubblico; spesso si ha bisogno di un documento per ottenere altri documenti; in molte occasioni si devono consegnare documenti di nascita in originale per tipo diversi di documenti (essendo nati una volta per tutte e avendo il primo certificato, perché non si può fotocopiare?); trovandosi in un ufficio postale, in un ufficio di polizia o in un ufficio amministrativo si deve sperare di essere nella fila giusta; è sempre bene mantenere la calma, non si sa mai che tipo di ritorsione “burocratica” può mettere in atto chi si ha davanti!
Burocrazia italiana
FENOMENOLOGIA DEL SENSO COMUNE
Giancarlo Minaldi
Research fellow in Scienza Politica all’Università di Palermo
In un paese sempre più diviso e frammentato, dove l’incertezza e la mancanza di identità condivisa sembra erodere persino i principi basilari della convivenza democratica, il groviglio di considerazioni sprezzanti e sentimenti di ripulsa che l’entità burocrazia è in grado di suscitare sembra rappresentare uno degli ultimi presidi di condivisione, seppure, non casualmente, negativamente connotata.
Burocrazia come epitome dei mali del “pubblico”, sinonimo di inefficienza, lentezza, irrazionalità, parassitismo, ma anche oppressione, insopportabile cappa al libero dispiegarsi del nostro inesauribile ingegno. Un apparato pachidermico, tanto più insopportabile quanto più si potenziano e si diffondono le tecnologie della rete, della comunicazione immediata slegata dallo spazio verso una efficacia priva di mediazioni.
Un sentire comune, quasi una ideologia (nella sua accezione etimologica di morale comune e sistema di idee) supportata, come spesso avviene, da solidi riscontri empirici, forse così solidi da impedire l’attecchimento di un dibattito in grado di valicare la ristretta cerchia degli addetti ai lavori.
Un primo passo da compiersi per sgomberare il campo da equivoci e sterili furori potrebbe consistere in una banale, ma tutt’altro che scontata, riflessione di carattere funzionale.
È auspicabile e tendenzialmente ipotizzabile una liberazione dalla burocrazia, attraverso la sua dissoluzione? Così posta la questione non sembra lasciare spazio a dubbi. Evidentemente no.
La burocrazia non è una sovrastruttura o un mostro organizzativo del quale basterebbe liberarsi o ridurre ai minimi termini per migliorare sensibilmente la qualità della nostra vita. La classe amministrativa svolge infatti una funzione complementare e imprescindibile per l’esercizio del potere politico in una comunità, la funzione amministrativa per l’appunto, vale a dire la messa in opera, l’implementazione delle scelte politiche.
Decidere, realizzare e verificare rappresentano le tre azioni attraverso le quali si esercita il potere politico che, con l’avvento dello stato di diritto, si specializzano e si separano, talché l’attività del decidere, del realizzare e del verificare non sono più attribuite agli stessi soggetti (ad esempio le corporazioni delle città comunali o il potere personale dell’ancien regime), ma a soggetti diversi che agiscono nell’alveo del diritto. Una specializzazione/separazione il cui fondamento non è, d’altronde, esclusivamente valoriale (la legge, il diritto), ma anche e soprattutto razionale, visto che, come ha magistralmente evidenziato Herbert Simon, l’agire decisionale si compone di due diverse componenti psicologiche: i giudizi di valore (di natura etica) e i giudizi di fatto (di natura empirica). Detto altrimenti, la separazione/specializzazione rappresenta l’unico antidoto all’ingovernabilità dell’autoamministrazione e all’arbitrio dell’eteroamministrazione (potere personale esercitato attraverso un apparato servente).
Ciò detto, rimane tuttavia il quesito di fondo: cosa ha reso e tuttora rende l’esercizio della funzione amministrativa e la stessa classe amministrativa tanto insopportabilmente soverchiante e inefficiente (almeno nella percezione comune) nel nostro paese?
Un quesito estremamente complesso che richiederebbe una analisi assai raffinata evidentemente impossibile in questa sede. Nondimeno, una prima parziale risposta, che tenga conto almeno dei processi di portata più ampia, la si può individuare in quella sorta di intreccio perverso fra il dispiegarsi nel nostro paese di tendenze più generali e una evoluzione particolarmente distorta del rapporto tra sfera politica e sfera amministrativa.
Partiamo dalle tendenze più generali. Anche in Italia, come avviene in tempi e in modi in parte diversi nelle altre democrazie occidentali, la burocrazia, che dalla fine del XIX secolo si afferma come organo imparziale e servente, in grado di garantire l’esecuzione della volontà politica al riparo dall’arbitrio individuale e in conformità alla Legge, subisce una trasformazione sostanziale in concomitanza col modificarsi delle finalità dello Stato. La nascita dei sistemi di welfare, il passaggio da uno stato minimo regolatore ad uno stato erogatore e gestore di servizi socio-economici sempre più eterogenei e complessi, determina ovunque una progressiva dilatazione degli apparati burocratici, con conseguenze assai negative sull’agire amministrativo. La dilatazione degli apparati favorisce infatti un aumento dell’incertezza rispetto all’implementazione, attraverso la crescita della discrezionalità burocratica che occupa spazi di potere sempre più ampi, grazie anche ad una sorta di monopolio della competenza favorito a sua volta da una iper-legificazione finalizzata al contenimento di quella stessa discrezionalità. Si afferma così una cultura amministrativa sempre più autoreferenziale e tendente esclusivamente alla riproduzione dell’organizzazione, perdendo di vista le finalità amministrative. In larga parte, i modelli organizzativi a cui si ispira la burocrazia nella prima metà del novecento sono quelli della grande impresa industriale fordista, tanto che Henry Mintzberg la definirà “burocrazia meccanica”, mettendone in rilievo la spiccata formalizzazione dei rapporti, con una comunicazione interna prevalentemente top-down, le mansioni molto specializzate in direzione esecutiva e di routine, la iper-regolamentazione.
Se questo è il quadro che connota anche l’Italia repubblicana, nel nostro paese si associa ad una evoluzione particolarmente distorta dei rapporti tra ruolo politico e ruolo amministrativo, sempre più improntati ad un rapporto fiduciario che amplifica enormemente gli effetti deteriori della burocrazia meccanica. Più in particolare, una classe burocratica già tradizionalmente debole viene strategicamente utilizzata per presidiare i meccanismi di riproduzione del consenso della classe politica. Clientelismo e apparati personali divengono i canali privilegiati per il reclutamento e il controllo di una classe amministrativa che rinuncia così a qualsiasi aspirazione di responsabilità e prestigio. E ciò ha per di più il perverso effetto di un progressivo rigonfiamento al vertice degli organigrammi, giacché i dirigenti selezionati sulla base della fiducia personale e dello scambio clientelare una volta sostituiti dal nuovo vertice politico non vengono rimossi, ma semplicemente “parcheggiati”. Si tratta, a differenza del sistema di rapporti fondato sullo spoils system, di un sistema a-legale, fermo restando che lo stesso spoils system (quale sistema di rapporti fra ruolo amministrativo e ruolo politico) viene abbandonato sin dal 1883 anche dagli Stati Uniti (unico paese ad avere adottato questo sistema di rapporti in modo sistematico) che hanno optato per un sistema inand-outer, con una quota di figure dirigenziali apicali riservate alla nomina politica e la maggioranza della classe amministrativa reclutata invece attraverso canali impersonali e meritocratici. La ragione dell’abbandono dello spoils system è facilmente comprensibile, visto che il rapporto fiduciario sistematico determina inevitabilmente un ritorno alla fusione fra decisione e attuazione, fra giudizi di valore e giudizi di fatto. Infatti, a differenza dell’impresa privata, dove il rapporto fiduciario tra vertice proprietario e management si fonda anzitutto sul comune obiettivo del profitto, nelle istituzioni pubbliche il vertice politico persegue obiettivi di consenso, mentre quello amministrativo di rispetto della legge e delle istituzioni. Il ché non significa che l’apparato amministrativo non debba considerarsi come servente rispetto a quello politico, ma più semplicemente che fra i due ruoli non potrà esservi un rapporto fiduciario, se non per poche posizioni di coordinamento apicale.
Ciò detto, nei principali paesi occidentali sono state nel tempo predisposte una serie di riforme, con l’obiettivo esplicito di rimediare ai guasti della burocrazia meccanica. In particolare, sin dagli anni settanta i teorici della dottrina del New Public Management hanno ridisegnato le logiche e i meccanismi di funzionamento della pubblica amministrazione, riorientandoli in una direzione più adeguata alla complessità contemporanea e ispirandosi soprattutto ai meccanismi di funzionamento delle imprese private nell’era post-fordista. Senza entrare nel dettaglio dei contenuti del nuovo paradigma, l’idea di fondo è consistita nell’abbandono della logica di specializzazione fondata sulle regole, a favore di una nuova specializzazione fondata sul contratto. Decisori e attuatori devono agire sulla base di una logica fondata su veri e proprie transazioni contrattuali, dove i vertici politici e quelli amministrativi si impegnano a raggiungere obiettivi concordati attraverso mezzi altrettanto concordati. Si tratta della cosiddetta gestione manageriale che favorisce una maggiore efficienza, efficacia ed economicità attraverso l’assunzione consapevole di responsabilità e una revisione complessiva della cruciale fase della verifica, non più orientata al semplice riscontro della conformità procedurale alle norme, ma all’effettivo raggiungimento degli obiettivi, attraverso sofisticate metodologie di misurazione della congruità dei risultati rispetto ai fini e ai mezzi impiegati.
Una vera rivoluzione copernicana insomma che, in modi e tempi differenti, si è diffusa nei sistemi amministrativi occidentali, compresa l’Italia.
Più specificamente, l’onda lunga del cambiamento è giunta nel nostro paese con significativo ritardo, producendo comunque importanti riforme, sia sotto il profilo assai dolente della commistione tra ruolo politico e ruolo amministrativo, sia sotto quello dell’azione e del funzionamento della burocrazia. La netta distinzione tra sfera di indirizzo politico e sfera di gestione amministrativa è stata sancita per la prima volta dalla legge di riforma delle autonomie locali approvata nel 1990 (legge 142) e successivamente ribadita nelle leggi di riforma della pubblica amministrazione centrale (soprattutto le cosiddette “leggi Bassanini”). Sono stati introdotti numerosi strumenti di programmazione negoziata, gestione per obiettivi, controlli interni e valutazione delle prestazioni dirigenziali. Riforme tendenti ad incidere profondamente nell’azione amministrativa e che dunque necessitano di tempo e perseveranza, di formazione e innovazione, ma anche di un rinnovamento complessivo della classe amministrativa, attingendo a competenze non più esclusivamente giuridiche.
D’altra parte, affinché il processo di riforma possa dispiegare pienamente i suoi effetti, è altrettanto ineludibile la necessità di un profondo mutamento culturale che investa in primo luogo la classe politica. Si tratta, evidentemente, di un nodo cruciale per una metamorfosi effettiva, in grado cioè di sbreccare la fissità di quella immagine negativa così profondamente radicata nel senso comune. D’altra parte, anche dopo il traumatico passaggio dei primi anni novanta, non sembra facilmente ipotizzabile una diffusa rinuncia a prerogative di controllo e inframettenza tanto radicate quanto politicamente redditizie, sia a livello centrale, sia, soprattutto, a livello subnazionale. Non a caso, proprio a livello locale quel solenne principio di distinzione tra sfera di indirizzo politico e sfera di gestione amministrativa ribadito anche nel Testo Unico del 2000 è accompagnato non soltanto dalla prerogativa sindacale di nominare in piena autonomia un direttore generale per il coordinamento dell’azione amministrativa e della implementazione delle politiche (strumento assai utile che ha prodotto risultati apprezzabili), ma anche e soprattutto dalla facoltà di nomina fiduciaria di tutti i dirigenti amministrativi comunali, non contemplando requisiti di professionalità definiti e prevedendosi altresì un potere di revoca particolarmente ampio. Detto altrimenti, a livello locale è stata in qualche modo introdotta una subordinazione strutturale, una configurazione di rapporti fondata sullo spoils system che appare in stridente contrasto con quei principi di separazione funzionale tanto solennemente sanciti. Un sistema di rapporti del quale è facile intravedere i rischi, soprattutto in contesti nei quali è più diffusa la presenza di organizzazioni mafiose e di una classe politica ancora fortemente propensa all’esercizio di metodi clientelari nei processi di produzione del consenso. Tanto più se si tiene conto che il precedente sistema di controlli di conformità è stato quasi del tutto abrogato (rimanendo il presidio finanziario della Corte dei Conti), mentre la segreteria generale è divenuta anch’essa una carica di nomina sindacale.
Uno scenario ancora una volta contraddittorio, dunque, nel solco dell’infinita transizione italiana, dove un complesso di riforme in apparenza particolarmente incisivo sembra accompagnato dall’ennesimo tentativo di far rientrare dalla porta ciò che si è gettato dalla finestra.
Scuola di democrazia
IL DEMERITO
Cristina Morrocchi
Docente di scuola secondaria superiore, Presidente del Club Rotary Palermo Est
Nella scuola di oggi si parla sempre più spesso di persona, di progetto di vita, di comportamenti, di valori, di esistenza, di identità. Questo nuovo lessico sembra prendere il posto di parole e termini che fino a pochi anni fa erano patrimonio condiviso: cultura, saperi, competenze, formazione dell’uomo e del cittadino.
Certo, i programmi degli anni ’80 (la scuola media nel ’79, la elementare nell’85, la materna nel ‘91) rappresentavano il tentativo di tradurre nella scuola l’idea di un sapere alla portata di tutti, centrato sulla trasmissione culturale, sul formare le persone attraverso l’incontro con i grandi sistemi simbolico-culturali che sono il frutto della nostra civiltà.
Oggi, però, rispetto a un disastro, se non generale molto diffuso, della scuola italiana, occorre interrogarsi sui bisogni di una società che è certamente cambiata rispetto agli anni Ottanta e esprime nuove domande e nuove richieste nei confronti della scuola. Una società che forse ha smarrito il senso della funzione stessa della scuola, che è piena di incertezze sul futuro e chiede alla scuola quegli strumenti che considera indispensabili a garantire un lavoro futuro per i propri figli.
La dimensione specificatamente educativa delle attuali riforme che parrebbe essere la risposta ai nuovi bisogni, rischia però di far dimenticare che, accanto ai compiti educativi di socializzazione, di costruzione di regole e valori, vanno sostenuti i compiti più prettamente legati all’istruzione intesa come conoscenza di quei saperi disciplinari da cui nasce la formazione di un individuo, la sua curiosità, la sua intraprendenza, la sua capacità critica. La sua capacità, cioè, di esser un cittadino attivo, partecipe e produttivo, della società in cui opera.
Un cittadino che ha gli strumenti per ottenere un lavoro e gli strumenti per evolversi e adeguarsi mantenendo così il suo posto di lavoro.
Ma è proprio qui il nodo.
Perché, forse, la società oggi non crede che la scuola possa formare, anzi non crede proprio più che sia necessario formare e soprattutto formare attraverso i saperi, ma chiede, appunto, che la scuola dia “cose pratiche” conoscenze strumentali minime avulse da qualsiasi contesto: cose come l’uso del computer, un glossario d’inglese e poco più. “Cose pratiche” che mai, ovviamente, garantiranno di trovare un lavoro e di mantenerlo.
È chiaro che, se quest’analisi è corretta, qualsiasi forma di meritocrazia perde senso, soprattutto se l’analisi viene affiancata da un malinteso discorso di promozione sociale.
E’ convinzione diffusa che le due idee, meritocrazia e promozione sociale, siano contrapposte, che aiutare la promozione sociale di un individuo significhi chiedergli meno, pretendere meno in tema di apprendimenti disciplinari, di strumenti critici. Il tutto in nome di un falso egualitarismo che, nel nostro paese in particolare, è diventato strumento di consociativismi diversi, tutti volti a mantenere lo status quo e a impedire in realtà ogni possibile promozione sociale. Siamo in Europa il paese a minore mobilità sociale: il titolo di studio dei genitori, il loro ruolo professionale hanno un valore predittivo sul futuro dei figli. Essi, i figli, nella maggior parte dei casi, erediteranno classe sociale, carriere, incarichi.
Le scuole costano poco in Italia ma le famiglie non abbienti non credono che i loro figli possano avere un futuro migliore perché lo vedono già prenotato, occupato, dai figli dei ceti più agiati, e così non investono nel proprio capitale umano per mancanza di fiducia, una fiducia che potrebbe nascere solo da una onesta, trasparente, evidente meritocrazia.
Viene da chiedersi perché il merito abbia in sè, soprattutto nel nostro paese, una carica così negativa e discriminatoria da cancellare la sua potente valenza democratica.
Secondo i grandi studiosi del concetto di merito, da Michel Young che ha coniato il termine meritocrazia a Roger Abravanel, il merito è retto da un equazione in cui l’intelligenza intellettuale, emotiva e sociale si coniuga con la capacità di profondere il massimo impegno nel perseguimento di un obiettivo. È questo ciò che rende un individuo meritevole. E la natura, democraticamente, distribuisce intelligenza e volontà di impegno indipendentemente dalla classe sociale cui un individuo appartiene.
Il merito non è dunque solo intrinsecamente democratico ma possiede indubbie qualità sociali, perché qualora fosse proprio il merito il criterio per l’assegnazione di una qualsiasi voglia responsabilità, ne garantirebbe automaticamente il valore. Chi infatti vorrebbe trovarsi nelle mani di un avvocato, di un medico, di un maestro senza meriti, cioè incompetente?
Le raccomandazioni, come ognuno ha sperimentato sulla sua pelle, non offrono alcuna garanzia di competenza, eppure nelle realtà clientelari in cui viviamo, queste rappresentano un sistema diffuso, che avvantaggia i singoli mentre danneggia fortemente la collettività e,soprattutto, mina il clima di fiducia su cui devono reggersi le società democratiche.
Non si entra nella scuola solo per raccomandazione ma, dal dopoguerra, con la divisione di fatto tra un Nord produttivo e un Sud intellettuale votato all’amministrazione dello Stato, tutto il sistema scolastico interpreta sempre più strumentalmente, complici anche certe ideologie sessantottine, il concetto di egualitarismo, e rende la burocrazia scolastica una struttura funzionale alla moltiplicazione dei posti di lavoro. La scuola diventa una fabbrica di posti in cui si entra ope legis, per sanatorie successive. Nel ‘74 vengono abolite anche le note di qualifica, strumento certamente discutibile, ma non inessenziale perchè unico elemento tecnico di valutazione didattica. Da questo momento, di sanatoria in sanatoria, ad ogni rinnovo contrattuale, l’incertezza tra aumentare gli stipendi o immettere nuovi precari viene risolta con l’immissione di nuovi precari: irrinunciabile serbatoio di voti per tutti i governi.
Questa prassi si è ripetuta per i vari soggetti della scuola: dirigenti, docenti, personale Ata. Anche l’ultimo concorso per presidi, attualmente sulle pagine dei giornali, è un esempio dell’assenza di un concetto di merito chiaramente definito e dirimente. Quando, poi, in un tentativo di distribuire fondi per migliorare il sistema scolastico e valorizzarne le eccellenze, si è introdotto il fondo d’incentivazione, denaro destinato appunto ad incentivare i più capaci, impegnati e meritevoli, il fondo, alla prova dei fatti, è stato, quasi sempre, distribuito a pioggia, perché nella scuola tutti devono essere uguali come tutte le scuole sono considerate uguali, sia quelle che funzionano sia quelle allo sbando.
Il danno di questo tipo di politica è sotto gli occhi di tutti: non ci sono criteri di merito quindi non vi è alcun criterio di valutazione e senza questo non vi sono possibilità né di valorizzare chi ben lavora e produce nè di sanzionare chi si appiattisce in routine retrive e didatticamente inefficaci. Soprattutto, la società perde ogni parametro attraverso il quale poter costruire e poi mantenere, con una verifica costante, la propria fiducia nell’istituzione scuola.
Non va dimenticato che la scuola è la prima manifestazione dello Stato che il piccolo cittadino incontra e in cui si forma, per un periodo della vita che va dalla prima infanzia all’adolescenza piena, un periodo estremamente importante per la crescita di un individuo.
Non va dimenticato che la scuola è l’istituzione dello Stato più pervasiva nella vita dei singoli e sicuramente la prima con cui ci si confronta a lungo e in maniera significativa. Ed è anche per questo che risulta così importante nella formazione del cittadino: perché ne segna per sempre il rapporto, e se tale rapporto non è fin dall’inizio sereno, trasparente, definito, si crea come un “imprinting” di sfiducia che condizionerà a lungo e fortemente il comportamento di ogni cittadino.
Se a questo si aggiunge che, come un po’ dovunque, assistiamo nella scuola a un declino delle norme che dovrebbero caratterizzarla, a un certo lasciar correre dovuto anche a un disamore diffuso tra gli insegnanti, ormai da tempo privi di un ruolo sociale e professionale riconosciuto, ci rendiamo conto di quale ampia ricaduta abbia l’assenza di criteri meritocratici all’interno della scuola.
La mancata svolta meritocratica, che è fortemente connessa al senso di sfiducia che attraversa la nostra società, ci spinge verso un declino e democratico e produttivo: non parliamo qui della necessità di una meritocrazia competitiva esasperata come quella che connota alcune delle società asiatiche emergenti. Parliamo di un equo riconoscimento dei meriti di ognuno che possa spingerci verso una società più giusta e fiduciosa. Per questo introdurre una meritocrazia che investa tutti i soggetti della scuola, invece che lasciare che questa istituzione decada sempre più a palestra di burocrazia del demerito, sarebbe una carta rivoluzionaria e vincente a tutto vantaggio della qualità della vita del nostro paese.
La programmazione burocratica
CRITICHE E AUTOCRITICHE D’IMPRESA
Intervista a Nino Salerno di Davide Camarrone
Presidente di Confindustria Palermo, socio del Club Rotary Palermo Est
Imprenditore di terza generazione, Nino Salerno. “Ma la quarta è già al lavoro”, spiega.
Salerno è tra i protagonisti di una stagione nuova di Confindustria in Sicilia. Lui, presidente provinciale, a Palermo. Ivan Lo Bello, imprenditore di Siracusa, presidente regionale. Insieme ad altri, nell’Isola, hanno deciso di cacciare quanti, tra gli associati, sono vicini alla mafia o rifiutano di denunciare le richieste di estorsione. Una svolta, comunque la si pensi al riguardo. In passato, le inchieste giudiziarie per mafia avevano lambito non solo semplici associati ma anche altissimi rappresentanti degli imprenditori nell’Isola.
Con lui, inizio una conversazione su quella che ritengo dovrebbe esser la fase 2 di quella svolta: la lotta per la semplificazione amministrativa (che è madre della lotta alla Burocrazia).
Non solo. Penso che occorra ristabilire un corretto equilibrio tra Politica e Amministrazione.
Prendete un sistema politico moderno e consentite agli eletti di modificare l’andamento della sua amministrazione: verso destra o verso sinistra, per usare terminologie vecchie ma comprensibili a tutti, o in senso più liberale o meno. Un sistema politico moderno, e cioè capace di “sentire” i bisogni della società e di tradurli in decisioni corrette può consentirsi lo spoils system, ovvero la divisione delle spoglie dopo la vittoria: il diritto di nomina dei vertici amministrativi, e la direzione – attraverso quelle nomine – dell’intero corpo amministrativo.
Ma un sistema politico arretrato, che “sente” poco i bisogni della società, trasforma lo spoils system nell’atto estremo e più offensivo nei confronti di una Burocrazia inetta: la spremitura delle poche risorse disponibili e la loro deviazione verso scopi inefficienti (nella più ingenua delle ipotesi).
Direi di cominciare questa conversazione dai fondi europei. Bloccati, nell’Isola, dalla crisi politica, dallo spoils system e da una cattiva programmazione. Mi spiego meglio: il territorio dovrebbe poter esprimere al meglio le sue esigenze, con delle forme di concertazione degli interventi, e i centri di ascolto istituzionali dovrebbero saper cogliere in tempo reale le richieste provenienti dal basso. Da questo punto di vista, le cosiddette cabine di regia mi paiono preistoria.
Sì, ritengo si possa parlare di preistoria. Con l’attuale meccanismo di programmazione, si appesantiscono ulteriormente delle strutture che dovrebbero essere agili per funzionare meglio. L’esperienza ci parla ad esempio della Cassa del Mezzogiorno che verso la fine della sua esperienza mise gli imprenditori nelle condizioni di dire basta ad aiuti indistinti, a pioggia, che sotto la parvenza di aiuti s’erano rivelati per molti una iattura. Molti si sono rovinati per andare dietro a queste forme di assistenza mascherata. Altri, invece, che non partivano con uno spirito autenticamente imprenditoriale, ci hanno guadagnato.
Servirebbe forse un decentramento autentico. Si fa un gran parlare di abolizione delle province. Non sarebbe meglio abolire la Regione? Migliorare la capacità di ascolto e di sintesi delle esigenze autentiche dei diversi territori?
C’è uno scollamento tra il territorio e ciò che esprime la Pubblica amministrazione. Accorciare le distanze o rendere fruibili delle forme nuove di comunicazione sicuramente incoraggerebbe chi ha voglia di investire in una fase locale e chi dall’esterno è disponibile ad investire in Sicilia. Non dobbiamo dimenticare che siamo una regione con 5 milioni di abitanti, con una forte attrattiva turistica: anche le presenze nell’Isola rappresentano una risorsa. Quel che è avvenuto in territori più piccoli è significativo. A Malta, che ha 350 mila abitanti appena, la politica è riuscita a dare una mano alle imprese per creare sviluppo.
È nato un aeroporto decente, ci sono stati degli investimenti importanti per il turismo, ed ora, nel Mediterraneo, Malta si presenta come una regione a forte attrattiva turistica, e dal punto di vista commerciale è presente a pieno titolo nel contesto europeo. Tutto questo è avvenuto in pochissimi anni, grazie ad una programmazione seria.
Si dice spesso, a proposito della giustizia, che un processo di lungo è peggio di una condanna. Non è lo stesso per un finanziamento? Meglio un no subito che un finanziamento erogato dopo 7 anni.
Un’impresa può uscire rovinata da un ritardo nell’erogazione di un finanziamento. Chiedere ad una banca di anticipare delle somme esistenti solo sulla carta di una graduatoria e non rientrare in tempi accettabili, può distruggere il lavoro di una vita. Questo accade, naturalmente, a chi ha realizzato davvero gli investimenti promessi. Per chi ha truffato, è comunque un guadagno: anche se i soldi arrivano dieci anni dopo.
Tra chi dovrebbe fare autocritica, sulla complessità amministrativa e la Burocrazia, credo ci sia anche Confindustria. Avete fatto anche voi della retorica sui cosiddetti sportelli unici. Non sarebbe stato meglio battersi per una secca delegificazione? Un codice unico dell’edilizia o un codice unico del commercio, tanto per fare due esempi. Senza dimenticare il decentramento, ovviamente.
Certo. La semplificazione amministrativa sarebbe la risposta migliore. Lo sportello unico è un luogo di scarico delle tante esigenze dei singoli utenti, cittadini o imprenditori. Ma senza nessun beneficio. Un’illusione allo stato puro.
E sui codici unici?
Renato Brunetta ha detto che in qualche caso occorre disboscare. La possibilità d’interpretazione difforme di una stessa norma deve esser limitata a zero. Ma le amministrazioni pubbliche, purtroppo, cercano spesso il contenzioso: per evitare di pagare.
Un eccesso di burocrazia è criminogeno: specialmente in Sicilia.
La frase è un po’ forte. Ma è così.
Cosa correggereste nel vostro approccio alla questione?
Forse non siamo stati eccessivamente pressanti su questo tema – la semplificazione amministrativa – come lo siamo stati su altri temi.
Anche a livello nazionale avremmo dovuto fare maggior pressione.
Si può dire che alcuni imprenditori – pochi o molti – abbiano goduto di questa situazione di immobilismo, di lentezza, di stasi, preferendola al dinamismo di un’amministrazione moderna ed efficiente?
Direi di sì. Alcuni hanno sguazzato in questo brodo: ad esempio nel settore dell’edilizia. Ci sono mille escamotage per allungare o accelerare le pratiche: termini, silenzi assensi…
Palermo è in una situazione molto difficile.
Qui la vera emergenza è la pessima gestione della cosa pubblica, dalla quale discendono disservizi, malaburocrazia e conti in rosso delle casse pubbliche.
È la fotografia dell’Isola intera.
Una fotografia drammatica e senza attenuanti di una serie di problemi oramai cronicizzati, che rischiano di far capitolare la Sicilia alla vigilia del federalismo fiscale. Siamo di fronte ad uno stato di cose gravissimo: inadeguatezza e incapacità sono diventati i prerequisiti per gli incarichi di amministrazione negli enti locali con conseguenze devastanti: stime sul gettito erariale assolutamente fittizie, spese certe e ovviamente anticipate rispetto agli auspicati flussi finanziari in entrata; assoluto disimpegno nella gestione della riscossione dei crediti (le entrate non riscosse sono voti alle elezioni), bilanci formalmente in pareggio ma sostanzialmente in disavanzo, assoluta inutilità ai fini gestionali del bilancio pluriennale, gestione fiscale inesistente, contabilità economico-patrimoniale assente…. A fronte di queste mancanze, le amministrazioni locali si ritrovano un bacino poderoso di precari da stabilizzare e un mare magnum di bisogni pubblici in crescita esponenziale. E anche nei momenti di crisi finanziaria restano fisse le spese di rappresentanza dalle auto blu ai telefonini in spregio alle regole di sana gestione.
Cosa servirebbe?
Servirebbero delle scelte impopolari. Un’economia di guerra. Razionamento ed equa distribuzione delle risorse finanziarie. E negli enti locali sarebbe opportuno sostituire una fetta corposa dei dirigenti che sono alla guida degli uffici amministrativi.