Ambienti


EDITORIALE
Filippo Sorbello
 
Prosegue il suo cammino, anche se con nuovi obiettivi, Uomo e società, il periodico del Rotary Palermo Est che raccoglie contributi di idee provenienti sia dai soci sia dai non soci.
Uomo e società ambiziosamente pretende di incuriosire chi lo sfoglia e pretende ancora di più di essere letto. Il taglio, l’attualità degli argomenti, gli stimoli intellettuali che suscita, invogliano in questa direzione.
Per alcuni, le comunicazioni su carta sono un retaggio del passato; ciò può essere accettato per le pubblicazioni che si consultano velocemente, ma non per quelle che, interessando, richiedono riflessione, approfondimento, meditazione.
Uomo e società vuole anche rappresentare un biglietto di presentazione del nostro Club nei riguardi del Distretto e del territorio nel quale operiamo.
Sarà questo un modo per essere più incisivi e credibili e per svolgere meglio la missione di Rotary Club service? Caldamente lo speriamo.
Uomo e società è merito di chi vi lavora e di chi lo coordina. Ricordo in ordine di tempo Aldo Spinnato e Davide Camarrone, precedente ed attuale coordinatore, ed ancora i componenti del Comitato di redazione: Rino Alessi, Carlo Bonifazio, Cinzia Cipolla, Sergio Flaccovio, Giuseppe Gerbino, Nino La Spina.

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ENERGIA IN AGENDA
Rino Alessi
 
Con l’approvazione del Piano Energetico Regionale la Regione è riuscita a dotarsi di uno strumento di programmazione evitando una regolamentazione eccessiva del settore. È una delle opzioni primarie e fondamentali dell’Agenda per lo sviluppo e la ripresa economica della Sicilia.
Saranno valorizzate al massimo le capacità di edifici vecchi e nuovi di diventare centrali energetiche con l’integrazione di tecnologie solari e eoliche, nonché lo stoccaggio sotto forma di idrogeno dell’energia prodotta ed il suo uso come carburante pulito. Il PEARS mira a diffondere su tutto il territorio regionale sistemi eolici di piccola taglia e reti elettriche intelligenti, sistemi di accumulo e trasporto a idrogeno. Mira a far fronte alle necessità dell’industria attraverso sistemi solari termodinamici ispirati alla tecnologia innovativa a Sali fusi introdotta dal Nobel Rubbia.
Con l’approvazione del PEARS (Piano Energetico Ambientale Regionale Siciliano), la Regione si prepara ad esaminare una valanga di progetti fermi da anni in attesa di autorizzazioni. Si tratta di oltre 1.000 istanze presentate dalle imprese per impianti che vanno dall’Eolico (139) al fotovoltaico (866) al solare termodinamico (7) incluso quello off-shore da 500 megawatt che potrebbe nascere a circa 7 km al largo di Gela. Investimenti per circa 30 miliardi di euro che stanno attraendo imprese da tutta Europa.
La Sicilia svilupperà in parallelo tutti e quattro i cosidetti pilastri della terza rivoluzione industriale: energie rinnovabili, edifici a energia positiva, idrogeno e smart grids che permetteranno di conseguire la progressiva decarbonizzazione del sistema produttivo siciliano, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi di Kyoto. Le difficoltà che derivano dalla molteplicità di documenti di consultazione, rendono oggettivamente difficile, soprattutto per organizzazioni complesse come Confindustria e in generale le Associazioni di categoria, la redazione di risposte e osservazioni approfondite su un Piano che forse meriterebbe alcune correzioni migliorative in corsa.

SETTORE ENERGIA ELETTRICA
Confindustria ha effettuato nel corso del 2007, uno studio del funzionamento del mercato elettrico italiano dal quale sono emerse una serie di criticità.
In base ai risultati di questa analisi, Confindustria ha predisposto il documento “Proposte generali di riforma del mercato elettrico italiano”, volto a delineare una nuova architettura del mercato elettrico sviluppata su alcune considerazioni essenziali:

INVESTIMENTI
La realizzazione di investimenti negli impianti, nelle reti e nelle infrastrutture energetiche costituisce una priorità per la creazione di un mercato europeo dell’energia e per la sicurezza del sistema energetico nazionale.
Sul fronte dell’energia elettrica, negli ultimi anni, si è registrato un forte aumento della capacità produttiva attraverso la costruzione di numerosi impianti nuovi e interventi di repowering, anche se poi si crea una difficoltà nella trasmissione dell’energia che in Italia non è supportata da una rete sufficientemente sviluppata a causa dei ritardi burocratici nel rilascio delle necessarie autorizzazioni.
È da ritenere quindi prioritario un percorso preferenziale per l’autorizzazione di quelle infrastrutture di rete che giacciono ormai da troppo tempo bloccate nell’iter autorizzativo.
Queste infrastrutture risultano inoltre fondamentali per un utilizzo più efficiente dei recenti investimenti effettuati in nuova capacità di generazione.
Il problema principale è che le nuove centrali non sono state costruite dove era necessario ma dove non vi era l’ostacolo delle Istituzioni locali ad accogliere l’impianto ed era quindi più facile completare l’iter autorizzativo. Riteniamo che il processo autorizzativo debba essere supportato da coerenti segnali economici verso quelle aree del paese che hanno rifiutato di autorizzare lo sviluppo di infrastrutture di rete e di impianti.
Occorre inoltre ricordare quanto sia difficile procedere alla realizzazione dei progetti che è ancora gravata dall’esistenza di lunghe e complesse procedure amministrative che creano insicurezza nel ritorno degli investimenti a causa dei lunghi tempi di attesa, costi elevati ed esiti incerti e non uniformi sul territorio nazionale.
Risulta quindi necessario ed opportuno analizzare attentamente le misure intraprese e da intraprendere per avviare efficacemente un programma idoneo di sviluppo delle infrastrutture, capace di rendere certi i programmi di investimento necessari nell’attuale assetto industriale.
Al fine di agevolare Terna nel rapporto con il territorio, un ruolo attivo potrebbe essere svolto da Confindustria attraverso le sue territoriali (Confindustrie regionali) che, in ausilio a Terna, potrebbero farsi carico dei rapporti con gli enti locali, necessari a far superare il cosiddetto effetto “nimby” (da “Not in My Bedroom”, ndr), che spesso ostacola la realizzazione dagli investimenti preventivati.
Va inoltre considerato che il regime regolatorio esistente prevede un meccanismo incentivante per gli investimenti di maggiore rilevanza che potrebbe trovare un suo rafforzamento attraverso condizioni limitative qualora Terna non avvii i cantieri a seguito delle autorizzazioni rilasciate dalle Amministrazioni pubbliche competenti.
NUCLEARE L’energia nucleare si presenta come un tema centrale della politica industriale e, alla luce degli elevati costi dell’energia elettrica e del gas, rappresenta un elemento strategico di supporto alla competitività all’industria italiana.
Per questo motivo è di fondamentale importanza che l’Italia riavvii seriamente ed organicamente il discorso sul nucleare. Riteniamo essenziale che lo Stato preveda un sistema di garanzia che tuteli gli investitori privati. Inoltre si ritiene opportuno che l’Italia, non disponendo di una legislazione e regolamentazione di settore, si basi sull’esperienza maturata dagli altri Paesi europei adottando le normative già esistenti e sperimentate, in particolare modo per l’inquadramento autorizzativo, la realizzazione e l’esercizio delle nuove centrali.
Una ulteriore riflessione potrebbe essere effettuata sulle modalità commerciali relative allo sviluppo del progetto ovvero sulla partecipazione diretta dei clienti industriali al piano di investimento.
Svolge comunque un ruolo essenziale un efficiente piano di comunicazione che porti al consenso sociale basato sulla trasparenza delle azioni. Inoltre è necessaria una attività di education e training per la formazione di competenze professionali italiane.

COSTI EFFICIENZA ENERGETICA E FONTI RINNOVABILI
Una delle priorità della politica energetica italiana deve essere la promozione dell’Efficienza energetica e il ricorso alle Fonti rinnovabili.
Infatti attraverso un serio obiettivo di risparmio energetico e la produzione di energia da Fonti rinnovabili il Paese intero può trarre importanti benefici in termini di minor dipendenza, tutela ambientale e stimolo all’innovazione.
Tuttavia è indispensabile un approccio reale costi-efficacia-benefici, con una analisi preventiva che sia in grado di indirizzare scelte di metodologia, di investimento ed incentivazione e di corretta allocazione dei costi che consenta di evitare oneri addizionali alle imprese. L’impatto economico degli interventi per le sole fonti rinnovabili, infatti, potrebbe anche diventare superiore ai 10 miliardi di Euro annui già tra un paio di anni: Questo potrebbe comportare un impatto di circa 30 Euro/MWh sull’energia, se persiste l’intenzione di scaricarne il costo solo sulla bolletta.
Impatti di questa dimensione rischiano di assestare un colpo definitivo alla competitività delle aziende in campo europeo, non solo per quelle energivore.
Diventa quindi pressante ed inderogabile proporre e trovare altre strade di finanziamento per una tipologia di investimenti che riguardi la collettività.
Condividiamo pienamente l’orientamento espresso nella relazione dell’Autorità con il quale si segnala l’opportunità di ribaltare i costi di incentivazione delle rinnovabili sulla fiscalità generale.
Il Pears pone notevoli limiti ai grandi impianti, sia eolici che fotovoltaici, per dare invece grande spazio agli impianti off-shore ed ai microimpianti. L’eolico presenta problemi non solo dal punto di vista architettonico ed ambientale ma anche di impatto sulle colture. Il problema del fotovoltaico passivo, come per l’eolico, è la desertificazione. I contadini molto spesso preferiscono dare in conduzione i loro terreni ai produttori di eolico e fotovoltaico, accettando offerte superiori ai possibili ricavi dalla produzione agricola.
SETTORE GAS STOCCAGGIO In relazione al Servizio di stoccaggio riteniamo essere opportuna una regolazione atta a rendere più flessibile e dinamico l’utilizzo dello stoccaggio sia per le esigenze del mercato civile, sia per quelle dei settori industriali, sia anche per esigenze di tipo commerciale. Inoltre sarebbero necessari:

  • maggiori e più innovativi incentivi per la creazione di nuovi siti di stoccaggio;
  • un perfezionamento dei meccanismi di allocazione della capacità di stoccaggio;
  • l’utilizzo da parte dell’Autorità di modalità ragionevoli e non stringenti per verificare il corretto utilizzo dello stoccaggio assegnato agli operatori.

In una prospettiva di lungo periodo si ravvisa la necessità dare l’avvio ad un mercato dello stoccaggio funzionale allo sviluppo in Italia di un hub mediterraneo continentale competitivo, in grado di rafforzare l’inserimento del mercato italiano del gas nel mercato europeo.
INFRASTRUTTURE GAS In un’ottica di sviluppo di un vero e proprio mercato del gas riteniamo necessari i seguenti interventi:

  • potenziamenti dei gasdotti internazionali e correlate efficienti procedure di allocazione della capacità aggiuntiva,
  • procedure autorizzative più celeri e snelle per la realizzazione di nuovi terminali di rigassificazione di gas naturale liquefatto (GNL),
  • ulteriori misure a favore di nuovi investimenti in attività di esplorazione, ricerca e sfruttamento in sicurezza dei giacimenti delle riserve nazionali, in particolare intervenendo ad eliminare la complessità dei processi autorizzativi e affidando il ruolo centrale e di coordinamento allo Stato.
  • procedure autorizzative più celeri per gli sviluppi delle nuove capacità di stoccaggio, incluse quelle derivanti dalle tecniche di esercizio in sovra-pressione

Con riferimento alle infrastrutture desideriamo tuttavia ricordare all’Autorità la forte preoccupazione di Confindustria per la recente procedura di allocazione di capacità sul gasdotto TAG, adottati con meccanismi di sorteggio del tutto privi di razionalità sotto il profilo economico.
Tale decisione delle Autorità preposte alla vigilanza si traduce in una occasione mancata per creare nel mercato interno maggiore competitività e trasferimento di efficienza ai consumatori.

BORSA GAS
Si parla molto di avvio di un mercato del gas naturale e si stanno affrontando discussioni e analisi di singoli segmenti quali ad esempio il mercato di bilanciamento o la borsa gas. Riteniamo tuttavia importante che, affinché il lavoro non risulti inutile e comunque foriero di complicazioni, sia necessario non affrontare i singoli aspetti del mercato del gas in assenza della realizzazione di condizioni propedeutiche, quali la realizzazione di nuove infrastrutture di trasporto e rigassificazione, il potenziamento delle disponibilità di stoccaggio, l’evoluzione dei sistemi di bilanciamento.
Questo comporta la necessità di avviare un market assessment del gas, con la partecipazione di produttori, operatori del settore e consumatori, che abbia l’obiettivo di compiere un’analisi dello stato dell’arte del mercato, individuare i problemi strutturali nazionali e internazionali del mercato del gas, e trovare le possibili soluzioni per una completa liberalizzazione del mercato del gas.
Per questa ragione i consumatori industriali di Confindustria hanno espresso forte preoccupazione per l’avvio del mercato di gas naturale senza una analisi preventiva degli effetti dell’eliminazione dei tetti antitrust previsti in scadenza del 2010.
A seguito della liberalizzazione del mercato dell’energia, la pianificazione della produzione non è più direttamente gestita da società monopolistiche statali, ma è nella responsabilità delle società di produzione presenti sul mercato. Alla responsabilità del potere politico è demandato il compito di indirizzare e governare, a livello nazionale, regionale, e locale (Province e Comuni), i complessi processi di scelta del mix energetico e di localizzazione delle installazioni produttive, orientandoli verso obiettivi di sicurezza, riduzione del prezzo per l’utente finale, riduzione dell’impatto ambientale e ottimizzazione delle risorse.
Alla base di questa funzione di coordinamento e di raccordo, governo ed indirizzo del potere politico vi è la necessità di una piena condivisione delle scelte da parte di tutte le parti interessate.
Ed, in tal senso, non può che essere orientato alla ricerca e all’innovazione, ritenuti strumenti primari per soddisfare tali premesse, al riparo da limitazioni penalizzanti la qualità e la quantità di investimenti.
In questa logica, si ritiene assolutamente corretta la possibilità di sfruttare l’attuale momento propedeutico, grazie al quale si è cercato di collezionare nel presente documento preliminare le proposte politiche di possibili obiettivi generali del Piano, nella speranza che tali proposte vengano sottoposte a discussione e verifica da parte di tutti gli stakeholders, con l’obiettivo di raccogliere i loro contributi e le loro critiche costruttive, per pervenire, al termine della fase consultiva, a delle linee guida condivise che abbiano priorità concrete.
Ovviamente, Confindustria Sicilia, attraverso il Gruppo Energia, si propone di mantenere il proprio impegno di soggetto attivo di riferimento e di consultazione anche e soprattutto nelle fasi successive ed operative all’approvato PERS, con la verifica della rispondenza agli obiettivi del piano predisposto, eventuali studi di supporto per l’individuazione delle soluzioni normative e tecniche per i diversi settori, nonché un contributo nell’indirizzo per il monitoraggio.

PERMITTING
Per quanto concerne gli iter autorizzativi, il punctum dolens che in più sedi si è cercato di evidenziare riguarda la mancata certezza circa l’attuale prassi relativa ai tempi, ai referenti, e ai percorsi procedimentali finalizzati all’ottenimento delle necessarie autorizzazioni per la cantierabilità e l’esercizio degli impianti di produzione energetica, tanto da fonti tradizionali, quanto da fonti rinnovabili.
Con gli stessi obiettivi di efficienza, si richiede l’opportuna introduzione di un silenzio assenso, che possa snellire gli iter e possa ridare certezza alle tempistiche e agli investimenti, riconducendo l’avanzamento esclusivamente al possesso di requisiti oggettivi, conformemente ai principi generali del Diritto Amministrativo italiano.
Per quanto concerne il settore delle energie rinnovabili, coralmente si auspica la massima espansione secondo criteri di sviluppo sostenibile e, coerentemente con tale posizione, si richiede la riduzione dell’iter autorizzativo alla mera presentazione della Denuncia Inizio Attività per tutti gli impianti con potenza nominale inferiore a 1 MW; così come si ritiene che i termini autorizzativi debbano essere dimezzati per tutte quelle iniziative che non costituiscano variante al Piano Regolatore Generale, in un’ottica premiante per i soggetti già in possesso di requisiti di sviluppo nel rispetto del territorio.
Alla stessa stregua, il settore eolico potrebbe essere promosso, come già in altre Regioni, secondo la logica dei “territori esclusi”, che conferirà maggiore certezza sia a i cittadini che agli investitori.
Affinché le dichiarazioni di principio a favore della fonte eolica si traducano in impegni concreti per l’effettivo sviluppo di questa risorsa, è infatti assolutamente indispensabile che il redigendo Piano provveda ad identificare, in modo chiaro e motivato, le aree nelle quali non è consentita la realizzazione di centrali eoliche, anziché definire le aree nelle quali la localizzazione è consentita, abbandonando definitivamente la “logica dei criteri di ammissibilità”.
Si ricorda che in Italia l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas è responsabile della definizione dei criteri e delle regole per la connessione ed il dispacciamento degli impianti ad energia rinnovabile, mentre TERNA è la società responsabile della trasmissione e del dispacciamento dell’energia elettrica sulla rete ad alta ed altissima tensione su tutto il territorio nazionale.
Pertanto, la proposta contenuta nel documento in discussione di istituire un coordinamento (Enel Produzione, Enel Distribuzione, Autoproduttori ed Enti Pubblici) per affrontare i temi di allacciamento alla rete da parte degli operatori nel settore delle rinnovabili, costituisce una sovrapposizione dell’Istituzione già preposta allo stesso compito e potrebbe altresì determinare l’introduzione di un ulteriore ostacolo alla realizzazione degli impianti.
Qualsiasi riferimento alla possibilità di cessione a soggetti pubblici di una percentuale dell’energia prodotta dagli impianti autorizzati o l’introduzione di forme di imposizione tributaria che vadano a gravare direttamente sulla produttività sono da rigettare in toto.
Per contro, l’eventualità di stipulare protocolli di intesa aventi ad oggetto la negoziazione della costituzione della sede legale in Sicilia, purché regolati sempre su base volontaria, in modo da non determinare discriminazioni, appare condivisibile, come ogni altra forma consensuale di collaborazione tra imprese e amministrazione per privilegiare nuovi investimenti. Le stesse considerazioni valgono per la presentazione del piano economico e finanziario.
D’altra parte, non bisogna dimenticare che il comparto energetico è l’unico che ad oggi non vive ancora l’attuale crisi economica e un blocco degli investimenti dovuto alla titubanza degli investitori nei confronti di misure impositive discrezionali comporterà senza ombra di dubbio la perdita di importanti ricadute socio-economiche e di significative entrate fiscali per il territorio.
Sul piano strettamente tecnico, non si ritiene condivisibile il riferimento all’insufficienza infrastrutturale, come motivazione alla limitazione di potenza. Dal punto di vista metodologico, la formulazione di indicazioni dirette a contingentare la potenza autorizzabile è in contrasto sia con i principi di incentivazione delle fonti rinnovabili, sia con la configurazione della produzione di energia come attività economica libera, non suscettibile di contingentamenti e restrizioni di sorta.
È inaccettabile e pretestuoso che eventuali limitazioni alla potenza installabile legate alla presunta incapacità della rete elettrica di funzionare in condizioni di sicurezza, determinino la sospensione delle procedure autorizzative in corso.
Tutte le misure già previste da normativa e regolamenti, compatibili con la tecnica e tecnologie commerciali, hanno innalzato significativamente la soglia di rischio sulla gestione, in particolare, degli impianti eolici; inoltre, le azioni in corso di attuazione sono assolutamente compatibili con i tempi di realizzazione delle nuove centrali eoliche e non modificheranno l’attuale compatibilità degli impianti eolici con la stabilità della Rete.
Non è pertanto sostenibile che la potenza indicata di prossima realizzazione (già, peraltro, riconosciuta come sovrastimata) rappresenti un rischio di stabilità.
Da ciò ne discende l’aspettativa di un approccio che sblocchi le autorizzazioni di nuovi parchi eolici, e nel contempo la previsione, nel documento in esame, della chiara volontà di promuovere la creazione di distretti a forte concentrazione di impianti eolici ovvero la netta disponibilità all’ampliamento dei parchi esistenti.

RUOLO DELL’AMMINISTRAZIONE E DELL’INIZIATIVA PRIVATA
Un’ultima considerazione di carattere generale, ma non per questo meno rilevante, riguarda la constatazione di un programma di progressiva diffusione della presenza dell’iniziativa pubblica nel settore della produzione di energia. È inutile ricordare come l’esperienza storica e recente abbia ripetutamente condannato la surrogazione negli investimenti della “mano pubblica” nell’iniziativa privata, soprattutto in settori di maggior rilevanza e che richiedono approcci di massima efficienza. Tali ingerenze sono da evitare in quanto, oltre ad agire da moltiplicatore sui costi gravanti sulla comunità, comprimono il ruolo imprenditoriale, con il proliferare di sovrastrutture pleonastiche.
Altresì, in sintonia con il vigente regime di libero mercato e concorrenza, non si ritiene ammissibile l’adozione di azioni discriminanti fra soggetti pubblici e privati, che prevedano l’applicazione di misure e/o provvedimenti di natura differente, quali, ad esempio, deroghe per iter autorizzativi di impianti partecipati da enti locali, così come in più occasioni paventato nel PER.

CONCLUSIONI
Eolico, solare sono un business che fa gola e gruppi colossali come la spagnola AG-Solar. Il gruppo Falck ed il locale gruppo Moncada si muovono da tempo per investire in Sicilia. Assecondando il Piano Energetico, alcune di esse hanno trasferito la sede legale in Sicilia permettendo così alla Regione di incassare le tasse per la produzione nell’Isola che altrimenti sarebbero andate allo Stato. Così dovranno fare tutte le società che otterranno nuove autorizzazioni.
Avranno un iter privilegiato le imprese che si impegnano a stabilire la sede legale e fiscale in Sicilia e che proporranno contestualmente all’impianto produttivo anche filiere produttive che daranno respiro occupazionale agli investimenti. Infine, altrettanto privilegio avranno le imprese che proporranno di realizzare impianti in aree deturpate come ad esempio, cave, discariche dismesse, con una doppia finalità, il recupero ambientale delle aree e la tutela di aree più pregiate.
Grandi opportunità di sviluppo e di crescita vi saranno per il territorio siciliano forse capace finalmente di attrarre capitali ed investimenti “puliti” dall’Estero per un percorso di rilancio e di sviluppo che permetterebbe di recuperare risorse, occupazione e competitività nella pericolosa prossimità dell’estinzione nel 2012 delle risorse comunitarie che imporranno un PIL regionale esclusivamente sostenuto dalle sue uniche risorse e capacità.

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TUTTO SULLA FINE DEL MONDO
Davide Camarrone
 
Un giorno, al Liceo Italo Calvino, il professor Marcello, insegnante di Educazione Fisica, decise che, da quel momento in poi, avrebbe rinunciato alle sue battaglie di principio per la riapertura della palestra inagibile, e non avrebbe più insistito, con gli alunni, per una partita a basket sotto un canestro senza rete, o a calcio tra due porte sbilenche, sul cemento scivoloso di muschi e crepato dai ficus del giardino accanto. D’ora in poi, si disse, nelle sue tre classi avrebbe discusso dell’aria aperta all’aria aperta, e del sole al sole, della corsa correndo, e del buon cibo mangiando.
Il Professor Marcello disse al Preside Antonio che quella era la sua ferma volontà, e il Preside ne fu contento. Non ci sarebbero più state polemiche su quella dannata palestra con la scritta sul cornicione: “Voi siete l’aurora, voi siete la speranza, voi siete soprattutto l’esercito di domani”.
E il Liceo Calvino, una volta Liceo Italo Balbo, avrebbe riconquistato l’autorevolezza e la quiete di un tempo. Niente più tempestosi collegi dei docenti, niente più consigli d’Istituto con genitori pronti a rivendicare i loro buoni diritti di pagatori di tasse. Fu così che diede il suo assenso.
Il Preside non fu il solo a dichiararsi d’accordo con il Professor Marcello. Lo furono quasi tutte le altre classi, con cinque docenti di Filosofia, sette di Matematica, otto di Scienze Naturali e al completo gli insegnanti di Storia e Letteratura. Latinisti e grecisti, da par loro, si presero del tempo, e con una lettera ben scritta, nel giro di un paio di giorni, motivarono la loro scelta d’astensione. Il Destino, dissero, è cosa assai lontana dal volere degli uomini.
Il Professor Marcello convocò subito una riunione e insieme ai suoi colleghi individuò una strategia. Un po’ diversa da quella che aveva immaginato, ma di grande efficacia.
Chiederemo ai ragazzi – dissero – di raccogliere le opinioni dei loro genitori sull’inquinamento, l’effetto serra, il surriscaldamento del Pianeta.
Bisognerebbe conoscere tutte le opinioni, esclamò il Professor Marcello, per sceglier la migliore. La scuola attingerà alla realtà.
I ragazzi furono entusiasti di quella decisione: avrebbero studiato la Fine del Mondo.
I compiti furono consegnati nel giro di un mese. Tutti ben congegnati, per sesso, età, occupazione, opinioni.
Una speciale commissione mista, di insegnanti e studenti, mise in ordine quella messe di dati.
C’erano di quelli che rileggevano le profezie del Club di Roma, e i saggi degli economisti indiani, e discettavano di bilanci sociali, e rivedevano J. M. Keynes, attualizzando J. Schumpeter e prendendosela con il liberismo, la radice di tutti i mali, ma anche i nipotini di Marx avevano le loro colpe, pure se non bisognava esagerare: erano pur sempre animati da buone intenzioni.
C’erano di quelli che si documentavano, e sapevano calcolare con buona approssimazione il tempo che ci sarebbe voluto perché tutte le alterazioni indotte dall’uomo nel ritmo naturale del Pianeta giungessero al loro compimento irreversibile: si sarebbero sciolti i ghiacci, e l’acqua, premendo sulla crosta terrestre, avrebbe finito con il provocare delle immani eruzioni, che avrebbero oscurato il cielo e determinato una nuova glaciazione.
C’erano di quelli che tenevano ossessivamente d’occhio l’incremento delle sostanze tossiche – gas serra, particelle sottili, metalli pesanti, fo-sforo, scorie radioattive – e vegliavano sul loro focolare domestico come se da quello dipendessero le sorti del mondo: niente fumo e bicicletta, case Feng Shui, e dunque niente campi magnetici, né cellulare né tv, cibi biologici e al bando i Suv.
C’erano di quelli che s’attardavano dinanzi alla televisione, schiacciando compulsivamente un pulsante dietro l’altro, e inseguendo con il telecomando i programmi sull’Apocalisse prossima ventura: surriscaldamento, modifiche genetiche, estinzione d’ogni forma di vita. E a notte alta, sazi di disperazione, ricomponevano i frammenti delle loro intuizioni: basterebbe poco, pochissimo, pensavano, per salvarci. E si stupivano che nessuno ci avesse pensato prima di loro.
C’erano di quelli che avrebbero voluto un G120, anziché un G8 – con i rappresentanti di tutti i Paesi del mondo intorno ad una tavola rotonda, a pronunciare un giuramento come antichi cavalieri in difesa del Regno: combatteremo il Drago, e il Serpente alato, il Cavaliere del Male e l’Usurpatore, e dunque: energie pulite, fonti rinnovabili, decrescita dei consumi e cibi sani – e ci credevano pure.
C’erano di quelli che avevano delle opinioni moderate al riguardo, e pensavano che si stesse esagerando, e che in fondo era meglio che accadesse quel che doveva accadere, non troppo tardi né troppo presto, e che nell’attesa bisognava fare una vita sana, ma senza per questo rinunciare a tutte le comodità che offriva il mondo: che bastava stare in mezzo, per non sbagliare.
C’erano di quelli che avevano il coraggio di scegliere le posizioni più impopolari, di proclamare a voce alta le loro opinioni controcorrente – gli scienziati si sbagliano, i ghiacci alla deriva e le temperature fuori controllo sono eventi occasionali, indeterminabili dalle attività umane – cercando ogni possibile riscontro, in un profondo bisogno di consolazione, e dicendosi, in conclusione, che non spettava a loro di emetter la sentenza: “Se deve accadere, accadrà, molto tempo dopo di noi”.
C’erano di quelli che avevano letto Michael Crichton, ed erano perfettamente consapevoli che quella dei verdi o ambientalisti o ecologisti era solo una menzogna catastrofista, e che ad ogni tentativo di corregger la natura, quella giustamente si ribellava, dando luogo ad un disastro peggiore del male che si voleva combattere, e dunque era inutile opporsi ad un disegno superiore all’uomo e alle sue paure.
C’erano di quelli che avevano messo da parte i ritagli dei giornali che attestavano la ricrescita dei ghiacci, e le foto del ritorno degli orsi polari sulle piattaforme antartiche, e gli editoriali rinfrancanti, e le cifre e le statistiche contro corrente, e poi, scendendo da casa, tossivano nel traffico, e fermavano una lacrima, con un dito.
C’erano di quelli che non ci pensavano, e sorridevano, e davano gas alle loro motociclette, facevano la spesa al supermarket e al sabato, tiravano fuori dal garage i fuoristrada e s’intruppavano sulle autostrade, verso le ville, i villaggi, i campeggi. Sul mare. Trascuravano i trigliceridi e il colesterolo, buttavano già due antistaminici al giorno contro le allergie e guardavano tutto quanto, in tv, tranne Discovery Channel.
Infine, c’erano quelli che decidevano.
Al Consiglio dei Docenti, il Professor Marcello prese la parola per primo, ed illustrò con dovizia di particolari quel lavoro, assai ben fatto, e chiese a ciascuno dei presenti d’intervenire. Al momento di far la prima mossa, gli altri insegnanti (anch’essi per gran parte genitori), che avevano ben studiato come disporre i loro pezzi sulla scacchiera – detti e contraddetti di filosofi, scienziati e scrittori –, si guardarono in viso, sconcertati, e dissero, pressoché all’unisono, che forse non era il caso di trar subito delle conclusioni: gli studenti erano stati forse un po’ precipitosi, in quelle loro indagini.
Il Professor Marcello ribadì che solo nella scuola poteva trovarsi una via. I ragazzi avevano detto del loro smarrimento, dinanzi alle opinioni degli adulti.
Ma i colleghi non vollero saperne. Anzi, dissero che quella del Professor Marcello era stata una pessima idea. Era stato così empirico, e poco idealista, partir dalle opinioni, accrescere la confusione di quelle giovani menti con la confusione dei loro genitori! Questi ultimi, poi, vedendosi spietatamente ritratti in quelle schede, si rivoltarono, e al Preside consigliarono di far meglio il suo mestiere: l’Educazione Fisica è movimento di braccia e gambe, e non di cervello.
Il Professor Marcello aveva oltrepassato il confine.
Il Preside si disse dispiaciuto, ma quella decisione – osservò con piglio ministeriale – era stata condivisa, certo ingenuamente, dalla gran parte dei professori. Non si poteva procedere contro uno solo di essi. Raccomandò prudenza.
Finì che la palestra fu riparata, grazie al munifico intervento di uno dei genitori, e i canestri e le porte furono ripristinati. I ragazzi tornarono a giocare, e dimenticarono lo studio della Fine del Mondo.
Il Professor Marcello non se ne ebbe a male.
Forse dipese dalla scelta del Consiglio d’Istituto di programmare un seminario, a porte aperte, sull’Effetto Serra: sarebbero state rappresentate tutte le opinioni e i ragazzi se ne sarebbero fatta una propria, una per ciascuno.
Aspettando l’inevitabile, pensò.

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LE CITTÀ (E GLI) INVISIBILI
Cinzia Cipolla
 
Gli standard raggiunti e consolidati in vari ambiti grazie al progresso tecnologico sono ormai considerati indispensabili per mantenere gli stili di vita dell’uomo del terzo millennio: sistemi edilizi, sistemi di trasporto, sistemi di comunicazione, sistemi di produzione, sistemi di alimentazione etceteta.
Nel corso degli anni, sono stati compiuti sforzi notevoli per migliorare la vivibilità, ma solo da poco si presta particolare attenzione agli “effetti collaterali” che l’umanità paga come corrispettivo del beneficio raggiunto. Questi “effetti collaterali” non possono solo essere valutati nell’ambito generico della collettività ovvero dell’ambiente esterno condiviso, ma anche dal punto di vista individuale e soggettivo, ovvero dell’ambiente interno, rappresentato e delimitato dal corpo umano che nello svolgimento delle attività quotidiane entra subdolamente in contatto con fattori chimici o fisici dei quali deve tener conto.
La casa rappresenta da sempre sicurezza e protezione dal clima esterno, confortevole luogo di riparo. Eppure oggi si parla di “Sindrome dell’Edificio Malato” per descrivere un insieme di sintomi riferiti dagli occupanti un edificio e correlati genericamente alla permanenza nello stesso, e di “Malattia correlata all’Edificio” per patologie in diretta correlazione ad un agente etiologico presente nell’edificio dove vi sia stata permanenza.
Le misure per il contenimento dei consumi energetici degli edifici hanno progressivamente portato ad una riduzione della ventilazione che unitamente alle diverse abitudini di vita della popolazione e al contemporaneo uso di prodotti di largo consumo con elevato carico inquinante concorre a creare una miscela di nuovi e vecchi contaminanti diluita in maniera meno efficace che in passato.
Oltre che di cattiva qualità dell’aria, sempre esistita, nella ristrettezza degli spazi e nel sovraffollamento tipici delle classi sociali povere, oggi si può anche parlare di nuova cattiva qualità dell’aria dei ricchi per la presenza negli edifici di nuovi materiali tessili, vernici, pitture e adesivi.
Il suolo e le acque sorgive, i materiali di costruzione di origine lavica possono emettere un gas radioattivo naturale, il radon, incolore ed insapore, che si diffonde rapidamente nell’ambiente. Si tratta di un cancerogeno riconosciuto, seconda causa di morte per tumore del polmone dopo il fumo di sigaretta.
All’aperto le concentrazioni sono insignificanti, ma in ambiente chiuso aumentano secondo la ventilazione e la dimensione dello spazio. Gli edifici moderni, con sistemi di ventilazione spontanea ridotti per garantire l’isolamento termico, intrappolano la radioattività proveniente dal suolo, amplificandola.
Per limitare i rischi legati al radon bisogna limitarne la concentrazione sia isolando l’edificio alle fondamenta sia garantendo l’areazione in modo conforme ai principi dell’architettura sostenibile.
Alcuni contaminanti dell’aria negli spazi che abitiamo sono prodotti da attività dell’uomo: fumare, cucinare, riscaldare l’ambiente. Talora la concentrazione di queste sostanze nell’aria si innalza perché i dispositivi e gli impianti sono difettosi o per la scarsa ossigenazione della fiamma, ma anche in questo caso è determinante la scarsa areazione ambientale.
Tra questi contaminanti rientrano l’anidride carbonica e il monossido di carbonio (causa di ipossia talora letale).
L’intervento dell’industria chimica nel settore edilizio ha portato all’utilizzo di materiali sintetici per gli arredi, le tappezzerie, la pavimentazione. Vernici, colle, mobili, tessuti, stampanti, prodotti per la pulizia della casa emettono Composti Organici Volatili (COV): metano, benzene, formaldeide.
Nei pannelli multistrato, nelle traverse di parquet, nelle moquette, nelle carte da parati e negli smalti, è presente la formaldeide che tende ad avere rilasci prolungati nel tempo, diversamente dagli altri composti volatili la cui emissione tende a ridursi rapidamente, nell’arco di settimane o mesi.
Il benzene, per il suo largo uso, è praticamente insostituibile: nylon, fibre sintetiche, alcuni tipi di gomma, lubrificanti, coloranti, solventi, inchiostri ma non dimentichiamo, tra le fonti, negli ambienti confinati il fumo di sigaretta. I livelli di benzene negli edifici risultano così più alti che nell’ambiente esterno.
I sintomi dipendono dal prodotto, dalla concentrazione, dalla suscettibilità individuale e vanno dall’irritazione congiuntivale, al mal di testa, alle vertigini, alla nausea, alla bronchite cronica La formaldeide e il benzene sono stati messi in associazione all’insorgenza di tumori e l’esposizione prolungata a basse dosi di benzene può provocare malattie del sangue.
Nelle vecchie case, si possono ancora trovare pannelli isolanti per rivestimento ed insonorizzazione in asbesto (amianto). L’asbesto, minerale fibroso, non è pericoloso se non rilascia fibre nell’aria ma dopo un certo numero di anni i pannelli tendono a sgretolarsi e rilasciare fibre. Le fibre vengono inalate causando mesotelioma pleurico e tumore polmonare.
In genere, nelle case, la concentrazione di amianto areodisperso è bassa, ma se si pensa di avere pannelli di amianto in casa, è opportuno farli rimuovere ad opera di ditte specializzate.
Dall’impasto con resine sintetiche, si ottenevano materiali utilizzati per freni e frizioni di autoveicoli e dall’impasto con il cemento si otteneva l’eternit ampiamente usato per tubature e serbatoi d’acqua (s’intuisce la possibilità di esposizione bevendo acqua contaminata).
Data la documentata cancerogenicità, ne è vietata oggi l’estrazione, la produzione e il commercio.
In ambiente lavorativo, l’uso di fotocopiatrici può esporre all’ozono, gas velenoso, costitutivo dell’atmosfera dove funge da schermo protettivo nei confronti delle radiazioni ultraviolette, ma generato anche negli ambienti confinati. Oltre a causare stanchezza e cefalea, causa irritazione delle mucose delle vie aeree.
Le onde elettromagnetiche sono normalmente presenti in natura in quanto generate da elementi radiattivi ma possono essere generate aggiuntivamente dal movimento di cariche elettriche Negli ambienti confinati, l’impianto elettrico, i telefoni cellulari, le antenne radiotelevisive e le linee ad alta tensione sono fonti di onde elettromagnetiche.
La scienza medica non ha ancora prove valide per affermare i rischi sulla salute prodotti dall’esposizione a tali onde. Tuttavia esistono alcune segnalazioni in particolare sul rischio di leucemie in bambini esposti.
È opportuno non tenere più apparecchi elettrici accesi contemporaneamente, limitare il numero di alogene, tenere lontani televisore ed impianto hi-fi, non tenere sul comodino la radiosveglia, tenere i bambini lontani dal televisore e dallo schermo del computer.
Oltre all’ambiente in cui viviamo, anche il cibo assunto quotidianamente può contenere elementi nocivi alla salute.
Il mercurio presente nei pesci predatori come tonno e pesce spada ma anche nel pesce in scatola e nell’acqua potabile inquinata da rifiuti industriali, l’alluminio presente nelle pentole e poi assorbito dal cibo e il piombo presente nelle vecchie tubature possono causare intossicazioni da metalli con danno al tessuto cerebrale al sistema nervoso periferico, al rene (mercurio), e provocare anemie (piombo).
Cibi conservati in ceramiche smaltate a piombo e cotte a temperatura insufficiente a fissarlo sono fonte di assunzione di piombo. La normativa ha abbassato i livelli di piombo consentiti nelle ceramiche ma non sono parimenti efficaci le normative estere. Ancora, può essere presente piombo nell’acqua che corre in vecchie tubature, in vernici a base di piombo, nei cosmetici e nelle sigarette.
All’intossicazione cronica da piombo (saturnismo) è stata attribuite la morte di personaggi come Beethoven, Goya e van Gogh.
Nei vegetali sono naturalmente presenti nitriti e nitrati. La loro presenza è necessaria per consentire la sintesi proteica dei vegetali. Gli stessi vegetali sono anche ricchi di vitamina C che inibisce la trasformazione di nitrati (di per sé innocui) in nitriti e di questi in nitrosammine.
L’uomo con i fertilizzanti azotati ha inquinato le falde acquifere ed ha anche utilizzato questi composti come additivi degli insaccati per sfruttarne l’azione antimicrobica e favorire e mantenere il colore rosso della carne. I nitriti, dal dopoguerra, hanno sostituito i tradizionali conservanti naturali, sale-pepe-peperoncino-fumo.
L’utilizzo risponde anche a una legge di mercato: paradossalmente, in assenza di nitriti gli insaccati avrebbero colore grigio e il prodotto non sarebbe venduto. Con i nitriti il colore è mantenuto dopo mesi.
I nitriti in ambiente acido e quindi nello stomaco, si legano alle ammine formando nitrosammine ad azione cancerogena in particolare sullo stomaco. Inoltri i nitriti legandosi all’emoglobina formano metemoglobina riducendo la capacità di trasporto di ossigeno ai tessuti.
Un individuo normale ha bisogno fisiologicamente di circa 750 mg di cloro al giorno che per lo più assume come cloruro di sodio, il comune sale da cucina.
Il cloro viene utilizzato per la disinfezione dell’acqua destinata alle abitazioni e alla potabilità per la prevenzione di malattie infettive derivanti dall’assunzione di acqua contaminata.
L’effetto disinfettante perdura nel tempo ma l’effetto secondario è la produzione di trialometani, tossici per il fegato e per il rene e ad azione cancerogena nei topi.
Negli Stati Uniti il cloro è stato sostituito dalle cloroammine inorganiche (prodotte della reazione del cloro con l’ammoniaca), perché formano pochi sottoprodotti di disinfezione come i trialometani anche se l’ammoniaca causa corrosione del piombo e del rame delle tubature.
Coloranti, conservanti,antiossidanti, correttori di acidità, addensanti, emulsionanti, gelificanti, stabilizzanti, lievitanti, esaltatori del gusto, dolcificanti… C’è molta confusione in materia e diversi sono gli additivi permessi dalle normative nei diversi paesi.
Gli alimenti biologici sono caratterizzati da coltivazioni lontane da fonti di inquinamento, ma pur garantendo la sicurezza per l’assenza di additivi sono a rischio di formazione di muffe e tossine che rappresentano un problema per la salute.
In conclusione, non potendo oggi perseguire un’ideale qualità dell’aria negli ambienti confinati, se ne ricerca una qualità quanto meno accettabile, e non disponendo di cibi sicuri né con i prodotti biologici né con i tradizionali è consigliabile una dieta variata, che non esponga massivamente a singoli fattori.

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LA PERFEZIONE DEL DIVERSO
Nino La Spina
 
Il titolo che mi è stato assegnato riecheggia, intenzionalmente, Le città invisibili di Calvino. Al di là dell’assonanza, esso definisce un ambito molto diverso rispetto alle città descritte in quel libro del 1972, che erano invisibili perché in buona parte immaginarie e visitate solo in viaggi mentali. Non avendo io la penna né la fantasia di un romanziere, e ritenendo al contempo che vi sia molto da capire e da dire sulla realtà empirica, le riflessioni che seguono saranno dedicate alle città, per così dire, di carne e sangue. In parte ciò che dico riguarda gli spazi urbani in genere, in cui tutto si concentra (produzione, scambi, consumo, politica, culto, movimenti, tempo libero, amministrazione, cultura, e così via), divenendo così, in linea teorica, facilmente visibile per molti. D’altro canto, visto che un gruppo di persone come noi, esponenti di un associazionismo che è in genere la prima forma di espressione della società civile, si mette all’opera per produrre una rivista o bollettino che dir si voglia, è anche e forse soprattutto alla città in cui il club ha sede e in cui vivono gli associati che la mente va.
Dell’approccio di Calvino, però, una cosa il mio scritto condivide. Infatti, nel descrivere le sue città (entro le quali sono racchiusi frammenti di città reali) egli guardava dove tutti gli altri non guardavano, verso dettagli che, pur esistendo, per i più risultavano praticamente invisibili. Invisibile non è ciò che non c’è (ovviamente), quanto piuttosto ciò che c’è, ma per qualche ragione non vediamo, talvolta perché è effettivamente difficile vederlo, talaltra perché, pur essendo in bella evidenza sotto il nostro naso, ci rifiutiamo, inconsapevolmente, ovvero consapevolmente, di accorgercene.
In una città vi sono anche cose che nascono come visibili, ma poi vengono opportunamente nascoste (tra cui le fognature, che un tempo erano a cielo aperto e oggi non dovrebbero esserlo più); cose che in passato erano invisibili e poi si sono manifestate (come tanti aspetti delle organizzazioni criminali); e infine ciò che era invisibile e dovrebbe restare tale, ma per qualche ragione viene disvelato (come comunicazioni tra comuni cittadini che impropriamente vengono intercettate e in vario modo fatte circolare). Possiamo poi distinguere tra persone e cose invisibili.
Quanto alle persone, ve ne sono alcune della cui presenza la città che conta si accorge solo in casi particolari, vale a dire se avviene qualcosa che va extra ordinem. I marginali, gli esclusi, i periferici (autoctoni o stranieri che siano) esistono, ma spesso non ce ne ricordiamo, ovvero la facciamo se si avvicinano a noi (il che peraltro in singoli casi accade con modalità moleste), mentre noi in genere preferiremmo che stessero lontani; o ancora se ha luogo qualche fatto grave (reati, incidenti, forme di protesta aggressive, e così via) che impone a chi è “centrale” (in senso sia fisico, sia sociale) di fare attenzione a chi è normalmente emarginato, distante, dimenticato, quindi invisibile.
Ancora, se pensiamo ai mezzi di comunicazione, per cui esiste ed è visibile ciò che “fa notizia”, vi è un’altra categoria di persone “invisibili”: coloro che svolgono senza clamore la loro attività lavorativa, familiare, ovvero di impegno civile e volontariato, che il più delle volte non vengono illuminati dai riflettori, e quindi non si vedono, ma fortunatamente ci sono.
Vi sono, in terzo luogo, persone che, almeno in parte, non sono abitualmente invisibili, ma lo diventano (o quantomeno vorrebbero diventarlo) in relazione a certe loro attività, che per varie ragioni è opportuno svolgere nell’ombra. Chi opera perseguendo disegni che violano la legge, o comunque gli procurano un vantaggio ingiusto, in genere (salvo quanto dirò alla fine) rifugge dalla luce del sole. Il mafioso, ad esempio, entra ed esce dalla visibilità: quando agisce nessuno lo doveva vedere, e anche chi lo avesse visto doveva tacere (per fortuna, questa omertà oggi viene sempre più spesso infranta); ma al contempo si doveva e si deve sapere che egli c’è, controlla il territorio ed esplica la sua forza intimidatrice; anche dei latitanti, per definizione invisibili, adesso si parla in continuazione, sicché essi diventano ben presenti nel cosiddetto immaginario collettivo (e peraltro oggi sempre più spesso vengono catturati). Ma anche in altri mondi (la politica, l’amministrazione, le professioni, le attività economiche in genere, le lobbies e, perché no, anche la riproduzione culturale e intellettuale), senza che necessariamente questi siano contigui al crimine, vi sono attività, incontri, networks, comitati, soggezioni che non si devono vedere e di cui non si deve parlare pubblicamente. Vi è (e in ciò tutto il mondo è paese) chi lavora entro una sfera opaca per fare e disfare maggioranze, accordi, scambi, alleanze che limitino la concorrenza, chiudano accessi, distruggano opportunità, sottraggano forza e consenso all’avversario, con mezzi quanto meno discutibili (giacché se non lo fossero la lotta diverrebbe aperta e visibile). Vi sono talora novità eclatanti, che in sé sarebbero notiziabili, le quali tuttavia non ricevono “copertura” da parte di chi dovrebbe informare, che a propria volta si dedica magari a minuzie di scarso interesse, “visibili” solo per cerchie ristrette.
Vengo alle cose invisibili, o difficilmente rilevabili a occhio nudo: i gas serra, le polveri sottili, i batteri, i virus, la composizione degli alimenti, le sostanze nocive contenute nei vestiti, nei giocattoli, negli elettrodomestici, nei mezzi di trasporto, le onde elettromagnetiche, certi pericoli per la nostra salute e la nostra sicurezza sul posto di lavoro, a casa, per strada. Alcuni di questi “invisibili” ci sono sempre stati. La gran parte di essi, però, è nuova – perché deriva dall’urbanizzazione, dall’uso delle tecnologie, dall’industrializzazione, dalla pressione antropica – e si concentra nelle città.
Il cittadino medio, l’uomo della strada, non si accorge di questi “invisibili”, anche se vive immerso in essi. C’è bisogno che qualcuno glieli faccia notare. Ma ci sono interessi potenti, in genere, affinché l’invisibilità sia preservata. Ci accorgiamo della loro nocività, spesso, quando è troppo tardi. Cioè quando infine “vediamo” che una malattia è insorta, il clima si è alterato, un incidente è avvenuto. Il più delle volte, invece, la nostra vita in effetti peggiora, ma lo fa insensibilmente, e peraltro in mezzo a molti altri vantaggi che i medesimi fattori di rischio generano. Inoltre, buona parte di tali fattori non operano solo nella città in cui viviamo. Vengono da lontano (come la Asian brown cloud fatta di polveri e gas di scarico che si è formata sulla Cina e si è poi spostata verso il Mediterraneo, o la fauna marina tropicale che anch’essa sta popolando il nostro mare susrriscaldato a danno di quella autoctona), e talvolta hanno una dimensione addirittura planetaria, come l’effetto serra. D’altro canto, nelle città si potrebbe fare molto per tenere sotto controllo le cose invisibili e nocive.
Se ciascuna città facesse la sua parte, in tutte le parti del mondo, potremmo sperare nel futuro.
Dico qualcosa, infine, e molto in breve, su una peculiarità di alcune città. Vi sono parti del mondo in cui vige una, magari un pò ipocrita, “cultura della vergogna”. Nel senso che chi viola una norma socialmente condivisa ha un certo senso di colpa, e comunque viene stigmatizzato dalla collettività, il che induce la gran parte dei soggetti ad attenersi a tali norme, e i pochi che le violano a farlo di nascosto. In altre città, invece, la violazione è pubblica e visibilissima (sia va dall’abuso edilizio alla sistemazione di amici e parenti nella pubblica amministrazione, da chi si appropria di pezzi di strada, marciapiede, piazza, arenile, alle cataste di immondizia accanto a cassonetti strapieni, alle automobili in doppia e tripla fila, e l’elenco potrebbe continuare a piacere), ma rimane “invisibile” perché vi è un tacito accordo – che coinvolge non solo i cives (o gran parte di essi), quanto anche alcuni esponenti dei poteri pubblici – il quale prescrive di far finta di niente. Del resto, così come non vi è peggior sordo di chi non vuole sentire, non vi è peggior cieco di chi non vuole vedere.

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L’AMBIENTE INTERNO
Silvano Riggio
 
Che ci sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa (o almeno pochi lo sanno). Con una minima variante l’antico distico riguardante l’araba fenice può parafrasare la Diversità Biologica, comunemente nota come Biodiversità. Confinato ai circoli ristretti degli studiosi, dal 1992, anno della Conferenza Mondiale di Rio de Janeiro, il termine scientifico è sfuggito ai pochi naturalisti che l’usavano con una certa parsimonia ed ha contagiato il lessico di giornalisti, di politici ed altri, fino a diventare una parola di gergo massmediale, anche se altolocato. Ovviamente, nel suo girovagare fra i mass media, ha subìto tutte le storpiature e interpretazioni possibili. Un destino simile era toccato un trentennio prima ad Ecologia, a Gaja, allo sviluppo sostenibile. Qualcosa del genere si sta verificando per olistico, clone e staminale, com’è stato per gli anglismi DNA, network, border line, e all’orrido implementare.
Come dicevamo, Biodiversità è una specificazione di Diversità (che però corrisponde a varietà). Negli anni recenti questo lemma ha assunto significati nuovi aggiuntivi all’originale, coi connotati politici e culturali che contrassegnano tutto ciò che non rientra nella normalità intesa come media di fatti e comportamenti. Per i nuovi naturalisti che usano il termine nel suo significato canonico, la Biodiversità resta una categoria estremamente seria ed importante, ed implica in coloro che la usano la padronanza di un’infinità di saperi ed esperienze: per questo motivo il suo uso è necessariamente datato e sottintende un’elevata preparazione scientifica.
La Biodiversità definisce quindi un concetto giovane, nato poco più di vent’anni addietro e cresciuto molto rapidamente: il neologismo era stato coniato nel 1984 da Bruce. Wilcox e fu consacrato in letteratura da Edward O. Wilson, che aveva preferito questa forma sincopata a quella di Diversità Biologica. Il termine ebbe subito successo e soppiantò l’originario; è complesso in quanto raggruppa in un’unità logica una moltitudine di significati integrati in un concetto onnicomprensivo. Con esso si identifica l’essenza delle realtà naturali che compongono la complessità.
Questa a sua volta ingloba quelle realtà naturali che appaiono all’analisi come insiemi di parti e di processi interagenti e che in altre parole sono sistemi dinamici.
Per questa sua ricchezza di significati e per l’intenso storicismo la Biodiversità è un concetto di dimensioni universali, onnipresente nella Biosfera, e di importanza non inferiore all’Evoluzione.
A differenza di altre categorie scientifiche, i fatti complessi della Biodiversità hanno il dono della concretezza e visibilità e non sono solo comprensibili attraverso l’astrusità dei modelli matematici. Tutti i viventi siamo testimoni e parte in causa della Biodiversità. L’aspetto forse più importante è la possibilità di quantificarla: la sua stima ha luogo attraverso parametri specifici, in genere abbastanza semplici, come l’indice di Shannon – Weaver, e la flessibilità degli indici usati ne fa degli strumenti molto sensibili per l’analisi dell’ambiente.
Non esiste fenomeno interessante la Vita nel quale la Biodiversità non venga in qualche modo coinvolta e non subisca cambiamenti più o meno vistosi. Qualsiasi evento naturale, così come qualsiasi intervento dell’uomo, si ripercuote immediatamente sui suoi valori. Un incendio, un’alluvione, un terremoto, un mutamento anche temporaneo delle condizioni climatiche, abbassano i valori della Biodiversità; al contrario i valori di essa aumentano in rapporto a situazioni di stabilità e in séguito ad interventi costruttivi e migliorativi delle condizioni ambientali.
Ramòn Margalef sottolineò qualche decennio orsono la relazione profonda fra la Biodiversità e il contenuto di informazione dei sistemi ecologici, contribuendo così a dare a questo concetto quel significato sistemico ed universale che ne fa una disciplina di avanguardia.
Componenti di base della Biodiversità sono: i – i numeri di specie – o altre categorie tassonomiche – di un ecosistema, che formano la ricchezza specifica, caratteristica primaria, potrebbe dirsi anagrafica, di ogni ecosistema; ii – la distribuzione del numero degli individui per ogni specie. Quest’ultima caratteristica è l’equitabilità, che raggiunge i suoi massimi valori quando ogni specie tende ad essere rappresentata da numeri di individui simili.
Di conseguenza la massima biodiversità si osserva non soltanto quando gli ecosistemi ospitano un alto numero di specie, ma quando la specie sono distribuite nelle proporzioni più omogenee possibili.
L’una e l’altra condizione informano i paesaggi terrestri, e risaltano immediatamente agli occhi dell’osservatore. Paesaggi molto vari, ricchi di specie, si distinguono per la loro rigogliosità, che, se eccessiva, indica una probabile eutrofizzazione. È infatti normale osservare un’esplosione di vegetazione in coincidenza di scarichi fognari o di apporti detritici urbani; viceversa la povertà di specie configura paesaggi desertici o sub desertici, o degradati da contaminanti e da interventi sbagliati.
I paesaggi dei luoghi con alta equitabilità sono quelli dell’armonia, del rispetto delle proporzioni e del miscelamento ottimale delle specie. In questi ecosistemi non si osserva il prevalere di una o poche specie sull’insieme, ma si mette a fuoco un mosaico, un puzzle di entità viventi alternate sapientemente e distribuite come in un patchwork. Ovviamente, i paesaggi con alta equitabilità unita ad alta ricchezza specifica sono i più godibili e più rasserenanti. Sono quelli che hanno raffigurato la bellezza classica del Mediterraneo e la bellezza esplosiva della natura tropicale. Capri, Taormina, Portofino, Palma di Majorca, i laghi dell’Insubria, rappresentano i primi; l’isola di Reunion, Mauritius, le isole dei Caraibi, il Nord Est brasiliano e la Polinesia sono esemplificativi dei secondi.
Difficilmente luoghi come questi sono ecosistemi ad alta produttività, in quanto la produttività netta delle comunità, quella utilizzabile dai consumatori (fra cui l’uomo), aumenta quando sia la ricchezza specifica che l’equitabilità sono basse. Da questa situazione, espressa dall’equazione P/R > 1 (in cui P è la produttività ed R è il consumo).
risultano ecosistemi dominati da piante erbacee che identificano i biomi di steppa e di prateria. Il paesaggio di entrambi si sviluppa sulle infinite distese pianeggianti delle aree continentali. La massima produttività agricola si raggiunge nella steppa che l’uomo ha creato artificialmente dalla distruzione delle foreste primarie. Nell’agricoltura industriale la produzione viene massimizzata con la monocultura. Il suo risultato è un’esasperazione della povertà specifica dei biomi di steppa cui si legano instabilità, degrado e inquinamento. In assenza di una sapiente amministrazione, gli ecosistemi più produttivi sono destinati a desertificarsi.
Nelle zone umide sono particolarmente produttive gli estuari, le basse lagune costiere, le zone di risalita (upwelling). Nei luoghi ad alta produttività la ricchezza specifica si abbassa, l’equitabilità scende a valori minimi per la prevalenza delle poche specie dominanti, e e i paesaggi si caratterizzano per la loro esasperante monotonia.
Da questa premessa si traggono almeno due conclusioni. Una è che l’ambiente ideale è un mosaico nel quale le tessere sono aree ad alta produttività alternate ad aree a bassa produttività ma con alti valori di Biodiversità. L’esempio ottimale sono le campagne dell’Italia centrale, oggetto dei pittori del nostro Rinascimento, nelle quali le aree coltivate si intersecano a lembi di macchia e foresta. Nel paesaggio umbro, toscano e nella campagna romana si raggiunse un rapporto equibrato fra l’uomo e l’ambiente naturale, oggi fortemente a rischio. Un rapporto ottimale si raggiunse anche in quegli ecosistemi semi naturali che furono i terrazzamenti ad olivi e vigne, l’agrumicoltura valliva come quella della Conca d’Oro e delle colline iblée, le risaie indocinesi.
Una seconda conclusione è che la bellezza di un paesaggio è in una certa misura la risposta adattativi dell’uomo alla Biodiversità. La Bellezza non è una sensazione soggettiva, come spesso sostenuto, ma è un sentire comune alla media degli individui, che causa attrazione e smorza gli impulsi aggressivi e distruttivi. In altre parole, il brutto ci respinge mentre ciò che è bello suscita comportamenti protettivi e conservazione, oltre al desiderio di godimento.
Ed essendo la Biodiversità strettamente connessa con la stabilità dell’ecosistema, con la sua capacità di riciclare le acque, l’aria e gli elementi nutritivi, di riparare i guasti degli ecosistemi ad alta produttività, la Bellezza è l’unità di misura della sanità dell’ambiente e della qualità della vita, non solo umana. La bellezza ci accomuna strettamente ad una Natura ricca di piante ed animali e ci affratella alla Biosfera, facendoci sentire parte di essa. Lungi dall’essere un lusso o una frivolezza, la Bellezza è una necessità, è la misura della nostra qualità di vita, è la prospettiva di sopravvivenza della nostra specie in armonia con il nostro pianeta vivente. Ha quindi un senso anche per la Scienza, l’affermazione di Dostojevskii che la Bellezza ci salverà. Noi lo speriamo.

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LA LEGGE AMBIENTALE PIÙ ANTICA DEL MONDO
Livio Rossetti
 
Per carità, non voglio dire che Socrate, accanto a mille altre benemerenze e a qualche difettuccio, sia stato anche un paladino della “lotta all’inquinamento”. Ma Socrate e Platone sono stati pur sempre testimoni (e non necessariamente testimoni involontari e inconsapevoli) di un disinquinamento riuscito. Proprio grazie alla loro testimonianza, e alla fortunatissima circostanza di essere informati anche sulla decisione di disinquinare, veniamo a sapere di un corso d’acqua pulito, di un contesto ambientale accogliente e sano, e di una fase anteriore in cui invece l’inquinamento doveva essersi spinto davvero avanti.
Partiamo dunque dall’inquinamento in atto e dalle misure adottate per porvi un limite, salvo poi ritornare su chi attesta che, almeno in quel caso particolare, il disinquinamento è stato effettuato ed ha avuto gli effetti sperati. Il nostro punto di partenza obbligato è infatti un decreto che venne fatto incidere su pietra e che è fortunosamente pervenuto fino a noi. Si tratta di una delibera presa dal “consiglio comunale” di Atene tra il 440 e il 420 a.C. (dunque ai tempi di Pericle o della guerra del Peloponneso, quando Socrate era fra i trenta e i cinquant’anni). Che in epoca così “alta” si sia potuto pensare a prendere una delibera e istituire un divieto allo scopo di porre rimedi efficaci ad alcune forme gravi di inquinamento è una circostanza significativa in primo luogo dal nostro punto di vista in quanto è del tutto eccezionale avere accesso al testo di una norma anti-inquinamento e precisamente al testo che all’epoca venne reso pubblico. In effetti non risulta che sia pervenuto qualcosa di comparabile lungo un arco di tempo oltremodo lungo (secoli, difficile dire quanti). Del resto non fa parte delle conoscenze correnti l’individuazione di atti di governo espressamente dedicati alla tutela dell’ambiente.
La delibera è ancor più interessante per il fatto di obbligare, come vedremo, i privati – probabilmente un certo numero di facoltosi industriali – a trasferire i propri laboratori lontano da una certa zona perché, a quanto pare, in quella zona il tasso di inquinamento era diventato. Si direbbe che, all’epoca, l’opinione pubblica ateniese fosse già pervenuta a riconoscere la pericolosità sociale di alcuni comportamenti abituali e l’opportunità di imporre limiti e divieti, anche a costo di obbligare qualcuno a sostenere per questo delle spese importanti.
Ciò di cui stiamo parlando è un oggetto in pietra reperito sulle pendici orientali dell’Acropoli di Atene intorno al 1920, pubblicato per la prima volta nel 1923 e prontamente inserito nel corpus delle iscrizioni greche (IG I3 257). La stele non è molto lavorata; in compenso il testo dell’iscrizione è disposto a scacchiera (stoichedon, direbbero gli epigrafisti). Il testo può così essere tradotto: ] dracme e sia il basileus a provvedere. (Il presente decreto) sia trascritto su un blocco di pietra e sia collocato dai due lati. (Non è consentito) né mettere i pellami a imputridire nell’Ilisso a monte del tempio di Eracle né praticare la concia (di pelli) né gettare gli scarti (della lavorazione del cuoio) nel fiume.
Nella parte sopravvissuta dell’iscrizione si parla dapprima della somma da stanziare allo scopo di predisporre due stelai di uguale tenore, quindi si dà mandato all’arconte basileus di provvedere. In base a quanto segue subito dopo capiamo che lo stanziamento doveva riguardare, come minimo, la realizzazione e posa in opera dei due blocchi di pietra di qua e di là del fiume (che la delibera prevedesse anche un mandato a far rispettare la norma è una eventualità sulla quale si può solo speculare).
Il fatto che sia esplicitamente menzionato il basileus ci fa capire che la delibera affidava la sua esecuzione all’arconte basileus, quello che aveva competenza in materia religiosa, e di un’area protetta corrispondente ai dintorni di un luogo sacro ben identificato. Ora l’iscrizione nomina espressamente il fiume Ilisso e un tempio di Eracle che è stato effettivamente localizzato in prossimità del fiume, alle porte della città. Ciò significa che la delibera non venne presa da un ente territoriale minore (es. il piccolo demos nel cui territorio ricadeva il tempietto) ma dalla Boulè (il “consiglio dei cinquecento”), il principale organismo collegiale dello stato ateniese, con ampi poteri legislativi, organizzativi e di spesa. Di conseguenza non sorprende che la stele sia stata ritrovata non vicino al fiume ma sulle pendici dell’acropoli (è possibile che un terzo esemplare dell’iscrizione fosse stato collocato in qualche punto della città a titolo di notifica per tutti i cittadini), ma che una delibera di interesse locale abbia interessato la Boulè e l’arconte al quale, per la carica, spettò anche di gestire il processo a carico di Socrate.
Avendo un interesse solo locale, dobbiamo pensare che la delibera sia stata adottata su proposta e dietro le insistenze delle persone più direttamente interessate al futuro di quel particolare luogo di culto (sacerdoti e amministratori del tempio di Eracle). È interessante notare che il demo o i demi più direttamente interessati a questa delibera – in ipotesi il demo Diomeia, o il demo Alopeke (quello in cui è nato Socrate, per l’appunto) – non vengono menzionati nemmeno allo scopo di identificare con precisione i luoghi.
Veniamo ora a ciò che la delibera impone. Si trattava non semplicemente di creare una zona di rispetto e quasi delimitare degli spazi attorno al tempio, ma di bloccare la lavorazione dei pellami in tutta l’area circostante e soprattutto a monte, verosimilmente per via degli effetti a largo raggio (inquinamento delle acque, emanazione di cattivi odori ecc.) che quella lavorazione produceva. Capiamo, perciò, che non avrebbe avuto senso vietare la lavorazione delle pelli in un punto e autorizzarla cento metri più in là. Si vuole che tutta una vasta zona venga letteralmente liberata da questa particolare attività economica (industria di trasformazione), non si vogliono più sentire i cattivi odori, non si vuole più vedere il marciume, si vuole ripulire il corso del piccolo fiume e tornare a veder scorrere dell’acqua accettabilmente pulita. Sia pure con l’obiettivo dichiarato di tutelare un luogo sacro, la delibera introduce dunque dei divieti che riguardano unicamente un’attività economica, i suoi effetti negativi sull’ambiente e la conseguente necessità di porre fine a questa attività: uso di tenere i pellami, verosimilmente grandi quantità di pellami, immersi nel piccolo corso d’acqua; uso di lasciare in zona i materiali di scarto della lavorazione. Non si dice però che d’ora in avanti non si potranno lavorare i pellami da nessuna parte, ma solo in quella particolare zona. Ciò equivale pertanto a imporre il trasferimento di un intero gruppo di aziende (di un “comparto industriale”) in altre zone del territorio di Atene.
Capiamo che il divieto perseguiva anche un obiettivo di carattere religioso, ma solo indirettamente, e che gli effetti propriamente voluti dal legislatore non erano di tipo religioso ma di tipo economico e igienico-sanitario di cui la promozione del culto poteva solo trarre un evidente vantaggio. Infatti è ragionevole supporre che a mobilitarsi per proporre e far approvare questo decreto furono proprio i responsabili del tempio di Eracle. Forse avranno vissuto con speciale fastidio la presenza in zona di laboratori dediti alla lavorazione dei pellami, con conseguente inquinamento dell’acqua ed eventuale moria di animali (se non anche di bambini), diffusione di cattivi odori, proliferazione degli insetti aerei et sim. ravvisando in ciò la causa della progressiva decadenza del tempio e di una parallela diminuzione dell’afflusso di donativi. Essi avranno verosimilmente ricondotto le loro inquietudini sul futuro del tempio al degrado ambientale e avrebbero chiesto (con successo) l’intervento del legislatore allo scopo di rimuovere tale causa ponendo fine alla lavorazione dei pellami nella zona.
La cosa ha un curioso riscontro: anche in una favola di Esopo, la favola 309 Chambry, compare il tentativo di imporre a un conciatore di pelli di trasferirsi altrove a causa dei cattivi odori prodotti nell’esercizio della sua attività.
Come si vede, ciò che prende forma è una vera e propria catena causale: lavorazione dei pellami inquinamento ambientale danni gravi per la salute ridotto appeal del tempio di Eracle decreto ordine di trasloco per un intero gruppo di aziende aspettativa di un graduale ma sostanziale risanamento sia delle acque dell’Ilisso sia delle rive, sia dell’atmosfera attesa di un netto miglioramento della qualità della vita per chi viveva nella zona aspettative di ripresa, sempre nel medio periodo, dell’afflusso di fedeli (e donativi) al tempio di Eracle.
Ciò significa che i responsabili del tempio di Eracle fecero un ragionamento complesso, chiedendo di agire sulle cause e rifuggendo da meri palliativi.
Ora, se la decisione ha riguardato solo una particolare area, dobbiamo pensare che lì il livello dell’inquinamento avesse raggiunto livelli particolarmente gravi, al punto da determinare un circoscritto ma inequivocabile disastro ambientale. È probabile perciò che nella zona ci fosse non semplicemente una forte concentrazione di aziende ed artigiani del settore ma la maggiore concentrazione in Attica e che il decreto emanato dalle autorità ateniesi abbia avuto la pretesa di sradicare da lì un intero settore produttivo.
Con ciò stesso dobbiamo per forza di cose immaginare che la richiesta si sia scontrata con gli interessi corporativi di un numero considerevole di artigiani del cuoio, tra i quali anche alcuni imprenditori ricchi e potenti. All’epoca, infatti, la lavorazione dei pellami rappresentava un settore produttivo molto importante e un’attività economica di grandi proporzioni che, non a caso, proprio nel corso degli ultimi decenni del V secolo fece la fortuna di uomini pubblici come Cleone (bersaglio delle accuse di Aristofane intorno al 425-420 a.C.) e Anito (principale accusatore di Socrate nel 399 e, in seguito, bersaglio delle accuse dei Socratici).
Capiamo che solo un’autorità politica importante avrebbe potuto contrastare, in nome di interessi “generali”, gli interessi di un gruppo imprenditoriale importante. Se fosse stato un semplice demo a dover prendere una simile decisione, il tessuto di interessi legato alla presenza in zona di molte aziende e di molti lavoratori del cuoio, nonché di molto denaro, sarebbe probabilmente riuscito a bloccarla. È dunque probabile che la decisione sia stata anche piuttosto traumatica, presa a seguito di un infuocato dibattito, ed è a questo punto che scatta una prima sorpresa. Se gli industriali del settore avessero ingaggiato un buon retore per tentar di prevenire l’approvazione del decreto, questi avrebbe potuto facilmente produrre argomenti pressoché irresistibili. Per esempio avrebbe potuto sostenere che la decisione di diminuire il tasso di inquinamento nella zona dell’Ilisso avrebbe necessariamente comportato la generazione un maggiore inquinamento in altre zone (senza contare poi l’inutilità delle enormi spese connesse al trasferimento dei laboratori), dunque che gli effetti derivanti da un simile divieto sarebbero stati transitori, non risolutivi e quindi pressoché illusori. Avrebbe potuto facilmente sostenere che sussiste una grave sproporzione tra l’enormità del danno economico, immediato e certo, e il carattere tutt’altro che immediato dei benefici attesi, benefici che possono anche essere considerati solo probabili (solo sperati). In effetti era facile convincersi che il trasferimento di tutte quelle aziende in un’altra area avrebbe comportato l’inevitabile riprodursi di forme analoghe di inquinamento in un futuro non lontano, e questo anche supponendo che il nuovo insediamento fosse addirittura disabitato. Avrebbe potuto sostenere che la sola misura veramente efficace sarebbe stata, semmai, la soppressione di tutti gli insediamenti dell’industria dei pellami, e che dunque si trattava di decidere non su un problema circoscritto – il degrado ambientale di una piccola zona, l’eventuale declino di un tempio – ma sull’opportunità o meno di sopprimere una volta per tutte la lavorazione del cuoio in Attica, e avrebbe avuto la certezza che nessuno voleva o pretendeva di chiudere un settore produttivo così importante per poi attivare una importazione su vasta scala. Insomma avrebbe avuto fuor di argomenti a sostegno degli interessi degli industriali. Costruire simili ragionamenti doveva essere così facile che ci dobbiamo chiedere cosa mai avranno potuto obiettare i sostenitori del decreto. In effetti è difficile immaginare i loro argomenti. Se avessero sostenuto che l’inquinamento derivante dalla lavorazione dei pellami ha bisogno di anni per cominciare a nuocere in maniera grave all’ambiente si sarebbe potuto obiettare che anche il disinquinamento avrebbe avuto bisogno di anni per produrre benefici tangibili all’ambiente e quindi alla salute. Ha senso chiedersi, perciò, come mai i politici e i legislatori di Atene non esitarono a mettere in seria difficoltà un intero settore produttivo. Infatti sappiamo bene che l’abbondanza delle opportunità di lavoro e la molta ricchezza prodotta hanno sempre costituito un più che efficace antidoto contro le iniziative di bonifica del territorio per le esigenze di chi vi abita, e difficilmente Atene può aver fatto eccezione a una simile regola. Possibile, dunque, dunque che una simile decisione sia stata presa solo per accontentare i sacerdoti e gli amministratori del tempietto di Eracle, ovvero gli allevatori di animali della zona? Quanto doveva essere potente la lobby del tempio di Eracle? E come non immaginare che proprio gli industriali del cuoio tenessero buoni i responsabili del tempo con offerte mediamente generose? Per di più sappiamo con certezza che l’industria del cuoio continuò ad essere fiorente, ossia non venne affatto smantellata. Ma allora? A meno che… Una risposta c’è. Proprio intorno al 430 a.C. ad Atene scoppiò una terribile quanto famosa pestilenza, su cui riferisce in dettaglio Tucidide.
La pestilenza potrebbe ben aver offerto quel movente più grave di cui abbiamo cominciato a intuire l’esigenza. La decisione potrebbe essere stata presa a causa della pestilenza e del conseguente desiderio di intervenire in modo concreto su alcune possibili cause o concause di quella tremenda strage di viventi. In tal caso, la drasticità della delibera sarebbe stata proporzionata alle drammatiche dimensioni assunte dal contagio.
Forse i legislatori sperarono, con un simile decreto, di incidere in maniera credibile su un pericolo evidente per la salute pubblica senza per questo provocare immediatamente analoghe situazioni di rischio in altre zone. Potrebbero aver pensato cioè – e non senza motivo – che l’urgenza di fare comunque qualcosa fosse un buon motivo per eliminare subito un evidente focolaio di malattie (magari provvedendo anche, una tantum, a raccogliere e bruciare i residui della lavorazione dei pellami sparsi lungo le rive dell’Ilisso) e nel frattempo confidare che la produzione di inquinamento ad opera dei nuovi insediamenti della lavorazione dei pellami fosse accettabilmente diluita nel tempo, tanto da rappresentare un pericolo di gran lunga minore al confronto con il livello di degrado già osservabile sulle rive dell’Ilisso. Questo e, forse, solo questo sarebbe stato un argomento in grado di tener testa alle prevedibili obiezioni degli industriali.
L’argomento è interessante. Suppone che nella zona dei conciatori ci fosse stata una maggiore incidenza della peste, così da pensare a un probabile nesso causale, e la cosa non è poi tanto inverosimile.
Il decreto è stato efficace? Giunti a questo punto vorremmo sapere se il decreto – il più antico decreto ecologico a noi noto – fu o non fu efficace, ed è merito di un tedesco, Hermann Lind, aver trovato la prova della sua efficacia. In un articolo del 1987 il Lind ha istituito, anzitutto, un collegamento fra questa iscrizione e un’altra iscrizione da cui si evince che, almeno intorno alla metà del IV secolo, nella zona erano localizzati dei servizi di tutt’altra natura: dei servizi di lavanderia che evidentemente presupponevano la buona qualità delle acque e delle stesse rive. In secondo luogo si è rifatto alla descrizione delle rive dell’Ilisso che figura quasi all’inizio di un dialogo platonico, il Fedro (230ac). Qui Socrate si sofferma, per una volta, a parlare dell’ambiente naturale: “vedi quel platano? Lì attorno c’è ombra, un bel venticello e anche un prato su cui sederci o distenderci … qui le acque sembrano piacevoli e adatte perché le ragazze ci vengano a giocare (come racconta il mito) … e poi più avanti c’è un altare…”. A sua volta Fedro (il suo interlocutore): “ma sì, possiamo anche stare con i piedi nell’acqua…” Insomma un posto piacevole, tutto men che inquinato, privo di presenze disturbanti.
La conclusione di Lind è impeccabile: i due dati fanno pensare che il decreto emanato intorno al 430 ebbe concreta e tangibile attuazione e che, di conseguenza, la zona un tempo inquinata subì un efficace processo di disinquinamento, fino a trasformarsi, anni dopo, in una zona pulita e addirittura esteticamente gradevole, con bei prati e aria profumata, come scrive Platone. Dunque le aziende vennero effettivamente smantellate (e trasferite). Per arrivare a una simile trasformazione saranno sicuramente occorsi degli anni (ad es. cinque o dieci anni), ma ciò significa che le tracce dell’inquinamento finirono davvero per scomparire, e non solo a distanza di oltre mezzo secolo (il Fedro fu composto intorno al 370 a.C.), ma anche all’epoca della vecchiaia di Socrate, quando anche Platone cominciò a frequentare il filosofo. Molto probabilmente il Lind ha ragione.
La norma fu verosimilmente dettata da una situazione di emergenza, fu verosimilmente piuttosto traumatica, ma produsse proprio gli effetti desiderati, e questo è straordinario. Noi abbiamo il privilegio di assistere quasi al dibattito che portò alla delibera, di avere la delibera sotto gli occhi, e di sapere che essa fu in grado di produrre gli effetti desiderati. Una meraviglia? La nostra probabile attitudine all’applauso si stempera un poco quando pensiamo alla pestilenza e all’emergenza, ma in ogni caso capiamo che quell’emergenza venne presa proprio sul serio.
Una iniziativa episodica? Ma che pensare, allora, del dopo-emergenza? L’iniziativa degli ateniesi sarà rimasta episodica e avrà apportato solo benefici locali ai danni di un’altra zona? Non sappiamo (non si può pretendere di sapere), ma è interessante notare che proprio Platone, nelle Leggi, si è occupato proprio di tutela delle acque dall’inquinamento. In particolare nel libro VI (760b763c) egli si sofferma sull’esigenza di costituire un corpo di agronomoi (“vigili dei campi”), poi parla della necessità di tenere sotto controllo il flusso dell’acqua con argini, dell’opportunità di abbellire le sorgenti con prati e muretti e di far affluire sufficienti quantità d’acqua nei boschi sacri e nei ginnasi, e infine parla delle mense da riservare agli agronomoi e di problemi organizzativi e disciplinari relativi a questo reparto che egli si immagina militarizzato. In un altro passo egli si occupa anche dei casi di conflittualità nella gestione delle acque destinate a qualche forma di irrigazione dei campi (VIII 844a845e) e parla della precarietà dell’acqua, che può essere facilmente inquinata, e che «pertanto ha bisogno di una tutela legale». Seguono sanzioni a carico di chi inquina l’acqua degli altri. Può così prendere forma qualcosa come un vero e proprio “reato ecologico”. Per di più fa esplicito riferimento ai palaioi kai kaloi nomoi (“leggi antiche e belle”) relativi alle acque dei campi e precisa che sarebbe superfluo riproporre in dettaglio le stesse norme.
Anche Aristotele, del resto, ha avuto modo di affermare che la salute degli abitanti dipende molto dalla disponibilità di acque sane cioè pulite, e aggiunge: «di ciò bisogna darsi pensiero e non alla leggera».
Proprio per questo «in tutte le città sagge, se le fonti non sono tutte ugualmente pure e non ce n’è abbondanza, si deve tener separata l’acqua potabile da quella adibita ad altri usi» (Politica VIII 1330b418).
Come si vede, prende forma tutto un contesto di attenzione per la qualità delle acque, e questo costituisce, direi, proprio la tessera mancante: quel decreto non è passato solo per via di una grave emergenza sanitaria (l’epidemia), ma anche perché nell’Atene dell’epoca (ma probabilmente anche in un contesto molto più ampio) si aveva già una chiara idea dell’importanza di tutelare la qualità dell’acqua, perché era già affermata un’apprezzabile sensibilità ecologica. Complimenti! Bibliografia di base H. Lind, «Sokrates am Ilissos. IG I3 1 257 und die Eingangsszene des platonisches ‚Phaidros’», Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 69 (1987): 15-19.
P. Fedeli, La natura violata. Ecologia e mondo romano (Palermo, Sellerio, 1990).
E. Klingenberg, «La legge platonica sulle fontane pubbliche», Symposion (1974): 283305.
O. Longo, «Ecologia antica. Il rapporto uomo/ambiente in Grecia», Aufidus 5 (1988): 3-30.
O. Longo, «Conciapelli e cultura in Grecia antica», Lares 57 (1991): 5-24.
L. Rossetti, «Il più antico decreto ecologico a noi noto e il suo contesto», in T. M. Robinson – L. Westra (eds.), Thinking about the Environment. Our Debt to the Classical and Medieval Past (Lanham MD, Lexington Books, 2002): 44-57.

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IL PROGRAMMA PER UNA MACCHINA CHE NON ESISTE
Filippo Sorbello
 
Mia cara Lady Lovelace. Mi sembra così inutile aspettare di avere un po’ di tempo libero che ho deciso di lasciare tutto a metà e di partire per Ashley portando con me abbastanza carte da dimenticare questo mondo, tutti i suoi fastidi e se possibile i suoi innumerevoli ciarlatani insomma, tutto fuorché la Maga dei Numeri. Lei è ad Ashley? Il mio arrivo non sconvolgerà i suoi progetti? … Siamo nel settembre del 1843 ed a scrivere questa lettera è Babbage, matematico inglese e primo ad occuparsi di calcolatori programmabili.
La Maga dei numeri è Ada Augusta Byron, donna deliziosa come si può ammirare dai quadri, grande matematica, figlia del poeta romantico Lord Byron. La madre di Ada, lasciata dal marito pochi mesi dopo la nascita della bambina, ne ottenne la tutela e per evitare che potesse sviluppare le medesime inclinazioni del padre le dette una solida educazione scientifica.
In quel periodo le donne non potevano avere accesso all’Università per cui la sua educazione scientifica fu affidata a grandi scienziati. A 17 anni, Ada conobbe Mary Somerville autrice di numerosi testi scientifici e socia della Royal Astronomical Society. La Somerville le fu maestra ed amica e la indusse ad affrontare gli studi della matematica con un taglio vicino alla sfera filosofica e poetica. Ada si chiedeva, ancora giovane, se qualunque espressione analitica esprimesse qualcosa di reale anche se non ancora noto e se fosse possibile costruire una geometria a più di tre dimensioni. Della sua educazione scientifica si occupò anche il famoso logico matematico De Morgan, professore dell’Università di Londra.
Ada ebbe una educazione scientifica raffinata, non comune in quel periodo ed in particolare per una donna. Era inevitabile che rappresentasse una anomalia: i suoi amici erano, tranne qualche eccezione, grandi scienziati: il fisico Brewster, il fisico Wheatstone, il fisico Faraday ma anche lo scrittore Charles Dickens.
In questo ambiente Ada conobbe il quarantunenne logico matematico Charles Babbage, professore della più importante cattedra di matematica a Cambridge, e fu affascinata dalla universalità delle sue idee ed in particolare dalle macchine per il calcolo meccanico che egli intendeva costruire. Anche Babbage costituiva una anomalia: la sua straordinaria intelligenza lo portava ad affrontare e concepire temi scientifici che precorrevano i tempi. Ada e Babbage per motivi diversi erano due personalità straordinarie fuori dal loro tempo; straordinari furono i risultati del loro incontro.
Babbage, all’età di cinque anni, e di nuovo a quella di dieci, fu affidato alla custodia di un prete che dirigeva una scuola, vicino Londra, con l’incarico di curare la sua salute e di educarlo senza affaticarlo con molte lezioni: quest’ultimo incarico, a detta di Babbage, fu portato a termine con zelo. Le condizioni economiche agiate della sua famiglia gli consentirono comunque di continuare gli studi a casa e di raggiungere un livello adeguato per accedere all’università. Durante il periodo degli studi universitari in matematica sostanzialmente si annoiava: gli argomenti trattati nei vari corsi gli sembravano troppo semplici. Di conseguenza approfondiva autonomamente argomenti di livello superiore.
La sua mente era vulcanica: si interessava di tutto quello che riguardava la scienza e le tecnologie. La sua opera più nota L’Economia delle Macchine e delle Manifatture costituì, per anni, il primo trattato di logistica industriale; si interessò anche di statistica, delle segnalazioni per le nascenti ferrovie e di macchine per il calcolo automatico.
La prima macchina da calcolo che Babbage progettò ed in parte costruì fu la macchina alle differenze, per il calcolo di tavole matematiche e astronomiche e per la quale, nel 1824, gli fu assegnata una medaglia d’oro da parte della Royal Astronomical Society. Questa fu la prima macchina che Babbage mostrò ad Ada ma fu la successiva, la macchina analitica, che affascinò Ada.
La macchina analitica precorreva di un secolo la costruzione del primo calcolatore programmabile: aveva una architettura simile agli elaboratori elettronici attuali: se ne differenziava per la tecnologia che usava solo parti meccaniche. La macchina di Babbage, come gli odierni calcolatori, era programmabile, aveva una memoria interna, poteva effettuare delle scelte, consentiva la ripetizione di cicli di istruzioni, leggeva le schede perforate. Recentemente, la IBM non ha avuto la possibilità di aver riconosciuti brevetti nel settore perché facevano riferimento a idee già pubblicate da Babbage, cento anni prima.
Ada capì subito le possibilità della macchina, ancora in fase di progettazione, e che non fu mai costruita per mancanza di fondi. L’insaziabile curiosità di Ada consolava Babbage dell’incomprensione dei suoi contemporanei e dei governi inglesi che si erano rifiutati, dopo otto anni di indugi, di finanziare la realizzazione dell’opera. Il lavoro di Babbage sulla macchina analitica fu però apprezzato a Torino, nel 1841, in occasione di una presentazione pubblica destinata a matematici ed ingegneri. In quella occasione il conte Menabrea, comandante del genio piemontese, scrisse una relazione in francese per il suo governo, che costituì la prima descrizione delle caratteristiche tecniche della macchina. Il successo ottenuto in occasione di questa presentazione indusse Babbage a donare al Re del Piemonte tutte le tavole del progetto accompagnandole con una dedica commossa.
Ada tradusse in inglese la relazione di Menabrea ed aggiunse sette note personali di lunghezza più che doppia rispetto al testo originario. Prendendo spunto dal fatto che la macchina usava le schede perforate come il telaio Jacquard, Ada “… afferma(va) … che la macchina analitica tesse(va) motivi algebrici proprio come il telaio Jacquard tesse(va) fiori e foglie”. In una lettera a Babbage scriveva: “Voglio inserire in una nota qualcosa sui numeri di Bernoulli per esemplificare come la macchina sia in grado di calcolare una formula implicita senza che un essere umano ci abbia messo prima la testa e le mani.” Infatti in una nota viene descritto un metodo, da lei elaborato, per il calcolo dei numeri di Bernoulli e sono riportate le istruzioni del programma di calcolo per la macchina analitica, ancora in fase di progetto.
Il programma di Ada per il calcolo dei numeri di Bernoulli, di gran lunga più complesso di qualunque altro analogo tentativo di Babbage, giustifica pienamente il riconoscimento di Ada come una delle protagoniste principali della storia dell’informatica. Le sue note sono la prima descrizione di un computer e di un software. Ada intuì che i numeri sono sia entità che quantità. In questo modo, una macchina capace di manipolare numeri, può manipolare anche altri simboli quali lettere o note musicali rappresentate dai numeri stessi. Rifacendosi alle relazioni fondamentali tra i suoni nella scienza dell’armonia e della composizione musicale, Ada prevedeva di poter arrivare..all’elaborazione di pezzi di musica scientifici, lunghi e complessi quanto si vuole. In ogni caso la macchina analitica non aveva la pretesa di creare nulla: Può fare qualsiasi cosa noi sappiamo come ordinarle di eseguire. Ada anticipava di oltre un secolo le possibilità dell’attuale mondo digitale: si pensi ai CD musicali ma anche alla videoscrittura o alle immagini digitali. Babbage invece, rimase legato ad una visione più ristretta della sua invenzione concepita unicamente come strumento per l’esecuzione di calcoli algebrici.
Anche la vita di una donna eccezionale ha alti e bassi. Ada amava scommettere sulle corse dei cavalli e per pagare i debiti di gioco fu costretta a vendere i gioielli di famiglia. Cominciò a drogarsi e si ammalò.
Non si attenuò però l’incredibile orgoglio che la contraddistingueva; di sé diceva: Credo di poter contare su una straordinaria combinazione di qualità che mi predispongono più di qualsiasi altro a scoprire le realtà nascoste della natura.
Gli effetti della droga e la malattia la indussero a comportamenti irrazionali: applicando le proprietà del calcolo delle probabilità cercò di mettere a punto dei metodi per vincere alle corse dei cavalli ma in questo modo dissipò le ultime risorse della famiglia. Morì dimenticata a 36 anni. Solo nel 1953 furono riscoperte la sua attività e le sue profetiche intuizioni.
Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di America, nel 1980, chiamò Ada un potentissimo linguaggio di programmazione per calcolatori ampiamente utilizzato nelle applicazioni aerospaziali e militari.
Ada Augusta Byron contessa di Lovelace (1815 – 1852) Charles Babbage (1791– 1871)

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UN NUOVO UMANESIMO
Aldo Spinnato
 
L’Umanesimo, movimento culturale che afferma la dignità degli esseri umani, nasce in Italia durante il periodo rinascimentale (XIV-XV-XVI) e ben presto si diffonde in tutta l’Europa.
“Oggetto” dell’Umanesimo Rinascimentale è l’Essere Umano che “si auto-costruisce nella sua libertà e si esalta nella sua dignità” (Pico della Mirandola: “Orazione sulla dignità dell’uomo”).
L’Umanesimo Rinascimentale, che pone la visione filosofica del “Macro-antropo come Grande Miracolo di un Microcosmo infinito” (Leonardo), inizia la parabola discendente con la nascita della scienza sperimentale e lo sviluppo delle filosofie razionaliste e meccaniciste: Cartesio con il “Discorso sul metodo” pone “la ragione” a distinguere l’uomo dagli animali; la metodologia di Galileo sostiene che la ricerca scientifica deve svolgersi su basi “razionali”; le formule matematiche di Newton consentono esprimere le leggi fondamentali della meccanica. Nel 1700 in tutta Europa, specialmente in Inghilterra e in Francia, si diffonde “l’Illuminismo “, filosofia che si basa sulla potenza della Ragione, un “lume” che squarcia il buio culturale diffuso per tutto il Medioevo dallo strapotere da parte del clero nel campo del sapere. Spinte concrete provengono dalla borghesia motivate da malesseri sociali ed economici.
Un vero principio rivoluzionario nel rapporto Uomo-Mondo emerge dalle opere di Feuerbach (Landshut Ludwig, 1804-1872) filosofo tedesco esponente della sinistra hegeliana, influente critico della religione. Per Feuerbach l’Oggetto-Mondo quale realtà esterna al Soggetto può e deve essere modificato da parte dell’Essere Umano per vantaggio al singolo e alla società. Tesi di lotta sociale che dal mondo della sudditanza lavorativa investe le prebende esclusive del clero e della nobiltà. Alla fine del XIX secolo nuove correnti filosofiche, che si definiscono “Umaniste”, sostengono l’egemonia delle capacità umane su quelle divine e attribuiscono la politica e la produttività a vantaggio del singolo quale utile componente della massa. Dal sociale emerge l’Umanesimo Marxista (Ernst Bloch, 1880/1959 – Rodolfo Mondolfo, 1877/1976 – Herbert Marcuse,1898-1979 ) che si pone in antitesi con la società capitalistica perché quest’ultima non consente all’Essere Uomo il pieno soddisfacimento dei bisogni naturali e lo conduce a perdere la sua Umanità e la sua Socialità.
Nel 1946 Sartre (Jean Paul, 1905-1960) esprimendo il suo “Manifesto dell’Umanesimo Esistenzialista” entra nel mondo della politica alla ricerca di una terza via fra l’Ideologia Comunista e quella Cristiana.
L’Uomo, quale Esistenza lanciata nel Mondo, si auto-costruisce nella libertà di scegliersi e di scegliere, di progettarsi e di farsi; accettare compromessi dalle gerarchie sociali e ad esse sottomettere routine di propri comportamenti codificati significa rifiutare questa Libertà e quindi cessare di essere Umano.
A Sartre viene contrapposto l’Umanesimo Cristiano di Maritain (Jacques, 1882-1973) il cui fondamento ideologico, “Teocentrico” è assunto da Partiti di ispirazione cristiana, in opposizione a Partiti di ideologia marxista e liberale: le esigenze umane possono essere risolte perché l’Uomo, figlio di Dio, è a priori partecipe della salvezza del Cristo. “L’ideale supremo cui deve tendere l’opera politica e sociale dell’umanità è l’inaugurazione di una città fraterna, la quale non comporta la speranza che tutti gli uomini saranno un giorno perfetti sulla terra e si ameranno fraternamente, ma la speranza che le condizioni di vita umana e le strutture della civiltà si avvicineranno sempre più alla perfezione, la cui misura è la giustizia e l’amicizia”.
Fondamentale si rileva l’approccio filosofico di Martin Heidegger (1889-1976) che considera l’Essenza dell’uomo come fenomeno naturale derivato non nella sua “animalitas” ma dall’essere “animale razionale”, operante in una differenza ontologica con il mondo degli oggetti naturali. Tuttavia Heidegger sottolinea che lo hiatus fra gli Enti (gli oggetti del mondo) e l’Essente (l’Essere Umano) tende oggi a ridursi sempre più e che l’uomo prevalentemente è costretto ad esprimersi nella sua utilizzabilità, “cosificandosi”, divenendo “macchina biologica” cioè forza lavoro, produttore e consumatore. Secondo Heidegger, se da questo fenomeno globale di cosificazione non vi è possibilità di far emergere altro valore se non quello dell’utilità, l’Essere Umano perde il senso, il significato della propria esistenza. Ne profila la distruttività della società tecnologica, e pone la radice del nichilismo. Intanto, nella seconda metà degli anni 960, nell’America Latina in un clima di malessere diffuso, numerosi fermenti giovanili contestano il potere economico-politico delle grandi finanziarie. Sorgono le Comunità per lo Sviluppo Umano che hanno scopo di diffondere l’alfabetizzazione e creare basi culturali per favorire il progresso sociale tanto da contrastare l’egemonia politica locale. Analogamente svolgono opera di solidarietà sociale “Medici senza frontiere”. Questi nuclei di impegno per la difesa dei diritti civili del singolo rappresenteranno le basi ideologiche di un Movimento che ben presto, dopo che troverà la adesione delle locali culture di avanguardia sociale, economica e religiosa, rapidamente si diffonderà creando una nuova Ideologia, un nuovo Umanesimo laico orientato da un socialismo di connivenza liberale. In Europa il movimento fa rinascere una visione antropo-centrica fra Marxismo e Teocrazia e, in particolare, che la tensione fra politica socialista e cattolicesimo necessitano sempre più di una revisione dei limiti di frontiera ideologica. Stralcio del problema lo si coglie in maniera immaginifica in “Toto modo” di Leonardo Sciascia. “Bisogna dunque distruggere. Non c’è altra via, non c’è altro scampo. Distruggere, distruggere. Il nostro più grande errore, il più grande errore commesso da coloro che hanno governato, o che hanno creduto di governare, la Chiesa di Cristo, è stato quello di identificarsi, ad un certo momento, con un tipo di società, con un tipo di ordine. È un errore che perdura, anche se molti ormai e cominciano ad avere coscienza che è un errore… Tutto concorre, tutto ci aiuta; …ci aiuta la scienza, ci aiuta la sazietà; così come ci aiutano l’ignoranza e la fame… La scienza… L’abbiamo combattuta tanto! E infine, che scruti la cellula, l’atomo, il cielo stellato; che ne carpisca qualche segreto; che divida, che faccia esplodere, che mandi l’uomo a passeggiare sulla luna: che fa se non moltiplicare lo spavento che Pascal sentiva di fronte l’universo? Sarà finalmente la vittoria, il trionfo. La fine”.
Intanto nuove Ideologie di incontro fra l’Uomo e il Mondo emergono nella certezza che le politiche debbano essere sempre più universali nel tutelare la sopravvivenza dell’Uomo e della Natura mediante il buon funzionamento di un unico ecosistema globale, di cui essere responsabili.
Da Mario Luis Rodriguez Cobos, detto Silo, (Mendoza,1938) scrittore e filosofo argentino, negli anni ‘60 nasce l’Ideologia filosofica del Nuovo Umanesimo che ben presto sfocierà nel “Movimento Umanista”. Un Umanesimo non antropocentrico che deve agire affinchè la «Terra-Patria» dell’Uomo di Protagora sia sostituita da “Terra come misura» della salvezza dell’Uomo e come imprescindibile basilarità della esistenza planetaria. Ogni Essere Umano, in un “universalismo delle differenze” deve porsi verso la Natura come entità immanente e trascendente. Nel concetto di “Atteggiamento Umanista” l’essere umano, pur nel riconoscimento delle diversità personali e culturali, è posto in una indubbia eguaglianza come valore e ruolo centrale. Con rifiuto della violenza ogni verità assoluta va bandita e per la libertà di idee e di credenze è necessario che la ricerca e lo sviluppo della conoscenza provengano dal convergere culture diverse. E quindi l’ideologia Umanistica deve essere appresa come “Universalista”, come base creativa di tutte le culture perché il destino di un popolo non è più scindibile dal destino planetario.
Scopo primario del Movimento Umanista, è l’eliminare la “cosicità” degli esseri umani, e la sofferenza psichica e morale e il dolore fisico; ma l’Umanesimo non deve essere antropo-centrico perché le sorti dell’Uomo e della Natura sono strettamente collegate e perché la sopravvivenza del singolo è condizionata dal buon funzionamento di un unico ecosistema globale. Tuttavia tale Ideologia con facilità travalica nell’ipotetico, nella teorizzazione e, oltre a subire interessi ambientalistici spesso ammantati da vari naturismi, offre il fianco alla competizione con altre forze universaliste orientate all’utilizzo del singolo in favore di una società integrata e dipendente da gruppi di potere politico-finanziario. Oggi all’immagine-ruolo dell’Essere Umano come “macchina biologica”, attualmente dominante in Occidente, si contrappongono una serie di problemi. La “cosificazione” della Natura, in una sua produttività forzata e univoca, voluta dagli ambientalisti, spesso dietro motivazioni economico-finanziarie anche a livello di grandi multinazionali, spinge la Terra verso una crisi difficilmente risolvibile. Inoltre il ruolo di “animale cattivo”, che sempre più all’uomo viene assegnato, lo conduce a costringere le altre forme di vita in maniera sempre più indiscriminata solo allo scopo del profitto, e pone negative basi per una drammatica estinzione di alcune specie. L’“Uomo Buono” della tesi di Rousseau con la sua cultura non salva più la Natura perché è contrastato dalla “disumanità” della economia neo-liberista e dalla politica di estrazione marxista.
Nella nostra epoca, grandi trasformazioni sociali, culturali, scientifiche sono rivolte a una accanita ricerca del costante miglioramento delle condizioni di vita. Ciò in un progresso tecnologico, enfatizzato specie mediaticamente, i cui scopi umanitari sono di sovente solamente presunti. Di contro la visione del pianeta Terra dimostra che gli abitanti di molte nazioni e, talora, interi continenti, vivono la realtà in uno squilibrio immorale che non coniuga il riconoscimento del bisogno con la soddisfazione dello stesso. La conseguente lotta per la sopravvivenza induce un individualismo becero basato sul culto del denaro, mentre si sviluppano violenze, mancanza di solidarietà, xenofobia, nuovi revancismi e pseudo ideologie fasciste ad evoluzione totalitaria. Purtroppo, di sovente, qualora si apra una competizione con forze universaliste politiche ed economiche orientate all’utilizzo del minus in favore di una società che è parte integrante di gruppi consolidati di potere, l’Ideologia del Nuovo Rinascimento, e il Movimento politico che ne è derivato, rischiano rimanere posizione filosofica di eguaglianza universale ma solo teorica. Eppure, dato che ormai i confini fra i continenti sono sempre più teorizzati, l’intramontabilità del conflitto nel Mondo fra Essere Uomo ed Essere Diverso può trovare nell’Ideologia del Nuovo Umanesimo una concretezza di soluzione. Indubbiamente, però, al di là di ogni Umanesimo Planetario, il nostro futuro non può incorrere nel degrado proprio delle monoculture, ma deve essere una multipla ripetuta ibridazione frutto di contaminazioni spontanee o dai bisogni obbligate. Per concludere possiamo rivolgerci alla Mitologia che “come la testa recisa di Orfeo continua a cantare anche dopo la sua morte, anche a lunga distanza dal tempo della sua morte” (Karl Kerényi) e ricordare il Mito di Europa: Zeus, dopo aver sposata Europa, le diede tre regali: Talo, un Robot di bronzo, che sorvegliava le coste cretesi per difendere Europa; Un Cane che non si lasciava sfuggire qualsiasi preda; Uno Spiedo da caccia che non falliva il bersaglio. Così Europa seppe contenere i suoi confini. Dopo la morte le furono tributati onori divini. Oggi il Mito come è da interpretare? Noi potremmo sperare che l’unificazione Planetaria veramente potrebbe essere un ultimo regalo di Zeus, specie se Talo e il Cane rinunceranno a eccessive difese, mentre il bersaglio dello Spiedo da caccia potrebbe essere la Cultura di un Nuovo Umanesimo. Così, forse, la Terra potrebbe postergare ancora i funerei onori divini.

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